La prognosi riservata del Sistema sanitario lombardo

Il ciclone COVID-19 passerà, presto o tardi. Ciò che non si risolverà – senza una presa di coscienza, un’assunzione di responsabilità, una scelta consapevole e una progettualità conseguente – sarà il problema che quel virus invisibile ha reso visibile a tutti, anche se era già stato (inutilmente) segnalato da chi opera nel settore della sanità. […]

Il ciclone COVID-19 passerà, presto o tardi. Ciò che non si risolverà – senza una presa di coscienza, un’assunzione di responsabilità, una scelta consapevole e una progettualità conseguente – sarà il problema che quel virus invisibile ha reso visibile a tutti, anche se era già stato (inutilmente) segnalato da chi opera nel settore della sanità.

Il problema consiste nell’inadeguatezza del modello sanitario misto pubblico/privatistico per rispondere alla domanda di salute e anche per fronteggiare le emergenze epidemiche; con la conseguente necessità di rimettere mano al Servizio sanitario nazionale (SSN) e a quelli regionali (SSR). Certamente mettere in evidenza le carenze col senno di poi, di fronte a decine di migliaia di vittime, è più facile che individuare le radici di quella inefficienza e trovare il modo per rimediare. Eppure bisognerebbe farlo, visto che la Costituzione prima, e l’ormai “antica” riforma sanitaria del 1978 poi, puntano proprio sul diritto individuale e collettivo alla salute e su una sanità universalistica, cioè garantita a tutti.

Maria Elisa Sartor – tra i massimi esperti in questo campo, professoressa a contratto nel Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità dell’Università degli Studi di Milano e docente di Programmazione, organizzazione e controllo nelle aziende sanitarie – non si è mai tirata indietro nell’affrontare questi temi; anche a costo di criticare apertamente, dal punto di vista scientifico, soprattutto il “Sistema sociosanitario lombardo” (SSL).

Si tratta di quello iper-privatistico perseguito dalle giunte di centrodestra fin dai tempi della presidenza di Roberto Formigoni (Forza Italia e dintorni, area CL), in carica dal 1995 al 2013 (finché è stato condannato in via definitiva per mazzette sanitarie); sistema poi sostenuto dal successore Roberto Maroni (leghista, guarda caso appena chiamato nel consiglio di amministrazione di uno dei maggiori gruppi sanitari privati italiani, il San Donato) e ora da Attilio Fontana (Lega): nonostante il disastro provocato dalla pandemia, Fontana ha ribadito, col suo assessore alla Sanità Giulio Gallera (Forza Italia), che sarà messa qualche toppa (ha appena nominato un comitato di cinque saggi, ovviamente scelti da lui), però si proseguirà sulla stessa strada.

Ebbene, la professoressa Sartor spiega a Senza Filtro perché c’è il rischio di minare ulteriormente le basi del servizio sanitario.

 

 

Professoressa Sartor, prima di tutto guardiamo all’attualità: l’Italia sul fronte sanitario ha affrontato bene o male la pandemia?

Dipende dai singoli Servizi sanitari regionali. Alcuni hanno affrontato bene questo cataclisma, altri no.

La differenza come si può valutare?

Lo si fa considerando i risultati ottenuti in base alla configurazione di ogni Servizio sanitario regionale. A seconda di questa configurazione, è stata più o meno buona la capacità di intervenire con efficacia. In Lombardia i risultati sono stati quelli drammatici cui abbiamo assistito. Nel Veneto, per esempio, guidato da una compagine politica simile a quella lombarda, la struttura della sanità – unita al fondamentale contributo di un grande esperto, il virologo e microbiologo Andrea Crisanti – ha prodotto altri risultati, nonostante ci fosse una situazione analoga sul fronte della diffusione del virus.

Come mai in Lombardia ci sono stati effetti così drammatici, con quasi 17.000 vittime a fine giugno, su circa 35.000 in tutta Italia? È una regione che si vanta tuttora di essere un esempio di qualità ed efficienza sul fronte sanitario e ospedaliero…

C’è – al di là dei problemi comuni a tutti, legati all’identificazione e cura del COVID-19 – un’insufficienza strutturale del modello lombardo. Si sono verificati – a giudicare da quello che si sa – errori nelle procedure, ma ha pesato anche un insufficiente ruolo della prevenzione (poco considerata); poi c’è stato un ritardato e insufficiente ruolo della sanità privata accreditata dalla regione; infine il governo della Lombardia non è stato in grado di fare scelte in modo tempestivo e adeguato. E non è successo per caso.

Quindi perché è successo?

Carenze, ritardi e intoppi sono il frutto del modo in cui è stato concepito e concretizzato il Sistema sociosanitario della Lombardia.

Eppure anche in Lombardia oggi si sta valutando una riforma di quel modello.

Sì. Fino a qualche mese fa non sarebbe mai capitato di sentir parlare di una riforma. Ora accade anche perché c’è un obbligo di legge. La legge regionale 41/2015 prevede che entro l’11 agosto 2020 si svolga la verifica della macro-configurazione organizzativa del Servizio sociosanitario derivante da un’altra legge regionale, quella firmata da Maroni (LR 23/2015), che include la verifica delle Agenzie di Tutela della Salute (ATS) e delle Aziende Socio-Sanitarie Territoriali (ASST). Per la Giunta Fontana è un’occasione che, prima della pandemia, non appariva gradita; però ora offre l’occasione per far apparire che si rimette mano a un sistema, quello che in questi mesi ha deluso moltissimi lombardi. È tuttavia curioso che la regione conti, per una presunta riforma, proprio su coloro che dal 1995 fino al 2013, sotto Formigoni, hanno ideato il sistema cui ora si vorrebbe fare un lifting.

