L’istruzione e formazione professionale prepara studenti per il mondo del lavoro, ma è abbandonata a se stessa: i formatori (a partita IVA) lavorano trentasei ore contro le diciotto degli insegnanti di ruolo, con limiti retributivi ancora più bassi. E i lati negativi non finiscono qui.
INVALSI: che cosa dicono della scuola, che cosa la scuola dice di loro
Intervistiamo il presidente INVALSI Roberto Ricci: “Capisco le critiche degli insegnanti, ma le prove servono a misurare, non a giudicare, per raggiungere dei risultati. E in alcune parti d’Italia siamo in linea con i migliori in Europa, specie nella scuola primaria”
Che cosa sono le prove INVALSI, e perché generano sempre tante polemiche nel mondo della scuola?
Fino a un mese fa non lo sapevo neanche io, finché mia figlia – che frequenta la seconda elementare – non è arrivata a casa con un libro che non avevo mai visto, stracolmo di esercizi di italiano, matematica, prove di lettura e comprensione. Sfogliandolo l’ho trovato quasi divertente, per poi scoprire che in realtà queste prove generano parecchia ansia e un numero non trascurabile di polemiche tra insegnanti e genitori. I bambini non li ho intervistati, ma posso dirvi che mia figlia era un po’ infastidita dal fatto di avere un tempo prestabilito e limitato per fare gli esercizi: ha sentito la differenza tra una normale verifica e queste prove, che vengono somministrate identiche (a seconda dell’età) per tutti gli studenti italiani, e in giorni stabiliti a livello nazionale.
In media le INVALSI coinvolgono due milioni di studenti, dalla scuola primaria alla superiore, e si sono svolte nel mese di maggio; alcune devono ancora concludersi. I risultati si avranno il 5 luglio. Per quella data saremo pronti a darvi una fotografia del loro andamento, ma prima di analizzare i risultati volevo capire perché sono al centro di tante critiche.
Roberto Ricci, presidente INVALSI: “Alcune scuole italiane in linea con i migliori risultati europei, altre molto meno”
In realtà, le polemiche non sono generalizzate. Ci sono docenti del tutto a favore delle prove: anzi le trovano una possibilità per gli studenti di fare esperienza, visto che il loro percorso di studi prevederà sempre degli esami. I fan delle INVALSI sostengono che anche i bambini più piccoli devono mettersi alla prova, come poi faranno per tutto il resto del percorso scolastico, con esercizi uguali per tutti e con tempi stabiliti.
Altri docenti invece richiederebbero prove più semplici, senza risposte opinabili e soprattutto con quesiti non completamente standardizzati; prove che tengano conto delle capacità dei bambini con bisogni speciali e dei ragazzi da poco arrivati in Italia, che non conoscono la lingua e inevitabilmente sono più svantaggiati.
Quindi, per prima cosa, ho ascoltato gli insegnanti di ogni ordine e grado, dalle elementari alle superiori, e ho riportato i loro dubbi e le loro perplessità direttamente a Roberto Ricci, presidente dell’INVALSI, l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione.
Presidente, per prima cosa le chiedo: quale fotografia restituiscono le prove INVALSI su tutto il territorio nazionale?
Il quadro che è emerso negli anni è molto articolato, differenziato per gradi scolastici. Nella primaria i risultati sono piuttosto buoni, anche se non mancano delle preoccupazioni perché le piccole differenze registrate a questa età, negli anni, possono diventare molto rilevanti. I risultati sono positivi, ma lasciano già intravedere le difficoltà del sistema scolastico italiano; in particolare quelle territoriali, che se non si rivelano abissali nella scuola primaria di solito si accentuano nella scuola media e superiore.
Quindi partiamo da dati positivi.
Ci sono quote importanti di studenti che raggiungono i traguardi nelle competenze in italiano, matematica e inglese. Nella scuola primaria, ad esempio, ha funzionato molto bene lo sviluppo delle competenze di base, come la lettura, e nel Centro-Nord le differenze tra classi sono molto limitate. Questo succede anche in quelli che potevano essere i territori più difficili, cioè quelli in cui risiedono molti stranieri e dove il problema della lingua può influire parecchio. Invece la Lombardia e il Piemonte (Regioni dove ci sono più stranieri) hanno risultati molto soddisfacenti, di fatto in linea con i migliori Paesi europei, come la tanto citata Finlandia. Ma, mentre le Regioni del Centro-Nord hanno risultati solidi, nel Mezzogiorno gli esiti sono peggiori e ci sono quote più ampie di studenti in posizioni fragili. La scuola è uno specchio della società e al Sud ci sono tanti indicatori di fragilità. I ragazzi spesso non hanno le stesse opportunità rispetto a quelli del Centro-Nord.
Lo immaginavo, ma le dico la verità: sono un po’ stanca di sentire sempre la stessa storia che ormai ci raccontano dall’Unità d’Italia. Mi spiega esattamente le ragioni per cui la scuola al Sud risulta deficitaria di opportunità?
