Partite IVA, indipendenti vuol dire soli?

Il rischio di povertà è del 6% più alto per le famiglie il cui reddito principale proviene da lavoro indipendente: non basterà una flat tax per risolvere i problemi dei lavoratori autonomi. Ma all’orizzonte non si profilano riforme di sistema.

Per alcuni è una scelta dettata dalla voglia di poter decidere del proprio lavoro in autonomia ed esplorare altre strade, per altri è invece obbligata: non riuscendo a ottenere un lavoro fisso si “accontentano” di avere più collaborazioni possibili. C’è poi chi trova un’azienda per cui lavorare, che però non ha nessuna intenzione di fargli un contratto nonostante richieda una presenza fissa.

Quello che abbiamo appena tratteggiato è il mondo delle partite IVA o dei cosiddetti lavoratori autonomi, che in Italia, stando agli ultimi dati elaborati dall’Ufficio Studi della CGIA sui numeri forniti dall’ISTAT nel novembre scorso (relativi al settembre 2022), sono 5.019.000. Alcune si sono perse per strada, visto che nello stesso periodo del 2021 le partite IVA erano ben 16.000 in più.

Ma che cosa vuol dire oggi essere un lavoratore autonomo? Dietro queste due parole, di solito usate per operare una differenza netta con il lavoratore dipendente, nella realtà c’è un vero e proprio mondo che chi scrive conosce bene.

Anni fa, nel 2017, dopo tre anni da dipendente e un’uscita tutt’altro che serena da un’azienda, decisi che era ora di mettermi alla prova come freelance. Lo confesso: sono felice di questa scelta e non tornerei indietro, anche solo per dare ascolto a quel mal di pancia che mi viene ogni volta che mi propongono un lavoro con orari fissi, una sede e la pianificazione delle vacanze subordinata all’approvazione di un comitato composto da manager e HR.

Le partite IVA in Italia a rischio di povertà o esclusione sociale

Al di là della convinzione, essere un lavoratore autonomo in Italia non è facile per tantissimi motivi: l’incertezza, sicuramente, ma anche il rischio di povertà. A fronte di chi magari negli anni è riuscito a costruirsi una rete di clienti e di persone con cui collaborare – pur sapendo che è possibile perdere tutto da un momento all’altro – i rischi di povertà o esclusione sociale sono sempre dietro l’angolo. Specie quando si vive in una famiglia i cui membri hanno come reddito principale quello da lavoratore indipendente.

A parlare ancora una volta sono i numeri, come quelli proposti dalla CGIA, sempre su dati ISTAT, che testimoniano come ilpopolo delle partite IVA” (ma avete mai sentito parlare del “popolo dei dipendenti?” Anche in questo c’è una significativa differenza), in cui si inseriscono artigiani, liberi professionisti ma anche commercianti, abbia più difficoltà economiche dei lavoratori dipendenti. E riguardo a questo la pandemia, di cui ancora ci riempiamo la bocca, non ha fatto altro che peggiorare la situazione.

Secondo l’indagine campionaria dell’ISTAT relativa al 2021, la percentuale di famiglie con reddito principale da lavoro dipendente a rischio povertà o esclusione sociale è del 18,4%. Quando invece il reddito principale viene dal lavoro autonomo, si innalza al 24%.

La partita IVA oggi: da status symbol a ripiego

Per gli imprenditori individuali c’è un aspetto poi da considerare: a differenza dei lavoratori subordinati, quando chiudono l’attività non hanno nessun sostegno al reddito.

Non solo: per loro non è facile trovare un altro impiego, il che è dovuto spesso all’età non giovanissima di chi si mette in proprio e ci resta per anni, ma anche al fatto che, secondo la CGIA, le difficoltà del momento hanno costituito una barriera invalicabile al reinserimento, spingendo a volte queste persone verso il lavoro in nero.

E se fino a una decina di anni fa aprire una partita IVA era uno status symbol, oggi per un giovane spesso è un ripiego, o nei casi peggiori una costrizione da parte di un committente che non vuole fare un contratto. Che agisce così per risparmiare sui contributi, sull’assicurazione, sui benefit, ma nonostante questo chiede al freelance la stessa disponibilità e abnegazione di un dipendente.

