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Quando l’Italia mangiava in testa a tutti
Il primo numero della Cucina Italiana, dal significativo sottotitolo Giornale di gastronomia per le famiglie e per i buongustai, esce a Milano il 15 dicembre 1929, pubblicato dall’Istituto Editoriale Italiano di Umberto Notari. Il suo editoriale cita: “Il popolo italiano è un popolo sobrio, il che non toglie che esso non desideri e non voglia […]
Il primo numero della Cucina Italiana, dal significativo sottotitolo Giornale di gastronomia per le famiglie e per i buongustai, esce a Milano il 15 dicembre 1929, pubblicato dall’Istituto Editoriale Italiano di Umberto Notari. Il suo editoriale cita: “Il popolo italiano è un popolo sobrio, il che non toglie che esso non desideri e non voglia mangiar bene. Non c’è antitesi tra sobrietà e gusto; non c’è incompatibilità tra palato ed economia; non c’è dissociazione fra cucina e civiltà. Anzi. Le civiltà maggiori furono dettate da popoli che ebbero le cure più grandi nell’arte e nella scienza dell’alimento: primo esempio Roma; secondo esempio la Francia.”
Sempre in prima pagina nel primo numero si cita: “La civiltà di un popolo è legata strettamente al progresso dell’arte e della scienza dell’alimentazione” e “dimmi come mangi e ti dirò chi sei”, citazione del politico e gastronomo francese del ‘700 Jean Anthelme Brillat-Savarin nel libro Fisiologia del gusto.
Alla luce di tutto ciò si può affermare che da molti anni per gli italiani mangiare non è più solo un bisogno: il cibo assume valori, viene reso attrattivo non solo in quanto prodotto da consumare, ma in quanto esperienza da fare e da condividere. I nuovi valori del cibo non si limitano all’esperienzialità e alla condivisione, perché il cibo si fa a tutti gli effetti linguaggio.
È diventato il modo che usiamo per raccontare chi siamo e i valori in cui crediamo, e pertanto rappresenta la nostra cultura e la nostra identità.
Il cibo italiano, linguaggio universale
Il cibo italiano da molti anni riscuote grande successo anche all’estero, portando quella italiana tra le cucine etniche piu apprezzate al mondo. Questo è testimoniato anche dal fatto che esistono oltre 150.000 ristoranti italiani all’estero e solo 70.000 in Italia, e nel 2017 l’export Agroalimentare Italiano ha superato i quaranta miliardi di euro.
L’internazionalizzazione del cibo italiano e la crescente integrazione tra mercato nazionale e mercato globale sta portando una serie di sfide e si cominciano a vedere una serie di problematiche.
Cibo italiano che parla straniero
Molte aziende alimentari italiane, per esempio, sono state acquisite da gruppi esteri. Come nel caso della società spagnola Deoleo, che possiede i tre marchi di olio extravergine di oliva Carapelli, Bertolli e Sasso. L’olio è prevalentemente di origine spagnola o greca, e solo in misura ridotta italiana. Il gruppo spagnolo Ebro Food, primo produttore di riso al mondo e secondo produttore di pasta al mondo, ha acquistato il 25% di Riso Scotti e il 52% del pastificio Garofalo. Il Gruppo Agroalimen di Barcellona (Gallina Blanca) era salito al 75% nella proprietà di Star, mentre già nel 2011 la Fiorucci salumi era stata acquisita dalla Campofrio food holding. Parmalat, Galbani, Locatelli, Invernizzi, Cademartori sono state acquistate da Lactalis. Nestlè è proprietaria di Italgel (gelati Motta, antica gelateria del corso, la Valle degli Orti), del Gruppo dolciario italiano (Motta e Alemagna) e dei marchi Buitoni, Sanpellegrino e controllate (Levissima, Recoaro, Vera, San Bernardo e Panna).
All’inverso, ci sono aziende italiane che costruiscono stabilimenti produttivi all’estero (Ferrero, Barilla) dove l’Italia rappresenta meno del 50% del loro giro d’affari e diventa sempre più marginale. Allo stesso modo occorre considerare le aziende alimentari italiane che acquistano la prevalenza di materie prime dall’estero (grano, latte, carni, olii ecc).