Purtroppo, nel Mezzogiorno ci sono istituti e classi di serie A e sezioni meno favorite.
Che cosa intende?
Capita di frequente che vengano concentrati in alcune classi e in alcune scuole gli studenti che provengono da situazioni sociali ed economiche più avvantaggiate, e questo incide anche sullo spostamento degli insegnanti e sull’organizzazione del servizio. Alcuni istituti risultano davvero penalizzati da queste scelte. Certo, la scuola non può modificare il territorio in cui opera, ma ci sono dei margini di manovra, e le risorse che sono state destinate a contrastare la pandemia hanno in qualche modo già contribuito a cambiare lo scenario. Speriamo che ci sia presto un’inversione di tendenza.
Parlando di fragilità, c’è un sistema di valutazione diverso per i bambini con difficoltà? Alcune insegnanti, ad esempio, non sono favorevoli alle prove perché non ritengono giusto somministrare gli stessi quesiti a bambini con bisogni speciali o a bambini arrivati in Italia da poco, che quindi non conoscono la lingua.
Questa osservazione mi permette di chiarire molte questioni, compresa la finalità stessa delle prove. Le INVALSI non attribuiscono un voto e non incidono sulla carriera scolastica dei ragazzi. Lo scopo è fornire un’informazione numerica, e capire quanti sono gli allievi in linea rispetto ai traguardi posti dal legislatore. Sappiamo bene che gli stranieri, soprattutto nei primi anni della scuola primaria, avranno risultati più modesti rispetto agli alunni italofoni. Lo scopo è proprio quello di misurare quanto questi alunni sono distanti dagli obiettivi, in modo da favorirne il miglioramento. E le Regioni che citavo prima dimostrano negli anni un miglioramento sostanziale perché, andando avanti nel percorso scolastico, le differenze tra stranieri e italiani si riducono sensibilmente. Chi, in particolare, ha frequentato la scuola dell’infanzia nel nostro Paese, arriva alle medie con gli stessi risultati dei bambini italofoni. E questo è uno dei casi in cui bisogna riconoscere un gran merito alla nostra scuola. Per chi invece proviene da contesti più complicati, le differenze sono più difficili da scardinare, perché è inutile negare che il contesto sociale ed economico influenza moltissimo il percorso.
In effetti le insegnanti con cui ho parlato mi hanno spiegato che, al di là del lavoro svolto a scuola, se gli alunni in casa sentono sempre parlare un’altra lingua o un italiano con un lessico povero è difficile che facciano progressi rapidi.
I dati però dimostrano che anche chi parte da una situazione svantaggiata trova nella scuola le risorse per ridurre questi divari.
C’è un’altra questione che è emersa. Per alcuni insegnanti ogni bambino, ogni ragazzo e ogni classe sono mondi a sé, quindi diventa difficile somministrare una prova standardizzata a tutti gli studenti. Questa considerazione non vale solo i per i ragazzi con bisogni speciali, ma per tutti.
Questa è la prova di quanto il Paese deve essere grato ai nostri insegnanti, all’attenzione che dimostrano verso i ragazzi. Giustamente i docenti hanno il timore che una prova uguale per tutti non dia la possibilità di mettere in evidenza le qualità degli alunni. In realtà lo scopo non è valutare, ma fornire una misura della distanza che c’è rispetto al punto di arrivo. Quindi, se il risultato non è raggiunto, non si hanno valutazioni negative: bisognerà lavorare per ridurre la distanza degli studenti che presentano maggiori fragilità. Gli insegnanti devono continuare a fare quello che fanno usando queste prove per capire dove sono arrivati, e insieme lavoreremo sul percorso, non sui risultati. La standardizzazione delle prove non vuole essere una gabbia, ma un termine di paragone con cui ci si può misurare nel quotidiano.
Però sembra che non proprio tutti i docenti siano d’accordo. Sono stati spesso organizzati degli scioperi sia di somministrazione che di correzione.
Siamo partiti con queste prove nel 2007 e da allora le resistenze si sono davvero affievolite. Lo sciopero è un diritto sacrosanto, ma l’adesione in concomitanza delle nostre prove non ha mai superato lo 0,98%. Negli anni abbiamo ascoltato le esigenze degli insegnanti e modificato i quesiti secondo le loro segnalazioni. Alle medie e alle superiori abbiamo azzerato i compiti onerosi per i docenti. Per le elementari li abbiamo fortemente ridotti. L’obiettivo finale è quello di non chiedere ai docenti un lavoro aggiuntivo, e semplificheremo le procedure in modo che il carico per loro si riduca il più possibile. Non possiamo sostituirli in questo lavoro perché le prove devono essere fatte da chi vive con gli studenti tutti i giorni e ne conosce le qualità, le fragilità e i problemi, ma cercheremo di semplificare il più possibile. E non mi stanco di ripeterlo: il nostro scopo non è giudicare, ma fornire strumenti adatti per misurare.
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