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Analizziamo gli effetti che avrebbe la vittoria del Sì al quarto quesito referendario sul mercato degli appalti e le conseguenze sul sistema delle imprese: spaventare le aziende committenti significa rendere il lavoro più sicuro? L’opinione dell’avvocato lavorista Carlo de Marchis
Più sicurezza negli appalti imponendo maggiori responsabilità all’impresa che li commissiona. Se in una ditta si verifica l’infortunio di un lavoratore ne risponde anche l’azienda “madre”, anche se l’incidente è derivato dal “rischio specifico” correlato all’attività tipica di quella ditta. Questo è ciò che chiede uno dei quesiti referendari proposti dalla CGIL, sui quali gli italiani si esprimeranno l’8 e il 9 giugno. Un modo per garantire maggiore tutela a valle, ma anche per scoraggiare a monte il ricorso ad appalti e subappalti, che nel nostro sistema economico sono spesso diventati – tramite gli abusi – un modo per aggirare le norme sulla sicurezza, comprimere i salari, fare utili a danno dei diritti di chi lavora.
Come per tutti gli altri, il quesito presenta una complessità tecnica, ma anche una solida base rispetto al significato politico che si vuole dare: basta con la giungla di appalti. Sul fatto che questa frammentazione continui a rappresentare un’emergenza nel nostro Paese sono tutti d’accordo. Allo stesso modo, gli esperti concordano sul fatto che anche le ultime norme approvate contro gli appalti “fraudolenti” non sono ancora sufficienti a risolvere il problema.
Sulla soluzione drastica proposta dalla CGIL, però, si sono sollevate anche alcune critiche.
Sulla rivista Lavoro Diritti Europa, il professor Marco Ferraresi ha ritenuto che “la scure referendaria, per sé già inadatta, si risolverebbe vieppiù in un rimedio peggiore del male, finendo per assumere un carattere punitivo, paradossalmente, per i committenti di appalti genuini”. Il docente, infatti, sostiene che sia più corretto affrontare la questione sul piano di una riforma, e non con lo strumento dell’abrogazione via referendum.
Il timore di alcuni esperti è che, sottraendo l’esonero dalla responsabilità per gli infortuni che derivano dal rischio specifico dell’azienda in appalto, questo faccia nascere una responsabilità oggettiva. Una sanzione troppo severa, soprattutto per le imprese che ricorrono all’appalto per necessità, e non per convenienza – cioè che non hanno al proprio interno personale per svolgere i lavori richiesti. Il senso dell’iniziativa referendaria, però, è soprattutto introdurre una norma disincentivante, non tanto arrivare alla punizione finale: così come aumentare i casi di reintegrazione potrebbe limitare i licenziamenti, anche la responsabilità solidale negli appalti potrebbe aumentare l’attenzione da parte dei committenti.
Insomma, se ho un’azienda e ho bisogno di appaltare un lavoro a un’altra azienda, dovrò prima pormi alcune domande. Posso svolgere quel lavoro in autonomia, con il mio personale? Se la risposta è sì, allora è bene percorrere questa strada, così da controllare direttamente le attività svolte e prevenire eventuali infortuni. Se la risposta è no, allora sarà bene effettuare una meticolosa selezione tra le ditte per scegliere quella più affidabile, che dà maggiori garanzie, in cui si sono verificati meno infortuni, almeno per quanto se ne può sapere. Affidarsi alla più economica rischia di diventare un clamoroso autogol, perché è verosimile immaginare che quei risparmi colpiranno proprio la sicurezza, e quindi i lavoratori potrebbero essere più esposti agli incidenti dei quali risponderebbe anche l’azienda committente.