Restando nell’ambito di chi invece è appena entrato nel mondo dei lavoratori autonomi, l’Osservatorio delle Partite IVA del ministero dell’Economia e delle Finanze ci dice che sono 94.080 quelle aperte nel terzo trimestre del 2022.

Di queste, il 69,7% è costituito da persone fisiche, il 21,8% da società di capitali, il 2,8% da società di persone. Si può vedere come la maggioranza sia composta quindi da imprenditori individuali, ma emerge anche un altro dato: rispetto al terzo trimestre del 2021, c’è un calo generalizzato. Nel caso delle partite IVA aperte da persone fisiche, dell’8%.

Un sindacato per le partite IVA: la necessità di una forza coesa e organizzata

Al di là dei numeri, quello su cui è importante riflettere non è solo la situazione economica delle partite IVA, ma tutto ciò che manca a un lavoratore autonomo rispetto a un dipendente, temi di cui in questi anni su SenzaFiltro ci siamo occupati spesso.

Innanzitutto manca un sindacato che abbia a cuore gli interessi e i bisogni delle partite IVA e che sia il più organizzato e coeso possibile. Come abbiamo avuto modo di dire già su SenzaFiltro, la rappresentanza per le partite IVA c’è, ma non arriva davvero a essere così forte da generare pressione, come avviene nel caso di varie categorie di lavoratori dipendenti. Certo, in questo caso non si parla di rinnovi di contratto come potrebbe essere per i metalmeccanici, né di riconoscere determinati benefit (ma poi perché no?), ma è importante considerare le partite IVA come un unicum, e pertanto come una forza.

Al momento NIdiL della CGIL, che si rivolge ai lavoratori atipici, vIVAce della CISL, ACTA per i freelance, esistono sì, ma non sono percepiti dalle partite IVA come un vero e proprio sindacato al pari di quelli che tutelano i dipendenti. Si tratta di forze che vengono incontro alle richieste dei liberi professionisti, ma che ancora non hanno fatto il vero e proprio salto.

L’importanza di avere dei contributi universali e permanenti

C’è poi il nodo dei contributi destinati ai lavoratori autonomi. Come abbiamo visto durante la pandemia, i vari ristori o i contributi a fondo perduto – solo per citarne alcuni – hanno richiesto delle condizioni stringenti, tra cui la perdita del fatturato rispetto agli anni precedenti alla pandemia.

Requisiti che aumentano lo spartiacque tra chi è un dipendente che gode di benefit aziendali, welfare (tra le ultime novità i fringe benefit fino a 3.000 euro), buoni pasto ecc., e chi ha una partita IVA. Se per chi lavora in azienda ottenere un benefit non è così difficile – e le stesse aziende sono incentivate a darli, ottenendo sgravi e deduzioni interessanti – per le partite IVA non è ancora così.

Legare una misura di sostegno a una situazione peggiorativa può voler dire che chi non ha avuto perdita di fatturato, o magari l’ha migliorato di qualche migliaio di euro, non ha diritto a nulla; ma non è detto che non sia in difficoltà.

Indennità di malattia e maternità: ancora troppo pochi i passi in avanti

Per non parlare poi della malattia. Chi ha partita IVA si vede riconosciuti dei trattamenti economici davvero esigui e soggetti a determinate condizioni. Innanzitutto, per l’indennità di malattia bisogna essere iscritti a una gestione separata e avere per esempio almeno un mese di contributi nei 12 che prevedono la malattia, e altri requisiti legati al reddito. E che cosa succede a chi ha aperto la partita IVA da poco?

Senza dimenticare, poi, che spesso i freelance lavorano da soli, pertanto quando stanno male spesso sono costretti a portare avanti delle attività per non compromettere il rapporto con un cliente che potrebbe non essere così clemente.

