La confusione occidentale sull’Oriente

Al cinema Odeon di Firenze si svolgeranno, da gennaio a giugno, sette conferenze con altrettanti film e dibattiti organizzati da One World University: Incontri tra Oriente e Occidente. Ho partecipato al primo incontro, in cui si sarebbe dovuta analizzare la differenza tra i concetti di “libertà” occidentale, nella sua accezione materiale rispetto a ogni sorta […]

Al cinema Odeon di Firenze si svolgeranno, da gennaio a giugno, sette conferenze con altrettanti film e dibattiti organizzati da One World University: Incontri tra Oriente e Occidente.

Ho partecipato al primo incontro, in cui si sarebbe dovuta analizzare la differenza tra i concetti di “libertàoccidentale, nella sua accezione materiale rispetto a ogni sorta di oppressore, e di “liberazioneorientale, intesa come ricerca personale svincolata dalla materia. Nonostante la piacevolezza delle argomentazioni e la competenza degli intervenuti, non si sono fatti molti paragoni sul tema proposto. La discussione si è concentrata principalmente sugli aspetti orientali legati alla pratica dello yoga.

L’Oriente oltre gli stereotipi

La cosa che mi ha colpito di più, però, è che il termine Oriente sia stato sovrapposto esclusivamente all’India. A prescindere dalla storia e dall’importanza della nazione, mi è parso alquanto riduttivo.

Da appassionato di filosofie, orientali e non, mi aspettavo qualcosa di diverso; rimango sempre più deluso da quanto le persone si accontentino di quello che sanno. Ciò che manca, io credo, è la volontà di indagare e confrontarsi intimamente. Alla fine pare più comodo prendere per buona la prima nozione che si riceve, soprattutto quando si confà ai propri stereotipi.

Non mi ritengo un esperto e, come anticipato, mi sono piaciuti alcuni interventi dei relatori. Ma complice la lunga frequentazione di una scuola di kung fu tradizionale, il mio concetto della complessità orientale è molto più vasto. Nella scuola studiamo teoria, facciamo esami scritti e pratichiamo vari stili di ispirazione buddista, taoista e confuciana; le differenze sono enormi, anche all’interno dello stesso stile, o a seconda della regione della Cina in cui si è sviluppata una determinata corrente. Se poi pensiamo alla vastità di quei territori, alla penisola indocinese, al Giappone, la Mongolia, il Tibet, la Corea o l’Indonesia, ridurre tutto l’oriente all’India mi sembra molto miope.

Quindi come possiamo lamentarci se un orientale applica agli italiani uno stereotipo banalizzante e non riusciamo a fargli comprendere la vastità della nostra cultura, né quanto vari all’interno del paese? Peggio: potremmo presentargli un inglese, un tedesco, un finlandese o un americano, ma per lui saremmo tutti solo degli occidentali.

Delle due l’una

I dualismi sono sempre più diffusi. È semplice ridurre alcuni concetti a un confronto tra opposti (veri o presunti), che ci illudiamo possano semplificarci la vita: Oriente e Occidente, bene e male, uomini e donne, pro o contro. Sembra quasi che nel mezzo non ci sia nulla! Ogni cosa viene ridotta a macro-categorie, come se l’idea di appartenere a una delle due aiutasse a sentirsi più sicuri in una realtà che di sicurezze ne dà sempre meno. Di provare a lavorare sulle sicurezze interiori non se ne parla, anche se sono alla base della nostra salute psico-fisica. Per farlo ci vorrebbe tempo: un tempo nobile che pensiamo di non avere, non quantificabile numericamente, ma che assume un valore assoluto.

Poiché sia in Occidente che in Oriente si è persa la valenza del tempo dedicato a noi stessi, visto che in qualunque attività lavorativa è sempre tutto “importante” o “urgente”, ho provato a trovare strumenti e metodologie che aiutino a sentire quella sensazione di atemporalità che provavamo da bambini. Quando eravamo immersi nei nostri serissimi giochi, durante i quali non avevamo sete, fame e men che meno preoccupazioni, al di fuori dello spazio e del tempo che vivevamo in prima persona.

Il lavoro è un gioco serio

Nel mio piccolo ho sempre considerato il lavoro un gioco serio, anche se ho impiegato diversi anni a comprenderne la valenza profonda.

L’etimologia del termine “gioco” rimanda al latino cu(m), cioè “scherzo, facezia”. Le definizioni invece variano: l’oracolo Wikipedia sostiene che “per gioco si intende un’attività (per lo più divertente) di intrattenimento volontaria e intrinsecamente motivata, svolta da adulti, bambini, o animali, a scopo ricreativo”; il prof. Paolo Russo lo descrive come “attività realizzata per se stessa, in quanto ha il proprio aspetto gratificante in sé e non nel fine che raggiunge o nel risultato che produce, come invece accade nell’attività lavorativa”.

In generale si sottolinea sempre una certa autorealizzazione, qualcosa che ha senso di per sé. Eppure, osservando un gruppo di bambini che giocano (più piccoli sono, meglio è) ci si rende conto facilmente di quanto siano lontani dal considerare i loro giochi delle facezie.

In Occidente, però, l’idea di gioco è rimasta strettamente legata a quella di svago, divertimento, senza alcuna valenza culturale profonda, tranne rarissime eccezioni come gli scacchi (peraltro di origine orientale). In Oriente invece è tuttora diffusissimo il gioco del go, che ha una storia millenaria, la cui filosofia ispiratrice richiama i concetti di armonia, equilibrio e cammino di ricerca interiore, tipico della cultura orientale. “I quattro talenti”, cioè le quattro nobili arti che dovevano costituire l’educazione del gentiluomo confuciano, accanto alla musica, alla letteratura e alla pittura contemplavano il gioco del go come attività utile a elevare lo spirito, in quanto sviluppava doti necessarie per un uomo destinato al governo: la riflessione, la pazienza e l’equilibrio.

