“Mi piace, commenta, condividi”: Facebook ci ha incastrati in tre gesti

Campus di Facebook, Silicon Valley, aprile 2017. Entro come visitatrice grazie a un amico che ci lavora: l’accesso è consentito solo “su invito”. Una Disneyland incipriata e iperattiva, ma non è questo il punto. Mi racconta, premettendo che non può entrare nei particolari, che si trova bene col nuovo incarico e che fa parte di […]

Campus di Facebook, Silicon Valley, aprile 2017. Entro come visitatrice grazie a un amico che ci lavora: l’accesso è consentito solo “su invito”. Una Disneyland incipriata e iperattiva, ma non è questo il punto. Mi racconta, premettendo che non può entrare nei particolari, che si trova bene col nuovo incarico e che fa parte di un team multidisciplinare: stanno lavorando a una sorta di mappatura umana, con candore mi conferma come le politiche mediatiche di Zuckerberg, che professa la democratizzazione della rete fino in Africa, nasconde in realtà il bisogno di avere altri dati, che i loro dati su noi utenti stanno finendo perché hanno già coperto tanta parte di mondo, che ne servono di più, che devono incrociare, capire, prevedere, misurare. Stanno lavorando a un progetto che porterà Facebook in ambito sanitario, sperando un giorno di poter calcolare la durata di vita di ognuno, di cosa potremmo morire, quanto costeremmo al sistema sanitario, la copertura o meno di possibili polizze e assicurazioni. È il “quanto costeremmo al sistema sanitario” che mi fa tremare i polsi ma è solo il 2017, non c’è il minimo odore di emergenze sanitarie collettive, la prendo come una proiezione futuristica chissà quanto vera e quanto in là con gli anni ma quel soffio in testa, a forma di dubbio, non se ne è mai andato. Mi sono chiesta spesso se quell’amico potesse “condividere” con me simili informazioni, forse no, per quanto la naturalezza con cui si spiegava tradisse il suo stare completamente a proprio agio dentro un simile futuro.

“Condivisione”: eravamo abituati ad altro

Sono le tre vie mentali a cui Zuckerberg e il suo team ci hanno lentamente piegati, modellati, trasformati, costretti, convinti. Diciamolo: hanno saputo vincere. Anno dopo anno, un po’ al giorno, riempiendoci anche le notti insonni dove fino a pochi anni fa c’erano solo il buio per antonomasia e i pensieri neri da scalare dal letto a mani nude. Facebook si è presentato dal suo esordio come un grande amico e per un lungo periodo il mondo gli ha creduto, chiunque di noi si sia iscritto lo ha pensato, molti lo pensano ancora.

Istigando la nostra personalità più profonda – un misto di dopamina, rabbia, egocentrismo, solitudine, speranza – è soprattutto nel “condividi”, non quello coi soli amici, accompagnato dall’impellente “ora”, ma il “condividi” con un post a tua firma, che Facebook è stato abilissimo ad aprirsi il varco sociale anche se la società in carne e ossa lì dentro non c’era. Un gesto, solo un click, per arrivare a persone di cui non si conosce l’esistenza, gente di cui non si sente il bisogno, amici di amici che di colpo vengono a sapere che esisti anche se sei dall’altra parte del mondo. C’è anche il lato buono, nessuno lo nega e di sicuro prova a compensare i danni; eppure il logorio psicologico si sente ogni volta che ci compare davanti: essere costantemente sollecitati a chiederci se ci piace, se ci va di dire la nostra che tanto è a costo zero (ci illudevamo che fosse così, l’odio invece ha un prezzo sociale altissimo), se addirittura merita così tanto quel contenuto da farlo sapere al nostro giro di contatti e a quello degli altri.

Il guaio è accorgerci di quanto si restringa il campo mentale se decidiamo di commentare o condividere: lo spazio limitato del digitale, e la velocità con cui tutto scorre, o lo sai coniugare con la tua capacità di argomentare e di misurare tono e parole oltre che con lo scopo per cui stai per buttarti nella mischia, oppure non so se ne valga fino in fondo la pena. La guerra di trincea della prima guerra mondiale molti l’hanno traslata su Facebook.

