Matteo Martini, Frascati Scienza: “Gli scienziati non sanno comunicare bene, serve formazione obbligatoria”

La scienza ha molto da dire, ma fa fatica a imparare come dirlo: esempio ne è la gestione comunicativa della pandemia, che ha intaccato la fiducia dei cittadini nella ricerca. Ne parliamo con il presidente di Frascati Scienza.

Sempre più di frequente eventi e appuntamenti on e off line dedicati alla divulgazione di tecnologia, scienza e ricerca presso il grande pubblico ci hanno abituati ad appassionarci e trovare sempre più familiari e vicini a noi temi una volta confinati nelle cerchie di discussione per pochi eletti.

Il mondo della scienza negli anni ha quindi rafforzato la sua capacità divulgativa. Tuttavia l’attuale pandemia che stiamo vivendo, e le polemiche rispetto alla sua gestione e alle soluzioni messe in campo, stanno testimoniando che anche un eccesso di comunicazione, se confusa e mal gestita, rischia di avere l’effetto contrario di far perdere fiducia nella scienza.

Come può fare allora la scienza a trovare la retta via per raggiungere una comunicazione efficace? Ne abbiamo parlato con Matteo Martini, presidente di Frascati Scienza.

Errori ed effetti della comunicazione scientifica durante la pandemia

“La pandemia ha evidenziato quanto sia importante anche per il lavoro scientifico l’avere delle competenze in maniera di comunicazione”, spiega Martini. “La scienza di per sé ha iniziato a fare notizia solo da poco più di una decina d’anni, per mio ricordo con la scoperta del Bosone di Higgs (ovvero la particella elementare che costituisce la materia, “la particella di Dio”, N.d.R.). C’è stato un effetto mediatico importante sulle grandi testate, e la scienza è divenuta notiziabile. Dopo il Bosone di Higgs ci sono stati poi tanti altri temi, dalla scoperta delle onde gravitazionali al recente Nobel a Giorgio Parisi”.

La scienza ha così accresciuto negli anni i suoi canali e le sue capacità divulgative, diventando un argomento popolare. Tuttavia per Martini la confusione creata durante la pandemia sembra confermare il fatto che questo settore non ha in realtà ancora trovato il giusto approccio nella sua comunicazione. “La pandemia ha mostrato una cosa molto importante, ovvero quanto sia fondamentale comunicare la scienza non solo per divulgarla, ma soprattutto per far arrivare alle persone le informazioni in modo corretto”, continua Martini.

Secondo le agenzie che monitorano la percezione pubblica della scienza in Italia, all’inizio del primo lockdown a marzo 2020 la fiducia media della popolazione si attestava ad alti livelli: la paura dei primi mesi aveva alzato la speranza di tutti nelle soluzioni che gli scienziati avrebbero messo in campo. Un anno dopo, le stesse agenzie hanno registrato un’inversione di tendenza di questo sentimento, verificando un calo deciso del dato, complice la percezione negativa della confusione creata dall’accavallarsi di posizioni discordanti.

Il racconto mediatico della scienza durante la pandemia non ha così raggiunto il risultato desiderato di informare le persone, ed è stato trattato con le stesse logiche della cronaca o del talk show. Popolato da protagonismi e idee a volte opposte, questo racconto ha equiparato così posizioni largamente condivise a ipotesi senza fondamento scientifico, dando l’idea di una comunità di studiosi divisa e contrapposta tra le parti.

Per Martini “oggi c’è stata quella che può essere definita una democratizzazione della scienza. A causa della pandemia molti virologi e scienziati sono diventati delle celebrità televisive e si sono scoperti influencer. La scienza si è avvicinata alla società civile con i modi della comunicazione di massa, e questo a mio avviso è un metodo sbagliato”.

Comunicazione, la stai facendo male: il protagonismo pandemico di alcuni scienziati

Quello che serve quindi è un modo radicalmente diverso da parte di chi lavora nel mondo della scienza di approcciarsi alla comunicazione, per non rischiare la confusione e la mancanza di fiducia nel settore verso cui ci si sta muovendo. L’analisi di Martini evidenzia che “oggi non esiste nella formazione scientifica qualcosa che formi alla comunicazione della scienza. Ci sono tanti master, ma più intesi alla divulgazione della scienza e dei suoi risultati, per avvicinare a questi temi le persone comuni”.

È invece importante colmare la lacuna esistente nei percorsi formativi adeguati per insegnare ai lavoratori scientifici non solo a divulgare, ma anche e soprattutto a comunicare: “Dei corsi che vengano fatti nella preparazione della scienza per una comunicazione adeguata. La pandemia ha evidenziato questo, ed è importante, proprio perché la scienza è diventata di interesse pubblico e notiziabile, che venga comunicata in maniera corretta. Altrimenti si verifica ciò che è successo durante la pandemia: gli scienziati hanno comunicato troppo e male, e ancora oggi ne parliamo”, chiosa Martini.

Anche le conclusioni del Simposio FISV (Federazione Italiana Scienze della Vita) dello scorso aprile 2021 sono in linea con la posizione di Martini: la comunicazione top down che è stata fatta durante la pandemia è stata esasperata dalla visibilità inaspettata del mondo scientifico creata dalla diffusione del COVID-19, alimentando per molti una cultura della celebrità e della ricerca di protagonismo che certo non ha favorito il dipanare di dubbi e perplessità della popolazione.

L’abbraccio necessario tra scienza e discipline umanistiche

Quello che servirebbe quindi non è comunicare di più, ma comunicare meglio, e con gli strumenti giusti: lungi dall’evitare il dibattito, quello che si chiede agli scienziati oggi è di farlo con le competenze comunicative più adeguate. La pandemia ha confermato che sono necessarie e non se ne può più fare a meno, per il benessere della società tutta. Una sfida non certo semplice, anche perché per molto tempo queste stesse competenze sono state considerate “lontane” e non necessarie in questo campo.

D’altronde, prima dell’estremizzazione della parcellizzazione dei saperi, nel pensiero occidentale cultura scientifica e cultura umanistica erano una cosa sola, e lo scienziato ben sapeva di dover essere in parallelo anche un comunicatore.

La strada sembra essere di nuovo questa, e tale commistione di competenze è un approccio che interessa non solo la comunicazione della scienza, ma anche la sua produzione. L’idea è infatti che la complessità e la velocità delle nuove scoperte scientifiche e tecnologiche abbiano necessariamente bisogno del supporto e del sostegno del pensiero umanistico per affrontare valori e problemi etici e morali con maggiore consapevolezza, avendo cura di procurarsi i giusti strumenti per comprenderli. Un esempio su tutti è quello dell’AI, l’intelligenza artificiale, su cui da tempo lavorano team misti, orientati non solo a perfezionarne i risultati pratici, ma anche a comprenderne potenzialità e rischi sociali. Le dimensioni della tecnologia e della scienza si contaminano con quelle dell’economia, del diritto, della teologia e delle scienze sociali e politiche.

Un lavoro trasversale che richiede profonde competenze interdisciplinari, per lavorare e comunicare con e dentro la società.


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