L’assistenza familiare è ancora un lavoro invisibile

I caregiver familiari, soprattutto donne, sono costretti ad abbandonare vita e lavoro per prestare assistenza ai parenti: “Sostegno solo ai disabili. E a noi? Chiediamo reddito, tutele e pensione”.

Si prendono cura del proprio famigliare non autosufficiente gestendone tutte le necessità quotidiane, giorno dopo giorno, per anni o anche per la maggior parte della vita. Parliamo dei e delle caregiver. Come spesso accade in Italia, ci si affida alla lingua inglese per nominare condizioni e ruoli, con il rischio di smarrire o di travisare il reale significato di un termine, e non da meno di una fetta di realtà. Con SenzaFiltro vogliamo non solo dissipare questa nebbia, ma anche e soprattutto addentrarci in un ambito complesso, attanagliato da mancanza di tutele e spesso liquidato, per comodità, con immagini retoriche dove il prendersi cura viene sommerso da parole di ammirazione, ma allo stesso tempo è abbandonato a solitudine e fatica.

Si stima che in Italia i/le caregiver siano circa nove milioni. Le persone da loro assistite non sono in grado di badare a se stesse a causa di patologie, età molto avanzata, disabilità fisica e cognitiva o addirittura più condizioni coesistenti tra quelle menzionate. I/le caregiver possono gestire la parte assistenziale, di supporto e accompagnamento alle terapie, di gestione della burocrazia e tanto altro ancora. Non mancano risvolti di sovraccarico e affanno proprio su chi questa cura impegnativa se la deve prendere in spalla quotidianamente.

I Genitori Tosti e la loro campagna: “Vogliamo una legge nazionale che ci riconosca come lavoratori”

Raggiungiamo telefonicamente Alessandra Corradi, caregiver e presidente dell’associazione composta da genitori di bambini e ragazzi con disabilità dal nome che è tutto un programma: “Genitori Tosti in Tutti i Posti”. La onlus, con sede a Verona, è attiva dal 2008: “Siamo l’unica associazione in Italia che chiede il riconoscimento dei caregiver come lavoratori. Perché questo siamo, non volontari”, chiarisce subito. Da qui l’attivazione della campagna di adesione “Una legge buona per tutti” per dare risposta a un riconoscimento finora assente.

Il prendersi cura presenta tipologie differenti, perché lo sono i carichi assistenziali stessi. Un conto è avere un figlio che fin dalla nascita, per patologie o disabilità, necessita di assistenza, un conto è assistere un genitore anziano che magari negli ultimi anni della vita non è autosufficiente. Sono situazioni completamente diverse, e se vogliamo una legge che aiuti veramente i caregiver familiari si deve comprendere questo”.

L’associazione non ha perso tempo, ed è andata a confrontarsi faccia a faccia con i rappresentanti dei Ministri della Salute e del Lavoro e con la senatrice Simona Nocerino, prima firmataria del disegno di legge sul caregiver familiare: “Parlando con loro ci siamo accorti che a queste differenze non ci avevano mai pensato”, spiega la presidente di Genitori Tosti. “Così come ci sono le quote rosa, penso che dovrebbero esistere anche le quote con disabilità per includere davvero”.

“Tutto concentrato sui disabili”. E i caregiver? “Lo Stato risparmia grazie a noi”

Arriviamo al problema cardine di chi presta cura. Spesso, proprio a causa di questo impegno soverchiante e continuo (che comprende l’impossibilità di lasciare da solo il proprio congiunto), i/le caregiver non possono lavorare. Da qui la richiesta sostenuta dall’associazione e da numerose persone per attivare una legge nazionale finalizzata a riconoscere i caregiver familiari come lavoratori con reddito, tutele e pensione. Un’esigenza urgente e capillare che non può più permettersi il lusso di attendere.

Non sono però mancate le polemiche. “C’è chi ha travisato la richiesta facendo una campagna contro di essa”, chiarisce a questo proposito l’intervistata. “Non chiediamo la luna, ma solo il riconoscimento di ciò che facciamo: noi caregiver abbiamo dovuto abbandonare i nostri lavori non per scelta, ma perché non avevamo alternativa. È scandaloso che anche i sindacati cadano dalle nuvole: tutto è sempre focalizzato sulle persone con disabilità, mentre chi le cura resta invisibile e senza reddito”.

Qualora venisse concretizzata, questa legge porterebbe alla scomparsa di alcune figure professionali, come paventato da alcuni, o a una loro maggior responsabilizzazione, così come dei servizi? “Non rubiamo il lavoro a nessuno, anzi: verrebbero aggiunti posti di lavoro proprio per coprire, ad esempio, i periodi di ferie dei caregiver. Invece ora determinate figure professionali non lavorano perché tutto è delegato ai caregiver, senza sosta. Infine, lo Stato italiano risparmia proprio grazie a noi”.

