La mobilità orizzontale che non vede gli over 50

“Perché in questo Paese è così complicata la mobilità orizzontale?”. I lavoratori over 50 in difficoltà per il COVID: testimonianze dal settore aeroportuale e del lusso.

Il blocco dei licenziamenti deciso dal governo sarà in vigore fino al mese di marzo del 2021, e ad oggi, mentre scriviamo, non è ancora chiaro se questo “muro” reggerà o se è destinato a crollare. Se così fosse, quali sarebbero le conseguenze?

Secondo la Cgil se cadesse il blocco dei licenziamenti sarebbero a rischio un milione di posti di lavoro. Dati alla mano, secondo gli ultimi dati Istat dello scorso mese di ottobre (e quindi temporanei), la situazione occupazionale nel nostro Paese vede già una perdita di quasi 500.000 posti di lavoro, tra dipendenti (più di 300.000) e autonomi.

Ma il dato sugli over 50 registra paradossalmente un aumento di 45.000 occupati: più garantiti degli altri, o semplicemente un dato che andrebbe analizzato senza fermarsi ai numeri, che non sempre dicono tutto?

Abbiamo raccolto testimonianze dirette da parte di lavoratori over 50 provenienti dal mondo del settore aereo e del retail. Persone che i soli numeri non possono raccontare, e che oltre a non avere voce sembrano i nuovi invisibili.

50 anni, il lavoro svanisce all’improvviso: e la mobilità orizzontale?

Federica ha 50 anni, una laurea in lettere, e ha lavorato da sempre nel settore aereo per più di trent’anni come impiegata livello quadro. Il collasso del comparto e la relativa chiusura della sua azienda l’hanno costretta a uscire da un ambito lavorativo e professionale già in crisi prima del COVID-19, e che la pandemia ha reso solamente più drammatico.

La NASpI è stata un’ancora di salvezza che l’ha tranquillizzata nel breve periodo, consentendo di pagare le spese ordinarie di una famiglia media, abituata a poggiare su una base di due stipendi fissi, e che si è ritrovata con una gamba in meno. Ora, esaurito il periodo di copertura della disoccupazione, i chiari di luna si vedono ogni giorno.

L’esperienza professionale focalizzata su di un ambito specifico come quello aereo non le ha permesso di avere una mobilità orizzontale e tentare di andare a lavorare in un’azienda di un altro settore, anche per conciliare meglio il lavoro con gli impegni famigliari: “La microspecializzazione professionale che ho sviluppato negli anni all’interno di quest’ambito mi ha permesso di migliorare le mie condizioni economiche e professionali, anche accettando offerte di altre compagnie aeree che mi hanno fatta ‘crescere’ in ambiti prettamente settoriali. Questo si è rivelato un boomerang, visto che a distanza di tempo è arrivato un conto molto salato da pagare”.

“È successo quando, con la crisi del comparto aereo, la mia specializzazione in quel settore non è stata spendibile da nessun’altra parte. Così le retribuzioni annue lorde di tutto rispetto ottenute negli anni, i benefit aziendali, a un tratto sono svaniti, e non mi sono neppure resa conto come sia stato possibile che questo un giorno potesse accadere. Ho solo cercato di pensare a come reinventarmi professionalmente, ma francamente ho fatto molta fatica.”

“Potrebbe essere mia figlia e mi fa formazione. Ma mi ritengo fortunata”

È un destino che accomuna molte persone in questo periodo, ma la drammaticità di questo momento è molto più viva in chi affronta la situazione alla soglia dei cinquant’anni: troppo giovani per la pensione, troppo “vecchi” e formati per il mondo del lavoro. E ammettiamolo, anche se nessun direttore del personale ce lo confesserà mai: rischiano di costare troppo. Eppure, l’esperienza professionale acquisita negli anni non vale più nulla? È davvero possibile decidere di far sparire le competenze acquisite nella propria carriera professionale senza che la persona si ritrovi dall’altra parte a dover accettare lavori pagati meno e con mansioni decisamente peggiorative?

“Alla fine ho deciso di accettare, dopo il deserto che mi si è prospettato davanti per troppo tempo, di andare a fare la contabile part time, visto che ho un diploma di ragioneria che mi è sembrato utile rispolverare pur non avendo mai lavorato in quell’ambito. Infatti la formazione me la sta facendo una ragazza che potrebbe essere mia figlia, visto che ha solo 21 anni, e mi ritengo fortunata”, afferma Federica. “D’altronde il bilancio famigliare necessitava urgentemente di un’entrata supplementare rispetto a quella di mio marito. Il mutuo, le rette per le scuole dei bambini, non possono essere sostenute esclusivamente da lui.”

Una vita professionale portata via da una folata iniziale, diventata poi tifone con il COVID-19, che ha soffiato sempre più forte su esistenze professionali diventate all’improvviso fragilissime.

Secondo il Rapporto 2019 del CNEL (Consiglio Nazionale Economia e Lavoro), riguardo il tema dell’age management: “(…) Partendo dalla constatazione che la forza lavoro delle aziende italiane è tra le più anziane al mondo, (…) la maggior parte delle aziende stesse non è ancora consapevole dell’urgenza di adottare strutturalmente politiche aziendali di age management nella gestione del personale”.

Con il termine age management, secondo gli esperti di HR, “si intende una serie di interventi aziendali strutturati e coerenti tra di loro, volti a valorizzare i punti di forza dei lavoratori anche in considerazione della loro età anagrafica.” Stiamo parlando però di quegli over 50 che sono in azienda e che magari ci rimarranno ancora per molti anni: ma esiste invece una visione, un’idea per il reinserimento professionale degli over 50 nel mondo del lavoro, una volta fuoriusciti?

