La Silicon Valley e la solitudine delle lenti a contatto

Nella Silicon Valley è quasi impossibile trovare delle lenti a contatto: è solo un particolare dell’inaspettata antropologia di uno dei luoghi più noti e idealizzati al mondo. Recensiamo “Steve Jobs non abita più qui”, di Michele Masneri.

No, nonostante il titolo – o forse solo in una sua lettura un po’ meno letterale – Steve Jobs non abita più qui di Michele Masneri non è la “solita” decostruzione del mito della Silicon Valley che va di moda in questo momento (e che ha trasformato in casi editoriali testi come La valle oscura di Anna Wiener, per esempio). Il saggio, o meglio la serie di saggi – che sono più un reportage in una prima persona decisamente abbondante dell’esperienza sanfranciscana dell’autore – sembra provare a risalire a perché, come e quando sono nate una certa narrativa e una certa retorica attorno alla San Francisco Bay Area e alla varia umanità che la frequenta.

Steve Jobs non abita più qui: San Francisco e la Silicon Valley come nessuno le racconta

Il Googleplex, la sede di Facebook a Palo Alto, i quartier generali delle (ex) startup primigenie della sharing economy sono, infatti, la scenografia che fa da sfondo al racconto di Michele Masneri. Non sarebbe potuto essere altrimenti, considerato che le big tech e le esigenze dei tanti nuovi lavoratori digitali arrivati nella Valley hanno contribuito a modificare profondamente l’estetica e persino la logistica della città: basti pensare agli autobus cablati e dotati di potenti connessioni Wi-Fi che fanno su e giù dalle colline, portando in giro potenti manager e stagisti appena arrivati, tutti costantemente al lavoro sui propri device intelligenti.

Steve Jobs non abita più qui, però, è anche il racconto di San Francisco come capitale della cultura queer, là dove ogni anno il mese dei Pride assume le sembianze di una barocca festa di paese in pieno stile italico o di un mega evento di PR. Inoltre, racconta la città come un luogo in cui non di rado nascono nuove tendenze alimentari e vere e proprie ossessioni per l’ultimo improbabile super food del momento.

Ci sono alcune incursioni nella storia recente dell’architettura con la visita alla casa progettata da capo a fondo da Ettore Sottsass per David Kelley e il racconto della stramba avventura di un funerale acquatico per uno dei surfisti più noti e amati del posto, ma anche il tentativo di capire fenomeni bizzarri come la quasi totale impossibilità di trovare un paio di lenti a contatto nella Silicon Valley o il terrore di certi suoi abitanti e frequentatori nei confronti dell’AIDS, tanto da non avere remore ad assumere pillole dalla dubbia natura preventiva, e ancora due chicche come le interviste a Jonathan Franzen e a Bret Easton Ellis.

La vita minuta della Silicon Valley attraverso un’ingombrante prima persona

Se l’obiettivo è dimostrare che no, la Silicon Valley non è solo tecnologia e non lo è mai stata, sembra centrato in pieno. Il contraltare rischia di essere, però, una (fastidiosa) sensazione di spiazzamento: se solo un attimo prima si stava parlando di menu delle mense aziendali che non possono contenere troppi piatti diversi ma non possono neanche essere gli stessi ogni giorno, come si è arrivati al meticoloso resoconto di come certe volte, quando è all’estero, l’autore abbia nostalgia del suo ottico italiano?

Qualche volta, insomma, tenere il filo nella lettura di Steve Jobs non abita più qui può risultare difficile. Più difficile ancora è capire se sia per la fretta dell’autore di raccontare quante più cose possibili – e di certo in città non ne mancano – o per esplicita volontà di imporre al racconto un ritmo preciso.

Che la prima persona di Michele Masneri in Steve Jobs non abita più qui sia per molti versi fin troppo “ingombrante” lo si è già detto, e sarebbe sbagliato, del resto, aspettarsi qualcos’altro da quello che è a tutti gli effetti il racconto di un viaggio alla ricerca delle origini di una cultura e uno stile di vita oggi tra i più inseguiti e affascinanti.

Vivir para contarla, dicevano i maestri del realismo magico, e qui, che di magico c’è tutt’al più l’intricato sistema di riconoscimento facciale che ogni mattina permette agli stravaganti sviluppatori delle big tech di raggiungere i propri uffici, non c’è dubbio che chi racconta si è tirato indietro dal vivere ogni esperienza in perfetto stile sanfranciscano.

Il risultato potrebbe essere, così, persino un po’ di invidia per lo scrittore: chi, tra gli appassionati di letteratura americana, non vorrebbe poter dire di aver fatto due chiacchiere con due degli scrittori contemporanei più famosi, nel bene o nel male? Forse è un’invidia voluta o suscitata strategicamente. Quasi certamente è un’invidia sulla cui base l’autore sa di poter gigioneggiare.

Perché leggere Steve Jobs non abita più qui

Una buona idea per godere davvero del testo potrebbe essere, così, far pace con la consapevolezza che la maggior parte degli incontri, avventure ed esperienze di cui si leggerà non si riuscirà mai a viverli a propria volta: se non bastasse allo scopo quel “patto narrativo” su cui si regge gran parte della passione per i libri, ci pensa periodicamente l’autore a marcare sul segno dell’esclusività.

Fatto pace con questo, Steve Jobs non abita più qui risulta una lettura in tutto e per tutto godibile per chi ha già letto di tutto sulla Silicon Valley, i suoi guru e la storia delle grandi big tech, ma è curioso di guardare al mito della Valley anche da un’altra prospettiva, di certo più antropocentrica e capace di rivelare le stranezze della sua fauna. E chissà che non siano proprio quelle stranezze ciò da cui tutto è partito, compreso il giro di soldi che coinvolge questo angolo di mondo.

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