Mai, come da quando esiste Facebook, la parola “condivisione” mi abita la mente. Ero cresciuta con altri significati: la condivisione dell’appartamento universitario, la condivisione del pane e del vino quando andavo a messa, la condivisione di un’idea in azienda prima che diventasse un progetto, la condivisione di uno stesso dolore dentro un ospedale. Li rivedo uno a uno quei significati, in retrospettiva, e ci vedo l’onestà, ci vedo uno scambio. Oggi no, quelle di Facebook nascono come gesti individuali e quasi sempre ambiscono a restare tali: quando condividiamo, spesso rinneghiamo il verbo e sovrapponiamo noi stessi all’azione. Se condividiamo un contenuto, d’istinto ci interessa andare a controllare se è piaciuto ciò su cui ci siamo esposti, se qualcuno ha commentato, se le visualizzazioni aumentano: la condivisione intesa come com-partecipazione ci interessa meno, metterci a confronto con gli altri ci interessa poco, offrire una parte di noi non è lo scopo che ci anima. Le persone che fanno eccezione non si sentano offese.

Zuckerberg ha preso il nostro ego, gli ha creato foto e profilo, gli ha promesso che non sarebbe più stato solo, lo ha convinto che su Facebook avrebbe potuto dire tutto e parlare sempre, soprattutto gli ha inculcato la bugia del secolo: che sarebbe stato continuamente in contatto con gli altri mentre di fatto lo stava abituando a fare a meno fisicamente degli altri. Ed è fisicamente che dobbiamo tornare a viverci, senza demonizzare i social ma rimettendoli al posto giusto.

Facebook, solo profitti: Lush non se ne è lavata le mani

“Ho trascorso tutta la vita a evitare di utilizzare ingredienti dannosi nei miei prodotti. Ci sono oggi prove schiaccianti che evidenziano quanto siamo a rischio quando utilizziamo i social media. Non ho intenzione di esporre i miei clienti a questo rischio, per cui è il momento di uscire dal giro”. Le parole sono di Jack Constantine, CDO & Product Inventor di Lush, la nota azienda di cosmetica che dai primi di dicembre è uscita da Facebook, Instagram, Snapchat e Tik Tok fino a quando queste piattaforme non saranno in grado di mettere in atto misure volte a offrire un ambiente più sicuro ai propri utenti. La loro nuova policy entra in tutti i 48 paesi in cui Lush lavora da anni; manterranno comunque la community su Twitter e YouTube. E aggiunge, dalle pagine di Prima Comunicazione: “Dopo un primo tentativo nel 2019, questa volta, la nostra determinazione è rafforzata dalle rivelazioni condivise da coraggiosi informatori, che hanno chiaramente mostrato e denunciato i noti danni cui soprattutto i giovani sono esposti a causa degli attuali algoritmi e della regolamentazione insufficiente del settore”.

Come Lush molte altre imprese, sempre di più. Come loro molti cittadini comuni, sempre di più. Soprattutto vanno segnalati i tanti manager in fuga dalla stessa Facebook: Stan Chudnovsky, ideatore di Messenger, il sistema di messaggistica dell’azienda, dopo sette anni e mezzo ha annunciato in un post su Facebook che abbandonerà il gruppo a metà 2022. Hugo Barra, a capo dei progetti di realtà virtuale tra cui Oculus su tutti, è già uscito. E Julien Codorniou, il cui nome è legato a Workplace, versione corporate di Facebook che punta a mettere in contatto i lavoratori, è già traghettato verso un grande azienda di venture capital. La lista, comunque, è ancora lunga.

Il social che aveva fatto del “condividi” la sua fortuna, proprio tramite la whistleblower Frances Haugen, ex manager che ha svelato i segreti di Facebook portando la sua accusa al Congresso americano, si è trovato vittima di una “condivisione” che ha parlato al mondo intero. La ex dirigente del gruppo, che lavorava al controllo delle disinformazioni elettorali, non ha lesinato parole nel dire che l’azienda predilige costantemente il profitto ai danni della sicurezza e dei diritti degli utenti, nasconde informazioni e dati fondamentali sulle sue pratiche alle autorità di regolamentazione. “Facebook si nasconde dietro mura che impediscono a ricercatori e regulators di comprendere le vere dinamiche del sistema. Dobbiamo semplicemente credere a quanto afferma Facebook e hanno ripetutamente dimostrato che non meritano la nostra cieca fiducia. L’azienda continuerà a porre i suoi astronomici profitti prime delle persone in assenza di un necessario intervento congressuale”.