In merito alla malattia, la Legge di Bilancio del 2022 ha previsto l’esonero per le partite IVA dagli obblighi tributari e fiscali per un periodo che può andare dai 30 ai 60 giorni, se sono costrette a sospendere la propria attività a causa di una grave malattia o infortunio. Una novità importante, ma che ancora non porta all’equiparazione tra le diverse tipologie di lavoro e che, ancora una volta, prevede dei requisiti. Tra questi l’essere iscritti a un albo professionale, il che per esempio esclude qualche professione: web designer, grafici, coach e altri lavori non lo prevedono.

Differenze profonde tra lavoratrici dipendenti e freelance ci sono anche per quel che riguarda la maternità: l’indennità è riconosciuta alle future mamme, ma con diversi “paletti”. Intanto non per tutti i vari enti contributivi esiste un’indennità di maternità minima e garantita, così come per ottenere la maternità è necessario essere iscritte a una cassa previdenziale. Inoltre, viene riconosciuta un’indennità pari all’80% della retribuzione “media” di riferimento calcolata sull’anno precedente.

Chi ha però un’anzianità contributiva inferiore a un anno potrà determinare la sua indennità solo relativamente al reddito del periodo compreso tra il mese di iscrizione alla gestione separata e l’inizio del periodo indennizzabile.

Per chi resta incinta e ha aperto partita IVA da poco, l’indennità rischia di essere davvero esigua. Cosa che, come sappiamo, non succede a chi ha un lavoro dipendente. Inoltre per le lavoratrici dipendenti sono previste due ore giornaliere pagate per l’allattamento. Certo, una freelance può organizzarsi in autonomia, ma vive da neomamma una situazione sicuramente non facile per la gestione del lavoro.

Visto che le esigenze di una mamma non sono diverse se è dipendente o libera professionista, sarebbe bene equiparare le due modalità di lavoro anche per questo aspetto.

Freelance e salute mentale: che cosa si può fare per favorire l’equilibrio

I liberi professionisti o freelance, che dir si voglia, hanno inoltre molti problemi legati alla tipologia di lavoro che portano avanti: orari a volte inesistenti, il fatto di dover non solo fare il proprio lavoro, ma anche dover recuperare i crediti, gestire la contabilità e così via. Non avere ferie, non godere di un’indennità di malattia al pari dei lavoratori dipendenti, non avere un welfare che sia uguale a quello aziendale, spesso li porta a situazioni di grande stress, arrivando a sfociare in ansia, depressione e burnout. Senza considerare poi che i problemi personali a volte possono essere amplificati da un lavoro che richiede una presenza continua (si parla di presentismo) e un’attenzione costante, come abbiamo detto nell’articolo dedicato alla salute mentale delle partite IVA.

Riconoscere questo stato di cose, prevedere delle convenzioni simili ai servizi psicologici offerti dalle aziende – magari dei bonus ad hoc proprio per i freelance – potrebbe di gran lunga migliorare il lavoro di un autonomo.

Ma soprattutto, insieme ad altre misure – malattia, maternità, contributi agevolati senza condizioni – vorrebbe dire riconoscere l’importanza per la nostra economia di questi cinque milioni di persone che ogni giorno si organizzano da sé, senza tutele e dovendo reinventarsi costantemente il lavoro.

Per una riforma del lavoro che coinvolga davvero le partite IVA

È altrettanto importante dare un sostegno quando l’attività chiude e dall’altra parte non c’è un paracadute come può essere la NASpI per i dipendenti.

Agire in questo modo vuol dire sostenere i liberi professionisti nei rischi che decidono di correre dando il loro contributo all’economia del Paese. Significherebbe riconoscere che spesso, come è evidente in alcuni contesti – come quello editoriale, per citarne uno – a portare avanti un’azienda sono più i freelance che i dipendenti.

Sarebbe dunque necessaria una riforma del lavoro che coinvolgesse davvero i liberi professionisti e che andasse al di là di una flat tax che non sembra tutelare chi non guadagna tanto ed è tartassato dalle tasse.

Minore pressione fiscale, politiche di sostegno senza condizioni e magari un ricalcolo dei contributi pensionistici sulla base del lavoro svolto potrebbero aiutare non poco le partite IVA.

Leggi gli altri articoli a tema Precariato.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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Foto di copertina di Cocoandwifi da Pixabay

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