Lo schema ILVA: se lo Stato appalta i licenziamenti ai privati

E meno male che dovevano servire a tutelare i posti di lavoro. Le privatizzazioni delle grandi aziende italiane, poi riacquisite dallo Stato, sono un disastro dal punto di vista dell’occupazione: l’ex ILVA ne ha persi più di 30.000, TIM 60.000. E la lista prosegue

31.01.2024
Privatizzazioni grandi aziende italiane: Giorgia Meloni parla di Poste Italiane

Fu Benito Mussolini a crearle, Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi le abolirono, e ora Giorgia Meloni si sta impegnando per riportarle in auge: sono le partecipazioni statali. Anche se ormai il ministero non esiste più dal 1993 (mentre l’Italia era in piena buriana Mani pulite l’ex governatore della Banca d’Italia Ciampi pensò bene di svendere i gioielli di famiglia), oggi lo Stato sta tornando con i suoi capitali all’interno di quelle che furono le sue aziende. E mentre alla conferenza di fine anno Giorgia Meloni parla di privatizzare Poste e Ferrovie, otto giorni dopo annuncia l’intenzione di ricapitalizzare Acciaierie Italia, l’ex ILVA, portando la propria partecipazione al 66% con l’investimento di 320 milioni di euro, attraverso quello che ormai è il braccio operativo dello Stato per salvare le aziende italiane – che è Cassa depositi e Prestiti.

Nel balletto delle privatizzazioni resta da capire quanti siano in questi anni i posti di lavoro che sono andati in fumo nel passaggio da pubblico a privato (e ritorno), all’insegna del vecchio adagio italiano del “socializzare le perdite”. Perché quando le aziende dai privati ritornano allo Stato, spesso lo fanno alquanto “dimagrite”.

L’acciaio italiano torna italiano. Con 30.000 lavoratori in meno

L’ex ILVA, oggi Acciaierie d’Italia, un tempo parte del gruppo Italsider, uno dei simboli del boom economico italiano, potrebbe diventare una delle aziende nelle quali lo Stato ha la partecipazione più alta.

Dopo l’incontro con i soci di Arcelor Mittal, che non sono disposti a un aumento di capitale, il governo italiano ha deciso di investire 320 milioni di euro e di portare la propria partecipazione al 66%, dall’attuale 32. Più che una scelta strategica, però, sembra essere dettata dalla disperazione. Il rischio è che sulla storia contrastata dell’acciaieria di Taranto scorrano davvero i titoli di coda, perché i soci indiani non sentono ragioni e hanno detto con chiarezza che non intendono metterci più denaro. Se no il tavolo salta.

Come se non bastasse nei giorni scorsi vi sono andati anche i carabinieri per un’ispezione, legata a presunti reati ambientali. Perché l’ILVA guadagna sempre meno, ma non ha smesso di inquinare. Eppure quando nacque l’ILVA doveva essere un fiore all’occhiello della produzione italiana, all’interno dell’IRI. La privatizzazione è arrivata nel 1995, quando venne rilevata dalla famiglia Riva. Sono bastati sette anni in mano ai privati perché ci fosse il commissariamento. Dopo un tira e molla di sei anni, legato anche ai problemi di inquinamento ambientale che la popolazione segnala da anni, nel 2012 è arrivato un ulteriore commissariamento e nel 2018 l’azienda è passata ad Arcelor Mittal, che nel 2021 ha accolto l’ingresso di Invitalia (partecipata del ministero del Tesoro) con il 38%.

Il balletto degli ultimi dieci anni è andato in scena, secondo la versione da tutti condivisa, soprattutto per tutelare i posti di lavoro. Ma l’operazione non deve essere riuscita del tutto, perché si è passati dai 43.000 (tra dipendenti e indotto) del 1981 ai 10.000 di oggi (di cui 2.500 in cassa integrazione), ai quali si aggiungono 4.000 persone che fanno parte dell’indotto, che però diminuiranno ancora, visto che sono già partite le lettere di licenziamento.

A spiegare che cosa sia successo sono i dati impietosi, che sono stati forniti dallo stesso ministro del Made in Italy Adolfo Urso nel suo question time al Senato.

