Pastore, femminile plurale

Diversi giovani e donne scelgono di dedicarsi alla pastorizia, nel silenzio del mondo del lavoro e nell’assenza di scuole dedicate. Abbiamo raccolto le testimonianze di chi ha perseguito questa professione.

In Italia si comincia a parlarne, ma lei, in Germania, l’ha frequentata vent’anni fa e per questo suo ruolo da pioniera è nota ancor oggi. È la pastora italo-tedesca Cheyenne Daprà, la prima donna ad aver seguito la scuola di formazione nazionale per accedere a questa professione, superando l’esame di fine corso che constava in una transumanza nella Foresta Nera. Aveva 27 anni. Con lei un suo compagno di classe, una roulotte, ottocento pecore e un carrettino per caricare gli agnellini nati durante il viaggio.

La sua specialità è la cura e il mantenimento del territorio con le sue pecore, con le quali ha a lungo lavorato per molti Comuni di montagna in Trentino, e allo scadere del mandato nell’amministrazione, spiega, un reimpiego non manca mai, grazie alla sua competenza estesa alla transumanza. Oggi è infatti pastora e “influencer di gregge”, come è stata definita su Instagram. Il suo titolo e la sua esperienza, le consentirebbero inoltre di diventare mastro pastore, cioè di poter formare altri professionisti del campo. Se ci fosse una scuola nazionale, però, che invece non c’è.

Cosa comporta questo? “È un po’ come se il nostro mestiere non fosse riconosciuto”, dice Cheyenne. “Non essendoci una scuola non c’è titolo. Come se fossimo delegittimati, diciamo. Eppure c’è necessità di farlo, e ci sono molti giovani interessati al settore della pastorizia. Inutile dire che il lavoro richiede spirito di sacrificio, per prendersi un po’ di vacanza serve una grande pianificazione perché gli animali hanno bisogno di cibo e cure ogni giorno e necessita quindi un collega che ti sostituisca, ma personalmente non rimpiango niente della mia scelta. Anzi. Mi sento fortunata per aver capito sin da giovanissima quale era il mio lavoro”.

Perché i giovani scelgono la pastorizia, mestiere antico e necessario

Un sentire sempre più diffuso, il suo, anche se non sempre altrettanto immediato. Sono infatti numerosissimi i giovani, soprattutto donne, che a un certo punto hanno rovesciato il proprio stile di vita. Alcuni di loro hanno una laurea in tasca, hanno lasciato laboratori scientifici all’interno di centri oncologici, hanno abbandonato studi dentistici e di architettura, studi di grafica, centri di bellezza, e sono passati alla pastorizia, concentrandosi sempre su specie autoctone.

Hanno scelto la strada delle transumanze o dell’allevamento stanziale, insieme ai coniugi e ai figli che sono nati e cresciuti tra i colori e con i tempi della natura e degli animali. Altri si sono specializzati come allevatori in stabulazione libera al pascolo (cioè allevatori che portano gli animali allo stato brado, per sei mesi in montagna e per altri sei in pianura), o di vacche e capre da alpeggio. O ancora, nella transumanza motorizzata (cioè non a piedi ma attraverso il trasporto con autocarri, pratica cui si è dovuto fare spesso ricorso durante il lockdown per non alimentare assembramenti). C’è poi chi ha scelto l’allevamento bio di alta montagna, chi la produzione del formaggio di malga, chi la transumanza come valore turistico.

Le loro storie, alcune note, altre del tutto inedite, si snodano letteralmente lungo tutto lo stivale, mosse da un’unica forza comune: la passione. Per la terra, per l’ambiente, per gli animali. A volte dietro c’è una storia di tradizione di famiglia; più spesso la voglia di fare un mestiere cruciale per la sopravvivenza dell’uomo, eppure in qualche modo ignorato, sebbene mai come nel nostro tempo la ricerca di cibo davvero sano prodotto nel rispetto dei cicli della natura sia spasmodica.

Da Scienze Alimentari all’allevamento in montagna

“Se soltanto mio marito e io avessimo avuto alcune informazioni dodici anni fa, quando abbiamo cominciato, quanto tempo ed energie avremmo risparmiato”.

Così parla oggi Laura Masciocchi, che una dozzina di anni fa, con in tasca una laurea in Scienze Alimentari, è partita dalla sua Varese affacciata sul Lago Maggiore per un tirocinio estivo in un’azienda casearia di montagna. Qui si è innamorata del formaggio. Per imparare a farlo si è inscritta all’Università dei Mestieri di Moretta (CN), dove si è innamorata di Enrico, diventato suo marito. Ora vive con lui e i loro piccoli, Leandro, di quattro anni e mezzo, e Remigio, di venti mesi, a Pez di Ragoli, piccolissimo centro abitato nelle Valli Giudicarie in Trentino. Uno scampolo di paradiso condiviso con qualche centinaio di abitanti e tanti servizi a misura d’uomo.