Caregiver familiari in Italia: la maggior parte è donna e con situazioni di disagio

L’associazione veronese ha realizzato un questionario per censire i/le caregiver e i loro bisogni. Le prime 1.500 risposte restituiscono un assaggio emblematico della situazione attuale. “Quasi il 90% dei caregiver è donna, già penalizzata nel mondo del lavoro”, spiega Alessandra Corradi. “Io stessa non ho mai potuto lavorare perché in realtà lavoro tutti i giorni come caregiver, attività usurante e senza uno straccio di stipendio”.

Non mancano riflessi collaterali ad alto tasso di disagio: “L’impossibilità di lavorare determina un impoverimento del nucleo famigliare, a fianco di una frequente assenza di servizi e dell’isolamento sociale: di fatto siamo soli. Molte donne con figli disabili vengono abbandonate dai mariti, nonché padri di questi ragazzi e adulti con difficoltà. Ci sono madri anziane che assistono i figli allettati, e magari loro stesse, pur avendo patologie gravi, non si curano per non abbandonarli: ci rendiamo conto della situazione?”

Nel frattempo da parte delle istituzioni viene snocciolata in loop una frase intramontabile: “Dicono che non ci sono soldi, ledendo così diritti fondamentali, e intanto intorno alle strutture residenziali girano dei grandi interessi economici”. In particolare l’attuale pandemia da coronavirus ha esasperato il ripiego di gestione delle problematiche sulle famiglie, lasciate a loro stesse: “Eravamo già abbandonati prima, ora ci sono state tolte anche le briciole”, chiosa la nostra intervistata. “In questi anni mio figlio è migliorato perché ci siamo rivolti a strutture all’estero, grazie ai rimborsi, e non di certo per l’intervento del sistema sanitario nazionale (UONPIA comprese) che è stato smantellato”.

Recente la notizia della decisione del governo di rifinanziare con 75 milioni di euro in tre anni il fondo per il caregiver familiare, ma manca una parte fondamentale, ossia un riferimento preciso a livello legislativo che definisca chiaramente queste figure, quanti e quali diritti hanno. “Il problema è che l’iter legislativo è stato nel frattempo bloccato a causa della pandemia da COVID-19 e per le meccaniche del Senato”, commenta Alessandra Corradi. Esiste infatti un disegno di legge, che ha mosso i primi passi all’incirca un anno fa, proprio per disciplinare la figura; ma quando ci sarà un reale passaggio alla fase successiva, caldeggiato da molti?

In Lombardia oltre 5.000 firme per la proposta di legge popolare sui caregiver familiari

Parte da tutt’altro versante, per visione e obiettivi, la proposta lanciata dalla campagna #iosonocaregiver, iniziata a novembre 2019 e focalizzata sulla regione Lombardia, in cui i caregiver ammontano a circa 450.000.

Martedì 17 novembre, agli uffici del Consiglio regionale sono state consegnate oltre 5.000 firme di cittadini e cittadine a supporto della proposta di legge popolare per il riconoscimento e il sostegno del caregiver familiare. “La risposta è stata molto forte e ha permesso di raggiungere la quota necessaria di adesioni per presentare formalmente la proposta”, commenta Giuseppe Imbrogno, coordinatore della campagna e referente della progettazione sociale in ACLI Lombardia, che guida il progetto. Un progetto sostenuto, sempre a livello regionale, da numerosi soggetti del terzo settore, del mondo sindacale e delle istituzioni.

Va sottolineato che il target di questa proposta è rappresentato dai caregiver che si occupano di anziani, e non è previsto nessun riconoscimento a livello lavorativo, come specifica Imbrogno: “Non credo che un figlio che assiste i propri genitori possa sostituirsi a una figura professionale: noi puntiamo prima di tutto al potenziamento dei servizi, in particolare dell’ambito sociosanitario, e a evitarne la dispersione”. In che modo? “Ad esempio unificando le risposte in un solo luogo fisico e facendo informazione preventiva: ti puoi infatti trovare in queste situazioni da un giorno all’altro senza sapere che cosa fare. Occorre poi che i soggetti pubblici e privati si attivino non solo sull’anziano, ma anche sulla famiglia, che deve essere parte integrante dei servizi”.

Proposte e voci diverse per un ambito dalle numerose sfaccettature, ma spicca un punto fermo: l’urgenza di dare attenzione non solo a chi necessita di cure, ma anche a chi le presta, affinché l’impegno gravoso di ogni giorno non diventi un boomerang che provoca ancora più disagio e patologie da burnout. La corda è già lisa, su alcuni fronti lacerata: l’acceleratore per il cambiamento andrebbe inserito subito, prima che il sistema si rompa. E con esso le vite.

Photo credits: www.itacanotizie.it

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