Se un click ci cambia il cervello: i musicisti lo sanno

A livello morfologico e funzionale anche il nostro corpo sta cambiando. Siamo ancora nella fase del rilevamento dei dati e delle analisi a livello biologico e neuroscientifico e, per fortuna, non nella fase del giudizio: l’essere umano evolve da sempre a seconda dei contesti e delle epoche e l’approccio più fuorviante sarebbe quello di sindacare se sia giusto o sbagliato che cambi.

Intanto il cervello sta mutando la sua plasticità e molti scienziati ormai da anni studiano se l’uso della punta delle dita sui touchscreen modifichi o meno l’attività corticale nella corteccia somatosensoriale: spiegano che il presupposto iniziale è che lo spazio corticale assegnato ai recettori tattili sulla punta delle dita è influenzato dalla frequenza di utilizzo della mano. I musicisti sono un classico esempio ma non sono gli unici: i loro cosiddetti “potenziali corticali” sono decisamente più sviluppati in corrispondenza della punta dell’indice e del pollice ma, come loro, anche il campione di studio che utilizzava dispositivi mobili dotati di touchscreen rispetto al campione che utilizzava telefoni cellulari non sensibili al tocco. Il risultato di questi primi studi, già datati 2015, era che l’uso ripetitivo di touchscreen rimodella fortemente l’elaborazione somatosensoriale nella punta delle dita, oltre al fatto che tale rappresentazione può cambiare in un lasso di tempo molto breve, anche in pochi giorni in caso di utilizzo prolungato e costante. Ciò che non è stato ancora perfezionato come studio è se tale espansione corticale nella punta delle dita si sia verificata a scapito di altre capacità, una su tutte la coordinazione motoria. Anne Dominique Gindrat e Michael Webster sono tra i nomi di riferimento se il tema appassiona. Peccato che certi studi restino chiusi nei congressi scientifici come bolle ad uso privato e non entrino minimamente nei dibattiti pubblici o politici o mediatici: eppure anche questa è una forma di prevenzione e tutela della salute dei cittadini, per quanto si sia ormai palesato, grazie alla pandemia, che alla fine siamo solo numeri, costi da gestire, posti letto da liberare, piani pandemici da insabbiare.

2021: nuove forme di “condivisione” 

Ogni volta che lo sento dire mi chiedo se ci rendiamo conto di quanto si sia appiattito il linguaggio, omologato al già detto, senza personalità: in apertura di convegni, congressi, seminari, eventi pubblici, chi prende la parola non si esime più dal dirlo in premessa, quasi a mettere le mani avanti coi guanti della generosità. “Oggi vorrei condividere con voi”. Abituiamoci a non farlo più: parliamo, entriamo in contatto con chi ci ascolta, cerchiamo la lunghezza d’onda giusta che permetta a chi ci sta di fronte di non distrarsi dal nostro desiderio di raccontare o spiegare, proviamo a non sembrare finti e impeccabili. Allora sì che avremo condiviso qualcosa di noi senza dirlo solo a parole.

La pandemia ci ha costretti a condividere lo schermo. Non solo, per lavorare, abbiamo aperto le telecamere dentro casa nostra, negli uffici, sui divani, dal letto, in cucina coi piatti sporchi dietro: abbiamo imparato a far vedere agli altri cosa stiamo vedendo dal nostro computer. Un voyeurismo di lavoro, autorizzato e lecito. Abbiamo girato lo sguardo – il nostro e il loro: all’inizio non ci riuscivamo, chiedevamo intervento al tecnico di turno, alla fine le piattaforme hanno semplificato il gesto e col pulsante davanti agli occhi è bastato un click. “Lo vedete ora il mio schermo?”. Solitamente va a finire così. C’è solo da capire dove andremo a finire noi, e se e dove sapremo mettere un punto alle continue incursioni nel nostro vivere, come se niente fosse, spacciandosi per “condivisioni”.

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