La coppia racconta la trasversalità di questa professione, che li vede pastori ma anche imprenditori agricoli. “Abbiamo imparato molto negli anni – dice Laura – consultandoci continuamente con quelli che a suo tempo sono stati i nostri professori, e con l’esperienza. Abbiamo ampliato i nostri interessi, oggi abbiamo circa settanta capre, venti pecore da latte e da un paio di mesi anche due mucche, per diversificare e accontentare tutti i nostri clienti. Ma se avessimo potuto aver accesso a tante informazioni prima di ora, ad esempio su come integrare l’alimentazione delle pecore con i mangimi giusti, nei momenti giusti, avremmo potuto produrre latte e formaggio migliori e a costi molto minori da subito”.

Confermano con gioia la loro scelta Laura ed Enrico, che tra la natura e gli animali possono avere ogni pomeriggio i loro figli accanto. Neanche questo mondo incantato, bucolico, si salva però da uno dei grandi mali del nostro Paese: la burocrazia. “Servono registratori di cassa elettronici che richiedono per la chiusura una linea internet, non sempre piena tra le nostre montagne”, spiega Laura. “E poi i sistemi di etichettatura, i tanti certificati, i permessi per gli spostamenti. La burocrazia richiede anche a noi tantissimo tempo”.

Nicolda Di Niro: “Così abbiamo preservato la pratica della transumanza”

Ancora una volta la salvezza di certe straordinarie eccellenze parte dal basso, come ci dimostra Nicola Di Niro, coordinatore del progetto internazionale che ha portato alla candidatura, e poi nel 2019 all’inserimento, della transumanza nella lista del patrimonio culturale immateriale dell’Unesco.

“Tutto è cominciato – spiega Di Niro – quando nei primi anni del 2000 ho assistito alla transumanza a piedi dell’ultima famiglia molisana che eseguiva questa pratica. Circa quattrocento capi di razza bovina podolica, che transumano dal tavoliere delle Puglie a Frosolone (Isernia) anche grazie alla prima donna pastore d’Italia che si è cimentata in questa pratica, Carmelina Colantuono. Un’icona per noi. Un totale di 180 km in cinque giorni, partendo con l’ultima luna piena di maggio. Un lavoro duro, difficile, specie per coloro che scelgono l’allevamento estensivo, cioè lo stato brado, che per questo va valorizzato, protetto, sottoposto alla passione dei giovani.”

“Attualmente si sono aggiunte al nostro partenariato anche la Francia, la Spagna e altri Paesi, con i quali abbiamo esteso un piano di salvaguardia di questa attività, all’interno del quale prevediamo la creazione di una scuola internazionale, principalmente per appassionare le nuove generazioni. Con un programma decennale e un progetto correlato, stiamo cercando di partire dopo la battuta d’arresto a causa del COVID-19. L’anno prossimo dovrebbe essere quello buono.”

La pastora Carmelina Colantuono: “A questo mestiere serve una scuola. E meno burocrazia”

A chiudere il cerchio della nostra transumanza virtuale lungo la pastorizia ai giorni nostri, è proprio quell’iconica Carmelina, che con la sua testimonianza rinforza la necessità di una scuola nazionale normata e le difficoltà causate dalla morsa della burocrazia.

“Io ci sono arrivata per tradizione di famiglia – dice – e francamente non mi sento così tanti meriti quanto mi vengono accreditati, anche se per me è un grande onore. Certamente credo sia necessario aiutare i giovani ad approcciarsi a questo mestiere, chiamandolo prima di tutto col nome giusto: imprenditore agricolo, perché si fa davvero di tutto nel nostro mestiere. E poi con una formazione a tutto tondo, comprese le norme veterinarie di base, le tecniche più innovative con le quali è possibile migliorare molto l’allevamento, l’agricoltura. C’è molto da studiare e da apprendere.”

“Quanto alla burocrazia, è davvero molta. Dai permessi ai certificati da chiedere a tutti i Comuni che si attraverseranno durante la transumanza, perché chiaramente non possiamo transitare ovunque. Me ne occupo quasi esclusivamente io. Il carico è tale che, se così non fosse, i miei fratelli e nipoti, con i quali conduco l’azienda, non riuscirebbero a dedicarsi ad attività chiave”. 

In copertina Laura Masciocchi con il marito

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