Soricelli, lei ha iniziato a contare i morti sul lavoro il 1 gennaio 2008, subito dopo l’incidente mortale che costò la vita a sette metalmeccanici della ThyssenKrupp di Torino. Le è bastato poco per capire che c’era qualcosa che non tornava.
Mi sono reso subito conto che in rete mancavano dati aggiornati perché gli unici disponibili, quelli diffusi dall’INAIL, erano vecchi di un anno. Mi sembrava incredibile che, con le tecnologie esistenti, nessuno facesse un monitoraggio quotidiano, e così decisi di farlo io. In questi quindici anni ho contato oltre 20.000 morti sui luoghi di lavoro. Sono i numeri di una strage di Stato, che però nessuna delle fonti istituzionali vuole vedere nella sua portata reale e continua a sottostimare. Il fatto è che l’INAIL registra soltanto i morti che sono suoi assicurati. Per capire la portata della discrepanza, basti pensare che secondo il primo rapporto semestrale INAIL 2023, che conta sia i morti sul luogo di lavoro sia quelli in itinere, tra gennaio e giugno sono state presentate all’istituto 450 denunce di infortunio mortale, in calo del 2,8% rispetto allo stesso periodo del 2022. Stando al mio monitoraggio, che non tiene conto di quelli in itinere perché io li conteggio a parte, nei primi sette mesi di quest’anno i morti sui luoghi di lavoro sono invece stati 542 contro i 451 del 2022, con un aumento del 17%. Se poi confrontiamo questo dato con i 358 registrati al 31 luglio del 2008 vediamo che i decessi sono cresciuti più del 36%. La verità è che in questi quindici anni oltre 7.000 lavoratori non sono stati registrati da nessuno se non dal mio Osservatorio. Dall’inizio dell’anno a oggi, al netto di quelli in itinere, ho contato 648 morti: se prosegue l’andamento attuale, entro la metà di ottobre raggiungeremo il numero di morti dell’intero 2022, che sono stati 670.
Come è possibile una discrepanza tale da capovolgere la lettura della situazione?
C’è un grosso problema di imparzialità e trasparenza tra politica ed enti di controllo. Come quando, per esempio, chi ha fatto il ministro del Lavoro e delle Politiche agricole va a ricoprire cariche dirigenziali negli Enti e Istituti che fanno capo ai loro ex dicasteri. È evidente che questa sovrapposizione di ruoli tra controllore e controllato crei situazioni quanto meno ambigue.
Qualcuno delle Istituzioni ha mai mostrato interesse per i dati che lei ha raccolto?
No. Pur avendo spedito migliaia e migliaia di e-mail ogni anno nessuno è venuto a vedere se quello che scrivo è vero. In tutto questo tempo sono stato lasciato del tutto solo, considerato un nemico perché metto in discussione la narrazione ufficiale che copre inefficienze e scarsa trasparenza, anche nella gestione dei soldi pubblici spesi per la sicurezza.
Perché le Istituzioni si accontentano di dati che sanno essere parziali?
Credo per due ragioni. Innanzitutto, sottostimare il problema ne limita l’impatto sull’opinione pubblica, che si ribellerebbe se, a fronte della grande quantità di denaro speso dallo Stato per la sicurezza sul lavoro [il Bando ISI INAIL 2022 per la sicurezza ha stabilito uno stanziamento record di oltre 333 milioni di euro, N.d.R.], conoscesse il numero reale dei morti e capisse quindi che non si sta ottenendo alcun risultato su questo fronte. E poi ammettere le reali dimensioni del fenomeno significa chiamare in causa le ragioni alla base di un così elevato numero di morti, che derivano tutte da scelte politiche. Si muore sul lavoro quando si è precari, ossia ricattabili e poco formati sulla sicurezza, come avviene per i tanti dipendenti di ditte subappaltatrici. O quando non si ha più l’età per svolgere certe mansioni, come nel caso degli ultrasessantenni che lo Stato obbliga a lavorare fino a 67 anni e dei pensionati che continuano a lavorare perché l’assegno dello Stato non basta per vivere: non è un caso che il 30% dei morti sia ultrasessantenne. O, ancora, quando si sfugge a qualunque controllo perché si è costretti a lavorare in nero. Tutte queste situazioni sono il prodotto di precise scelte politiche e di leggi come il Jobs Act, oltre a quelle che hanno alzato l’età pensionabile.
Quindi la sicurezza è direttamente proporzionale alla tutela dei diritti del lavoratore: più i contratti sono precari e le condizioni di lavoro “al ribasso” o addirittura illegali, meno c’è sicurezza.
Esatto, tanto è vero che dove sono presenti i sindacati non ci sono quasi morti sul lavoro e, quando ci sono, non sono i dipendenti diretti, ma quelli delle ditte subappaltatrici. Non solo: sotto i sessant’anni un morto su quattro è straniero, categoria molto spesso impiegata nell’ambito del lavoro illegale.
Negli ultimi anni il lavoro è molto cambiato, nelle forme e nelle tutele (o nella loro mancanza), ma si può dire altrettanto del problema che stiamo affrontando?
No, perché la composizione delle morti, da quindici anni a questa parte, è rimasta la stessa. Il 30% sono agricoltori, soprattutto schiacciati dal trattore (in 2.500 hanno fatto questa fine da quando ho aperto l’Osservatorio, un lavoratore su cinque tra i 15 e i 90 anni). Poi ci sono i lavoratori edili (il 20% dei deceduti sul lavoro), che sono spesso in nero e che perdono la vita prevalentemente cadendo dall’alto. Gli autotrasportatori sono il 7% e muoiono sia per incidenti sia d’infarto per l’eccessivo stress. L’industria, nel suo complesso, ha il 6-7% di morti ogni anno, per lo più lavoratori in appalto che nessuno controlla. E poi ci sono gli artigiani e gli addetti delle piccole aziende che, per esempio, restano fulminati o precipitano dal tetto, i boscaioli schiacciati dagli alberi, i lavoratori domestici, che muoiono svolgendo le attività più disparate. E, infine, ci sono i lavoratori che muoiono in itinere, il 40% di tutti i morti sul lavoro.
Che cosa bisognerebbe fare che invece non si fa?
Oltre a cancellare le leggi che precarizzano il lavoro e quelle che costringono a lavorare fin quasi a settant’anni, bisognerebbe abolire il ricorso al subappalto, dove le norme sulla sicurezza spesso non sono rispettate; aumentare la sindacalizzazione nelle piccole imprese e incrementare i controlli. E poi fare tanta formazione, perché in Italia manca una cultura della sicurezza.
Insomma, affinché questa strage abbia fine ci vorrebbe davvero una rivoluzione copernicana. Le domande sono ancora tante. La più pressante tuttavia è una: com’è possibile che le Istituzioni, forti delle loro risorse economiche e umane, non siano in grado di fare un lavoro che riesce a un privato cittadino, armato solo di computer e telefono?
Photo credits: in copertina, una scultura di Carlo Soricelli