PMI familiari, risparmiare sulla formazione costa troppo

“Una vita lavorativa piatta e senza stimoli”: diversi imprenditori di PMI a conduzione familiare scelgono di non formare i loro dipendenti. Ma esistono fondi e strumenti per supplire, a patto che ci sia un progetto di sviluppo.

“Nessun piano di inserimento, zero ore di formazione in aula, percorsi di crescita interni inesistenti e mai discussi. In pratica una vita lavorativa piatta e senza stimoli”.

Sono inequivocabili le parole di Martina, il nome è di fantasia, impiegata amministrativa di lunga data in un’impresa veronese a conduzione familiare attiva nel mondo della grande distribuzione. La scelta dell’anonimato le permette di raccontare senza troppi fronzoli la totale mancanza di interesse della sua organizzazione verso temi fondamentali come la formazione e lo sviluppo delle competenze.

Il tasto dolente della formazione nelle PMI familiari

E pensare che, subito dopo il diploma, Martina aveva colto con entusiasmo l’opportunità professionale, attratta dall’importanza di cui l’azienda gode, nel panorama veneto e non solo, grazie alle sue dimensioni in termini di fatturato e numero di lavoratori. Un’opportunità oggi tramutata in vicolo cieco, poiché senza un curriculum strutturato non è facile ricollocarsi e affrontare nuove esperienze.

“Nel primo periodo di servizio non ho prestato molta attenzione agli aspetti di crescita, intenta com’ero a guadagnarmi la conferma a tempo indeterminato e la stima dei miei superiori”, continua Martina. “Poi con il passare degli anni mi sono chiesta se anche gli altri gruppi si limitassero a chiedere ai propri dipendenti sempre la stessa routine, senza nessuna volontà di aumentare le conoscenze della squadra attraverso corsi specifici. Purtroppo, però, nei pochi colloqui sostenuti mi sono rivelata sempre piuttosto impreparata.”

Con questi presupposti il passo verso l’assenza di emozioni nei confronti del proprio lavoro è davvero breve. Riassumendo si può parlare di bassa autostima e bassa produttività, in un contesto di sconfitta e negatività che coinvolge tanto il lavoratore quanto l’azienda.

Mal comune, mezzo gaudio, si usa dire: la storia di Martina non rappresenta un caso isolato. “Il mercato della formazione, soprattutto nel mondo delle piccole e medie imprese familiari, è piuttosto complesso”, racconta Roberto Sola, specialista commerciale e di sviluppo business per Soges, società di consulenza manageriale torinese.

Un universo, quello delle PMI, dove nella maggior parte dei casi sul tema formazione la parola d’ordine è diffidenza. “Certo, anche perché molte aziende non hanno un vero ufficio del personale, sono sprovviste di budget dedicato e non accedono ai fondi interprofessionali, a maggior ragione per mancanza di una guida precisa e delle competenze giuste per sviluppare contenuti”.

Risorse umane, per le PMI costano troppo?

D’altro canto, lo sviluppo della prestazione rappresenta un punto chiave per le organizzazioni, in un’ottica di riconoscimento sociale mai come oggi determinante nei percorsi di carriera. Se infatti accrescere le competenze è condizione fondamentale per l’azienda, nell’attuale mercato del lavoro il miglioramento continuo risulta indispensabile anche per il singolo lavoratore, chiamato a implementare il suo valore per evitare di perdere nel tempo parte della professionalità acquisita.

Nelle piccole imprese spesso manca una direzione evoluta e il motivo principale, occorre ribadirlo, è la scarsa attenzione verso il mondo delle risorse umane da parte di alcuni amministratori. Mancanza di cultura organizzativa o scarse disponibilità economiche per strutturare l’organigramma?

Luca Marcolin, professionista che con Family Business Unit da un decennio si dedica alle imprese di famiglia, non indica una via precisa. “Spesso queste realtà non si possono permettere in organico uno specialista risorse umane, anche se da sempre c’è grande dibattito intorno alla funzione dedicata al personale. Per alcuni è indispensabile e strategica, per altri no. Di sicuro quando parliamo di piccole aziende familiari dipende molto dalla sensibilità dell’imprenditore”.