Un ulteriore problema, per diretta conseguenza, è costituito dalla perdita di identità del cibo italiano e dall’italian sounding: all’estero 6 prodotti su 10 sono falsi Made in Italy. La contraffazione dei nostri prodotti alimentari vale settanta miliardi di euro.
A rendere ancora più preoccupante lo scenario c’è la concentrazione dell’industria alimentare nelle mani di poche multinazionali (Nestlè, Coca Cola, Pepsico, Unilever, General Mills, Kellogs, Mars, Danone, Mondelez, Associated British Foods). Dieci aziende attraverso 500 marchi controllano 450 miliardi di dollari di fatturato annuo, pari a più del 70% dei piatti del pianeta. Queste aziende, attraverso le loro pressioni politiche, possono influenzare le normative sull’etichettatura e sul contenuto dei prodotti; come nel caso di olio di palma, acrilamide e aflatossine.
Agricoltura debole, industria forte
Il saldo agroalimentare dell’Italia è strutturalmente negativo a causa di un grave deficit del settore primario (– 7 miliardi di euro). Le importazioni superano le esportazioni. Questo indica che l’Italia non produce abbastanza materie prime (grano, latte, olio di oliva, carni) in quanto la concorrenza estera ha reso antieconomico produrre da noi. La qualità delle materie prime italiane non sempre è competitiva con i concorrenti esteri, e il saper fare italiano rischia di essere perso.
Al contrario, l’industria alimentare ha un saldo positivo tra importazioni ed esportazioni (1,2 miliardi/anno). Ciò indica che l’industria alimentare italiana non è più collegata al mondo agricolo italiano, ma acquista materie prime nel mondo e le trasforma e/o confeziona in Italia per poi vendere i prodotti finiti nel mondo. Questo fa sì che, non essendo più legata al territorio, possa essere facilmente delocalizzata anche all’estero. I pochi settori dove questo non avviene sono i prodotti DOP, dove il 100% delle materie prime deve essere prodotto in Italia, il settore dei vini e i prodotti tipici.
La sfida per l’industria agroalimentare italiana nei prossimi anni sarà aiutare micro e piccole aziende italiane, che oggi rappresentano il 90% delle aziende agroalimentari, e le numerosissime imprese agricole (oltre 1.630.420) a vendere ed esportare i loro prodotti.
La cultura, unica salvezza
Sicuramente la ricerca del profitto a tutti i costi ha impoverito la qualità del cibo prodotto nell’industria e nella ristorazione. Negli ultimi 10 anni l’industria alimentare ha aumentato l’utilizzo di zucchero, sale e grassi per creare dipendenza dal cibo. Allo stesso tempo, ha creato una generazione con problemi di diabete di tipo II, problemi cardiovascolari e tumori per eccessi alimentari.
Stiamo perdendo la tradizione dei cibi locali e di qualità, mentre i gusti si standardizzano e la globalizzazione ha portato un numero crescente di cucine etniche e di bassa qualità anche in Italia. I ristoranti stanno utilizzando sempre più semilavorati, e partono sempre meno da prodotti selezionati di qualità. I valori del cibo vengono diluiti, e la comunicazione/packaging prende il sopravvento visto che la qualità reale viene percepita con difficoltà sempre maggiore.
La responsabilità non si può attribuire solo all’industria, ma anche alle istituzioni che non hanno ritenuto utile insegnare la corretta alimentazione con utilizzo di alimenti senza elevato contento di zucchero, sale o grassi. La cultura gastronomica è l’unica vera salvezza, in quanto le persone devono essere in grado di distinguere un prodotto buono da uno cattivo. È responsabilità di tutti formare una generazione di persone più consapevoli e capaci di discernere. Tutti: dalla scuola all’industria, passando per le famiglie. In questa direzione sembrano già muoversi i Millennials, che selezionano cibi locali, leggono le etichette e la provenienza dei prodotti e sono sensibili ai temi di impatto e sostenibilità ambientale.
“Mangiare bene spendendo meno” era un motto del 1929. Visto il ruolo del cibo nella salute e nella qualità della nostra vita quotidiana, anche in futuro le persone con una corretta cultura gastronomica potranno e dovranno farlo.
Photo by: La Cucina Italiana
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