Lavoro e sindacato: il confronto oltre il conflitto

Potremmo racchiudere tutto in una frase di Marco Bentivogli: “La rivoluzione tecnologica sarà la grande occasione per mettere in soffitta l’antagonismo sindacale, che invece in televisione va fortissimo, e per mettere in soffitta anche l’antagonismo aziendale”. Sembra proprio che il problema sia l’antagonismo: non il mio o il tuo, ma il fatto che io e te dobbiamo vederci […]

Potremmo racchiudere tutto in una frase di Marco Bentivogli: “La rivoluzione tecnologica sarà la grande occasione per mettere in soffitta l’antagonismo sindacale, che invece in televisione va fortissimo, e per mettere in soffitta anche l’antagonismo aziendale”.

Sembra proprio che il problema sia l’antagonismo: non il mio o il tuo, ma il fatto che io e te dobbiamo vederci su fronti contrapposti, mentre in realtà siamo sulla stessa barca. I lavoratori sono parte integrante dell’azienda e non solo un fine per un mezzo. Detto da un sindacalista, non sembra cosa da poco.

Il modello di conflitto

La contrapposizione, il mantenimento del ruolo, la definizione della relazione tra me e te, finisce molto spesso per valere molto più dell’oggetto del confronto: è una delle leggi alla base della comunicazione.

Il conflitto è molto più complicato e rischia una pericolosa escalation quando sono in discussione le persone, invece dei problemi. Quindi quello che si difende o quello che interessa al tavolo della trattativa tra azienda e sindacato, o tra azienda e lavoratori, non è (solo) la rivendicazione di un diritto, ma la salvaguardia dell’immagine delle due parti contrapposte.

La situazione rischia il paradosso: forse sui temi potrei anche essere accordo, ma questo metterebbe in crisi il modello di conflitto. Se io mi mostro troppo disponibile nei tuoi confronti e viceversa, che cosa penseranno di me e di te i rispettivi “mandanti”?

C’è la possibilità di rimanere schiavi della propria maschera: cambiarla richiede coraggio. Allora si tratta di una battuta di un sindacalista che voleva solo mostrare questo coraggio o, invece, di autentica condivisione di un valore?

Una breve googlata fa propendere per la seconda opzione: Marco Bentivogli nel dicembre dello scorso anno è stato messo sotto scorta “d’ufficio” per le insistenti minacce di morte che ha ricevuto, da sinistra e da destra. Le ha ricevute perché, nelle sue parole, l’esaltazione del conflitto riscuote “grande consenso da casa: tutto ciò che è rappresentanza, che è ricerca di soluzioni, va visto negativamente”.

Dura la vita del mediatore. Specie in tempi di crisi, quando la pancia preme e il cervello diventa uno schioppo che spara risposte imprecise e di corta gittata. Specie quando la televisione e i social fanno da amplificatore per questo tipo di emotività, che finisce per radicalizzare il conflitto fino a far emergere un altro aspetto drammatico: il conflitto come fine.

In un bel libro dal titolo evocativo Un terribile amore per la guerra, James Hillman ricorda, infatti, che il conflitto è una costante umana. Qualcosa di cui non andare molto fieri, almeno nel XXI secolo, dopo tante guerre e distruzioni, e dopo tanto dibattito filosofico, psicologico, antropologico e sociale.

Trovare uomini che mettono in discussione questo mito è un grande insegnamento; uomini che cercano “accordi difensivi” perché sono profondamente, umanamente consapevoli che questa sia la strada giusta; uomini che non arretrano di fronte al pericolo e non scendono a patti con i propri valori; che fanno patti per salvaguardarli, quei valori, costi quel che costi. Chapeau.

Dal conflitto al confronto

Passare dalla competizione alla cooperazione non è affatto facile. Richiede motivazione, applicazione, pazienza e competenza.

Riguardiamo la frase di Bentivogli citata all’inizio, sul mettere in soffitta l’antagonismo sindacale e aziendale. Si nota che la critica all’antagonismo è rivolta prima di tutto verso lui stesso e la parte che rappresenta, e solo dopo all’altra parte, che dunque non si sente attaccata e non è costretta a mettersi sulla difensiva. Non è facile dire se si tratti di una strategia comunicativa – peraltro ottima – o di un’inclinazione personale. In tutti i casi, anche chi ne è sprovvisto potrebbe procurarsele se solo uscisse dalla sua zona di comfort, accantonando l’immagine del paladino duro e puro che non fa compromessi.

Nella vita non otteniamo quel che meritiamo, ma quel che negoziamo: l’importante non è trattare con se stessi, con i propri principi e la propria umanità, ma trattare con gli altri, su problemi che sono molto più comuni di quanto si creda. O di quanto si voglia far credere.

 

Photo by fiordirisorse [CC BY-NC-ND 2.0] via Flickr. Photographer: Felicita Russo

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