Immagino che la pandemia da COVID-19 abbia creato altre priorità. “Cerco di uscire dai classici luoghi comuni. A parte il periodo di blocco totale dovuto al lockdown di marzo e aprile 2020, ho notato che in genere le attività sono riprese in modo davvero vivace. Adesso ognuno a suo modo ha trovato un personale regime operativo, e dentro quel regime si è ripreso a correre. Ti dico di più: saranno le giovani generazioni a dettare i tempi in un periodo di grande rinnovamento. Stiamo vivendo un cambiamento strutturale e gestionale nel mondo del lavoro che, se mi permetti un linguaggio diretto, sta rendendo più vecchi i vecchi e più consapevoli i giovani, attivi e protagonisti come non mai. Da loro mi aspetto un salto di qualità in termini di proposte formative e sviluppo competenze”.

Bisogna dire che, al netto di quanto i giovani riusciranno a imprimere un reale cambio di marcia, un’impresa familiare di solito si spinge ad assumere uno specialista di risorse umane con un gruppo di almeno cinquanta persone, altrimenti non ha molto senso. “Senz’altro”, conferma Marcolin. “In strutture più ristrette è sufficiente avere una figura di supporto. La direzione del personale si costruisce in linea con i progetti di sviluppo. Ad esempio, alcuni giorni fa un imprenditore mi ha confidato che se avesse capito prima l’onere che porta l’aumento del business in termini di gestione risorse umane, sarebbe rimasto un semplice artigiano. Capisci? È anzitutto importante trasmettere un messaggio di rinnovamento nell’interpretazione del ruolo”.

Gli strumenti per sviluppare le competenze passano per le consulenze esterne

Vale quindi la pena ampliare il dibattito a livello di contenuti. Costa sul serio di più un impegno costante verso la formazione dei propri collaboratori rispetto a un clima negativo di insoddisfazione interno? Quanto pesa in termini economici la pessima qualità delle prestazioni e l’inevitabile alto tasso di turn over?

Per le organizzazioni che non si possono permettere una figura dedicata a queste attività è forse possibile rispondere attraverso il coinvolgimento di intermediari professionisti, capaci di accompagnare l’imprenditore nella valutazione non solo dei propri collaboratori ma, cosa non scontata, degli strumenti da adottare per coltivare competenze e gestire il personale.

Ad esempio, tra le possibilità concrete derivanti dalla pandemia, il Fondo nuove competenze promosso da ANPAL per sostenere le imprese nell’adeguamento dei nuovi modelli organizzativi e offrire opportunità formative ai lavoratori dipendenti privati rappresenta un’opportunità per le PMI. Questo fondo, prorogato dal governo al prossimo giugno, copre gli oneri di retribuzione e contribuzione relativi alle ore di formazione sostenuti dalle aziende. Una buona idea, non c’è che dire.

Alla domanda online da presentare all’ANPAL andrebbe allegato il progetto per lo sviluppo delle competenze, che a sua volta dovrebbe rispondere ai nuovi fabbisogni del datore di lavoro. Ma come possono le piccole e medie imprese utilizzare questi fondi se non sono a conoscenza della proposta o, peggio, se lecitamente nemmeno comprendono la definizione di sviluppo delle competenze?

Occorrono visione e lungimiranza da parte dei piccoli imprenditori, aperti al cambiamento e pronti a comprendere quanto sia importante affidarsi a consulenti esterni preparati. Consulenti in grado di proporre gli strumenti giusti, veicolare un modello organizzativo valido e consigliare gli interventi da apportare per sostenere la crescita dei collaboratori. Prima che i conflitti interni, derivanti dall’inerzia raccontata anche da Martina, diventino ingestibili.

Photo credits: today.line.me

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