“Nel 2023 la produzione si è attestata a tre milioni di tonnellate, che è la stessa cifra del 2022. In programma c’era la produzione di quattro milioni di tonnellate, che nel 2025 sarebbero dovuti diventare cinque”, ha detto. “Nessuno degli impegni presi è stato mantenuto. In questi anni la produzione si è ridotta. Persino negli anni in cui era profittevole in Europa la produzione è stata mantenuta bassa, lasciando campo libero agli stranieri”. Che ora se ne vanno, e minacciano pure di adire le vie legali, cosa che farebbe volentieri lo Stato italiano, se negli accordi collaterali firmati dall’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio non fosse stato garantito lo scudo penale. La paura è che si finisca di nuovo nel commissariamento.

La situazione Autostrade: che cosa ha ritrovato lo Stato

Ma ILVA è solo un esempio di come gli ultimi governi si siano impegnati per ricomprare ciò che un tempo era loro, e che consentì con la vendita di sistemare i dissestati conti pubblici. Facendo però perdere asset fondamentali, che oggi rientrano spesso depauperati – o quasi. Perché tutto sommato, se ILVA è stato un flop su tutta la linea, il riacquisto della rete autostradale appare il minore dei mali.

Il ritorno allo Stato di Autostrade è iniziato con una tragedia, cioè il crollo del Ponte Morandi di Genova nel 2018 con un processo che è terminato nel 2021. La privatizzazione era stata perfezionata nel marzo del 2000, con l’ingresso di una cordata di banche e privati. Ma la creazione della società Autostrade per l’Italia risale al 1 luglio 2003. Dal 2007 le quote di maggioranza sono di Atlantia.

Il crollo del Ponte Morandi, e le polemiche conseguenti alle accuse di scarsa manutenzione, hanno convinto lo Stato a riprendere delle quote di Autostrade per l’Italia, che oggi è in mano a una cordata guidata da Cassa Depositi e Prestiti. Il 5 maggio 2022 è stato completato il passaggio a Holding Reti Autostradali S.p.A. (HRA) della quota dell’88,06% detenuta da Atlantia. Poco prima del crollo del Ponte Morandi Autostrade aveva 7.350 lavoratori. Nonostante un piano di assunzioni che ha portato all’interno dell’azienda 677 nuovi lavoratori dal 2019 al 2020, nel 2020 i dipendenti (anche per i pensionamenti) erano 6.844.

TIM, trent’anni dopo: il 60% di lavoratori in meno in uno dei settori più in crescita

Mentre il dossier presentato dal fondo KKR fa il suo corso e la cordata Macquaire-CDP è ormai fuori gioco, lo Stato italiano rispunta con l’ingresso in TIM di Poste, proprio una delle società che dovrebbe essere privatizzata: l’ultima notizia circolata è infatti quella di un ingresso di Poste Italiane, tramite la controllata Poste Vita.

La questione TIM è piuttosto delicata, non solo perché una parte è già francese, cioè del gruppo Vivendi, ma anche perché al centro di quest’ultimo affare c’è la rete unica: non solo quella che porterà internet veloce in Italia, ma anche quella gestita dalla società Sparkle, che si occupa di reti sottomarine; un asset strategico cruciale anche in senso militare.

Il rischio è quindi che le reti possano finire in mano straniera, come dalla privatizzazione in poi la Telecom stessa ha iniziato a parlare francese. La privatizzazione porta la firma di Guido Rossi e Romano Prodi, che ha deciso di mettere sul mercato Telecom nel 1998. All’epoca avevano 100.000 dipendenti. Oggi, dopo quasi trent’anni, Telecom (nel frattempo diventata TIM) ha 40.000 lavoratori. In un settore che negli ultimi tre decenni ha registrato una delle crescite maggiori.

Aerei e banche. Che cosa attende il governo di Giorgia Meloni

Le prossime partite che l’esecutivo si troverà a giocare riguardano l’ex compagnia di bandiera Ita Airways, che è in procinto di passare a Lufthansa, che ha già presentato la propria offerta; poi c’è l’annosa questione del banco Monte Dei Paschi di Siena.

Il ministero dell’Economia e delle finanze ha già avviato le pratiche per cedere la propria quota, che fu acquisita nel 2017, in piena crisi finanziaria della banca più antica d’Europa, con 20 miliardi del fondo banche in difficoltà.

Questa volta lo Stato ha sistemato i conti e ora restituirà l’istituto ai privati. Per capire come andrà, ci vediamo tra qualche decennio. I precedenti, però, non fanno ben sperare.

 

 

 

Photo credits: governo.it con licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT

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