Se nell’ultima legge di Bilancio sono stati previsti sgravi fiscali per le imprese che assumeranno under 35 e donne, siamo ancora a chiederci quali progetti di reinserimento professionale si stiano studiando per gli over 50 che – loro malgrado – sono disoccupati o rischiano di diventarlo.

“Il mio lavoro mi piace, non ho un piano B. O forse la scuola”

Sabrina invece non ha ancora cinquant’anni, ma ben ventuno li ha trascorsi a lavorare in aeroporto a Malpensa. Ora è in cassa integrazione fino al prossimo mese di marzo, con il traffico aereo praticamente paralizzato e con al massimo venti voli al giorno. Dopo la laurea in lingue (lavorando presso un ufficio commerciale per due anni mentre studiava), ha lavorato per sei mesi in un’azienda tessile di Busto Arsizio, in un ufficio estero con contratto a tempo indeterminato, e poi per un anno presso un’agenzia di traduzioni. Era la fine degli anni Novanta e i contratti erano regolari e a tempo indeterminato; se decidevi di lasciare un lavoro trovavi ad attenderti diverse offerte.

“Poi nel 1999 ho fatto concorso con Sea, ho iniziato il mio lavoro come check-in agent, e poi col tempo ho sviluppato le mie competenze professionali diventando anche trainer per i nuovi sistemi e team leader per le nuove compagnie aeree. Oggi la situazione è al limite per me e tante colleghe, eppure la vivo in maniera diversa dalle altre. Più che ottimista, a volte mi sento un po’ incosciente: nonostante mi chiedano di provare la strada dell’insegnamento, alla fine il mio lavoro mi piace talmente tanto che non mi sto guardando attorno, contrariamente a tante mie colleghe che l’hanno già fatto. Se il lavoro non mi fosse piaciuto me ne sarei già andata. Vediamo che succede anche se andasse male, avrei difficoltà a salutare questo lavoro e questo luogo. Non sto pensando ad alternative, non ho un piano B. Al massimo, sto pensando alla scuola perché credo che possa essere il mio campo. Ripeto: vediamo che succede.”

Se anche le stime di IATA (International Air Transport Association) non vedono segnali di ritorno alla normalità pre-COVID prima del 2024 per il trasporto aereo, il triennio per i lavoratori dell’aeroporto e dell’indotto non sarà per nulla facile.

Il mondo del retail di lusso

“Dopo trent’anni di anzianità di servizio la mia RAL annua supera di poco i 45.000 euro all’anno”, ci racconta invece Consuelo, 53 anni e due figli che frequentano entrambi le scuole superiori. “Negli anni l’occupazione all’interno del mio settore – il retail nell’ambito del lusso – era prospera, e non era difficile ottenere stipendi sopra la media rispetto a quello che avrei potuto trovare altrove in altri ambiti professionali”.

“Dopo il diploma di liceo scientifico, il mio primo e ultimo approdo è stata una boutique del centro di Milano di un’importante marca del lusso, conosciuta a livello mondiale: negli anni sono riuscita anche a diventare assistant store manager del negozio, e guadagno discretamente bene: sono sempre stata pagata regolarmente, due maternità vissute in serenità e che mi hanno consentito anche di migliorare la mia carriera, una volta rientrata sul luogo di lavoro. A parte la formazione interna aziendale, non ho mai finito l’università, e ora spero che le sorti della boutique si risollevino presto. L’ansia comincia a farmi davvero dei brutti scherzi.”

Anche Consuelo, se dopo vent’anni non volesse più lavorare nel settore del retail, riuscirebbe ad andare a lavorare in un altro settore, mantenendo uno stipendio comparabile ai 45.000 euro l’anno cui è abituata?

“Con la chiusura delle boutique dovuta alla pandemia, il rientro al lavoro è scaglionato, e spesso ci vengono comunicati cambiamenti di orario dalla sera alla mattina in base alle esigenze del negozio. Senza tenere conto che, nonostante l’emergenza dovuta al COVID-19, un minimo di preavviso da parte dell’azienda sarebbe gradito, visto che ci sono persone che vivono situazioni famigliari di fragilità. Come quella di non poter contare su un aiuto, su tutti quello dei nonni, che per ovvi motivi non vediamo da diverso tempo.”

“Senza contare che è aumentato ancora di più il ricorso alla cassa integrazione da parte dell’azienda, con lo stipendio sempre più basso. Fino a quando le cose sono andate bene, nessuno ha mai pensato a un piano B; ora diventa necessario, e se si volesse abbandonare l’attuale attività professionale per cercare un’alternativa credo che l’unico ambito che potrebbe prendermi in considerazione è comunque il retail. Sto pensando di cambiare lavoro e settore, ma perché in questo Paese è così complicata la mobilità orizzontale?”.

In Italia un lavoro è per sempre, e spesso è quello sbagliato

L’idea che un lavoro scelto o imposto – per ragioni differenti – possa diventare il convivente con cui passare infelicemente il resto della propria vita risulta ancora più difficile da accettare se nel nostro Paese, a volte, un lavoro diventa più un impiego cui aggrapparsi per sopravvivere che una vocazione con cui dar senso alle proprie virtù e attitudini. E se quel lavoro malauguratamente lo si dovesse perdere, almeno la chance di riprovarci, anche in un ambito diverso da quello tracciato fino a quel momento, ci spetterebbe come un nostro diritto inalienabile sancito dalla Costituzione. Più nello specifico all’articolo 4:

“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”

La pandemia da COVID-19 porterà conseguenze non risolvibili solo dall’utilizzo di un vaccino, ma ci costringerà a ripensare finalmente al futuro: occorre una visione straordinaria e diversa dai soliti modelli precostituiti, che sono diventati irrimediabilmente superati.

Il dramma è che all’orizzonte non si vedono né coraggiosi, né visionari.

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