Sarà dunque messo qualche cerotto qua e là, per rimediare ai casi più vistosi di mancata tutela dei cittadini in questi ultimi mesi?

Sarebbe meglio un ripensamento radicale. Ma, per arrivare a una riforma, servirebbe prima di tutto la conoscenza dello stato di fatto, e in ogni caso è necessario che sia formulato un vero progetto (di massima e dettagliato). Come se si trattasse di realizzare un buon ponte.

Che cosa c’entra un ponte?

Un ponte non può essere un insieme di monconi di vario genere legati assieme, tanto per fare contenti tutti. Deve essere concepito in base a un progetto unitario che tenga presente il tipo di funzione che dovrà svolgere. Soltanto in base a un progetto simile può essere costruito anche un efficace Servizio sanitario regionale; inoltre solo prevedendo una costante e buona manutenzione, basata su controlli efficaci del funzionamento, il Servizio può svolgere bene i suoi compiti.

Quali sono i presupposti di un buon progetto? 

Il progetto deve essere qualcosa di unitario, coerente, logico. Ben costruito in ogni sua parte, dal quadro complessivo a ciascun dettaglio. E tutto deve essere chiaro e reso esplicito pubblicamente, in modo da poter confrontare le proposte. Non si può procedere a colpi di cerotti. L’obiettivo è garantire il mantenimento in vita delle persone in buone condizioni di salute. Nella fase più acuta della pandemia questo non è stato garantito, ed è accaduto non soltanto perché la malattia era sconosciuta e ancora senza una terapia. Il Servizio sanitario lombardo non è stato in grado di prendersi cura adeguatamente (per quanto possibile) degli operatori sanitari e di coloro che bisognava assistere in ogni caso. Sono stati abbandonati, e per questo motivo tantissime persone hanno perso la vita.

È facile comprendere quali siano le proposte davvero efficaci in vista di una riforma?

No, non lo è. Però bisogna farlo. La riforma deve permettere di realizzare le funzioni che consentono di attuare i principi costituzionali di tutela della salute. Ci sono modelli di SSR che facilitano la privatizzazione, modelli che la contengono, modelli che tendono a escluderla. Dunque, solo una volta deciso quali finalità e quali principi cardine del modello si intendano sostenere, si può procedere alla definizione del progetto nei dettagli.

Le riforme lombarde hanno seguito questa impostazione? La privatizzazione del Servizio sociosanitario lombardo, con un ruolo istituzionale del settore pubblico debole, realizza o contrasta i principi costituzionali? 

Secondo me, non li realizza. E oggi ne paghiamo le conseguenze sul piano pratico. La sanità in Lombardia è vittima soprattutto delle conseguenze a lungo termine dell’impianto e degli interventi realizzati dai quattro governi Formigoni. Mi riferisco all’istituzione del “quasi-mercato della sanità”, mescolando soggetti pubblici e privati; a una logica economicistica portata alle estreme conseguenze, avara con il pubblico e dedita allo sperpero con il privato; a un calo notevole dell’attenzione nei confronti dell’epidemiologia, della prevenzione e del territorio. Ancora, mi riferisco alla consegna di interi ambiti della sanità ai soli privati (tanti servizi sono stati del tutto privatizzati, con proporzioni assolutamente non paragonabili a quelle di altri governi regionali della sanità); alla mortificazione delle infrastrutture pubbliche territoriali e al supporto puntato su quelle private; al non-ripristino della compagine dei medici di Medicina generale e al connesso avvio del progetto di aziendalizzazione e privatizzazione della Medicina di base. Inoltre l’Ente Regione ha spostato l’attenzione dal cittadino che ricorre al SSR ai soggetti erogatori della sanità privata (soprattutto quelli che hanno il profitto come fine ultimo della loro organizzazione). Tutto ciò non ha fatto funzionare il modello neppure nei periodi ordinari, figurarsi durante la pandemia. Gli interventi dei governi successivi a quello di Formigoni hanno seguito, e continuano a seguire, questa strada. La riforma Maroni, in senso lato, ha aggiunto logiche, finalità e principi incompatibili con il SSN tradizionalmente inteso, e anche inefficaci di per sé: nell’apparente inconsapevolezza di quello che tutto ciò avrebbe potuto produrre. Infatti ha portato a improvvisazione e ingestibilità.

Insomma, lei dice che vanno considerate le esigenze e le richieste del cittadino, che utilizza il Servizio sanitario pubblico, e non quelle di erogatori privati accreditati di servizi sanitari, che semmai dovrebbero essere chiamati a servire proprio quel Sistema?

Esatto. Dove sta la tanto sbandierata centralità del cittadino/utente? Ci si deve ora preparare a contrastare con efficacia le proposte di partiti, gruppi politici e stakeholder (ciascuno dei soggetti direttamente o indirettamente coinvolti in un progetto o nell’attività di un’azienda, N.d.R.) che, magari pure tramite studiosi o accademici a loro vicini, potrebbero non rispettare ciò che si ritiene irrinunciabile per un SSN. Ecco i quattro ambiti da analizzare nelle proposte che saranno avanzate: le finalità, i principi costruttivi su cui si basano, la configurazione strutturale macro del modello (complessità e modularità), i dettagli di implementazione del modello (da prefigurare e poi controllare, verificando la coerenza con i principi affermati).

Che cosa si augura, professoressa?

Mi auguro che finalmente, in questo campo delicatissimo, si operi a carte scoperte. Nell’interesse dei cittadini.

 

 

Photo credits: milanotoday.it

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