Come si può, qui in Occidente, trovare il tempo per giocare seriamente e capirne il valore profondo per la crescita dell’individuo nella vita privata e lavorativa?

Al lavoro col Tai Chi

Grazie alla collaborazione e alla profonda intesa col mio maestro di kung fu abbiamo elaborato un percorso per i collaboratori della mia azienda attraverso il Tai Chi Chuan – l’arte marziale sposata alla scienza del benessere: settimanalmente seguono un corso finalizzato a imparare l’importanza del tempo dedicato a se stessi, percependo il proprio respiro e le regole naturali dei flussi di energia, “giocando” con le relative applicazioni marziali.

In Occidente vige il luogo comune che le arti marziali equivalgano a uno sport da combattimento e che tutte le altre attività olistiche siano rilassanti e delicate, ed elevino lo spirito a prescindere da come si praticano. In Oriente questa distinzione non è concepibile: i maestri marziali sono spesso medici tradizionali in attività e persone di riconosciuta cultura e saggezza. Dicono che quando si assimila l’Arte si può scegliere se e quando diventare marziali, ma se ci si limita agli aspetti marziali non si percepisce mai l’Arte.

Il Tai Chi Chuan, dilagante in occidente, viene assimilato più a una ginnastica per anziani che a un’arte marziale. Il fatto che possa essere praticato a qualsiasi età non significa che non sia uno stile molto complesso, le cui origini risalgono al monaco taoista Chan San Feng, e che prevede l’utilizzo di varie armi tradizionali, dalla spada dritta alla lancia, dal bastone lungo all’alabarda e al ventaglio.

Vero è che tali tradizioni stanno sparendo anche in Oriente, e in generale nelle grandi città quasi non si sa che cosa siano le arti marziali; figuriamoci usarle come crescita personale nelle aziende. Nelle imprese che ho visitato in Cina dal 2008 a oggi sarei in imbarazzo solo a proporlo.

Nonostante ciò che si può pensare al riguardo, il benessere aziendale in Oriente è inteso in maniera profondamente diversa dal nostro; una maniera distante anche dalla loro stessa cultura. Per quello che ho potuto vedere c’è una riduzione delle libertà intellettuali del singolo che, seppur vissuta in modo non punitivo, per me è agghiacciante. Anche le realtà più “illuminate” hanno approcci di massa che non prendono in considerazione il singolo individuo. Né più né meno come si fa in Occidente.

“Saper essere”, non solo “saper fare”

Non è stato banale organizzare un corso aziendale di Tai Chi, sia per la gestione del personale che partecipa al corso, sia perché non ci sono precedenti di allievi “inviati” a una scuola marziale. Anzi: in Oriente bisogna dimostrare al maestro la volontà di seguire i suoi insegnamenti, molto spesso attraverso prove impegnative, prima di essere ammessi.

La sfida è ardua anche perché il mio obiettivo è portarli a una conoscenza non solo del Tai Chi, ma del Qi Gong, ovvero la disciplina legata alla consapevolezza e alla gestione delle proprie energie, che in Cina viene usata anche come pratica medica all’interno degli ospedali tradizionali. Per il momento ritengo sufficiente che abbiano un tempo in cui, scalzi e senza cellulare, sono in qualche modo obbligati a concentrarsi su loro stessi, in un ambiente protetto. Una sorta di tempio laico in cui, perché no, si possano anche divertire.

Ad oggi circa l’8% del tempo contrattualizzato viene dedicato a tale attività, ma non escludo che possa aumentare: in ottica smart working, la loro parte variabile di stipendio è retribuita in base al valore aziendale prodotto, che viene calcolato tramite dei coefficienti moltiplicativi del tempo impiegato. Al momento, in qualità di amministratore, decido io tali coefficienti, ma spiego le ragioni per cui alcune attività valgono due o tre volte il tempo che hanno assorbito per essere eseguite. Visto che l’azienda è una collettività di individui e non un concetto freddo e astratto, quando un collaboratore crea valore per se stesso lo sta creando anche per l’impresa.

Ritengo che la capacità di dedicarsi al proprio benessere avrà un’importanza sempre maggiore nella vita aziendale, per cui non escludo che in futuro tale coefficiente possa essere applicato anche al Tai Chi. Per il momento le lezioni si svolgono in orario lavorativo e vengono retribuite regolarmente. Ogni dieci incontri parlo sia con loro che col mio maestro per capire come sta procedendo, e valutare eventuali aggiustamenti del percorso.

È bene specificare che non mi ritengo un imprenditore illuminato. Sono fermamente convinto della bontà del processo di crescita personale all’interno della vita lavorativa, che non può e non deve rimanere relegata a una cultura nozionistica del “saper fare”. Il “saper essere” sarà alla base di tutte le attività che non potranno essere svolte da macchine o AI. L’investimento sulle persone è doveroso per chi, come me, non traccia nessuna delimitazione netta tra vita lavorativa e vita privata o tra divertimento e studio. È l’approccio del singolo che fa la differenza, e va stimolato, assumendosi dei rischi.

La visione manichea dello yin e dello yang, di ciò che è giusto o sbagliato, ha poco senso sia in Oriente che in Occidente, anche se è quella che va per la maggiore. Soprattutto in ambito lavorativo. Sono sì due opposti, ma complementari e generativi, necessari l’uno all’altro. Gli estremi servono solo come limite; noi dobbiamo imparare a muoverci nel mezzo.

 

by Carl from New York, USA (Morning Tai Chi in Bryant Park) [CC BY-SA 2.0], via Wikimedia Commons

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