C’è poi un’ulteriore conseguenza, che potremmo definire di sistema. Se le norme in termini di appalti privati sono tutto sommato permissive, al netto di quelle che perseguono le ipotesi fraudolente, questo è un altro di quei fattori che spinge le imprese a restare piccole, a non allargare la loro dimensione e la loro sfera di attività. Diversamente, nel medio e lungo periodo una normativa che scoraggi la frammentazione può appunto favorire le concentrazioni, perché vengono meno almeno alcuni dei vantaggi dell’appalto selvaggio.
Carlo de Marchis è un avvocato lavorista, ha seguito alcuni dei più importanti processi portati avanti dalle federazioni della CGIL in questi anni, come per esempio le iniziative giudiziarie contro le imprese del food delivery e contro Amazon. Tramite alcuni esempi, ci ha aiutato a comprendere le implicazioni del quesito referendario sulla sicurezza negli appalti.
“Immaginiamo un supermercato che dà in appalto la gestione di un impianto elettrico” spiega il legale. “Oggi il supermercato è portato a scegliere l’impresa che lo fa risparmiare proponendo il prezzo più basso. Questa impresa non investirà in sicurezza e formazione, non prenderà lavoratori specializzati. A quel punto che succede? Se c’è un infortunio, è un rischio specifico dell’elettricista, cioè proprio dell’attività appaltata. Il supermercato non risponderà di quanto avvenuto. Nel momento in cui togli questo limite del rischio specifico aumenti invece la responsabilità, e il committente – che di norma è grosso – poiché risponde anche del rischio specifico, andrà a trovare una ditta seria.
“Il diritto alla salute è un diritto fondamentale secondo la Costituzione; considerando che abbiamo tre morti al giorno sul lavoro, è necessario responsabilizzare le imprese. Attenzione, la responsabilità solidale vuol dire che ne risponde anche il committente, non solo il committente. Questo vuol dire che chi dà l’appalto poi può comunque rivalersi sull’impresa appaltatrice. Questo che significa? Che oltre a scegliere l’impresa che darà maggiori garanzie in termini di sicurezza, sceglierò anche quella con maggiore solidità finanziaria, che è più solvibile. Le imprese che sarebbero penalizzate e andrebbero fuori dal mercato sarebbero quelle meno serie.”
Tra l’altro, ricorda il lavorista, le grandi imprese saranno più propense a controllare le polizze assicurative delle aziende che commissionano, per capire che tipo di copertura hanno in caso di danni.
L’idea alla base, quindi, è di una serie di benefici a catena. Oggi, come si diceva, negli appalti si nasconde un doppio rischio di dumping: quello sui salari, attraverso l’applicazione dei contratti pirata, e quello sulla sicurezza. Al primo si è risposto con una norma che impone l’applicazione dei contratti collettivi “leader”; la tutela in materia di sicurezza resta invece scarsa.
Bisogna poi soffermarsi su un altro aspetto: l’attuale norma pone una serie di perplessità interpretative. Finora abbiamo dato per scontate le definizioni usate, ma se entriamo nella pratica quotidiana, come si fa a distinguere un rischio specifico da un rischio generico? Quali criteri vanno adoperati?
“Esiste una notevole casistica molto complessa” insiste de Marchis. “Il quesito referendario avrebbe l’effetto di semplificare, e a quel punto le imprese non avrebbero più la scusa per nascondersi dietro il rischio specifico, che è la prima cosa che si eccepisce in Tribunale in casi simili”.
Va infine ricordato che oggi i danni subiti dai lavoratori infortunati sono indennizzati dall’assicurazione INAIL, fino a un certo punto. L’Istituto, infatti, paga il danno subito sulla base di un tabellare; restano fuori il danno morale e il cosiddetto differenziale, cioè la differenza tra quel tabellare INAIL e il danno specifico. Di questi dovrebbero rispondere le imprese coinvolte. Se il rischio è specifico, oggi ne risponde solo l’impresa datrice di lavoro diretta della vittima dell’infortunio. Nelle speranze della CGIL, invece, questa responsabilità va estesa sempre anche a chi ha commissionato l’appalto.
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