Sapremo conciliare il mondo col lavoro in provincia?

Quando in sede di colloquio mi chiedono come mi vedo tra dieci anni di solito penso che sicuramente sarò più vecchio, ma che le variabili in gioco sono tali da rendere la mia risposta comunque imprecisa, o nel peggiore dei casi sbagliata. Alla fine però metto da parte le remore e provo ugualmente a immaginare […]

Quando in sede di colloquio mi chiedono come mi vedo tra dieci anni di solito penso che sicuramente sarò più vecchio, ma che le variabili in gioco sono tali da rendere la mia risposta comunque imprecisa, o nel peggiore dei casi sbagliata. Alla fine però metto da parte le remore e provo ugualmente a immaginare come sarò.

La stessa premessa oggi vale anche quando provo a immaginare il lavoro in provincia e nei distretti nel 2030, perciò questo articolo non ha la presunzione di essere una previsione, quanto piuttosto un insieme di ragionamenti in libertà.

 

L’internazionalizzazione che sposta il lavoro in provincia

Dopo 150 anni d’unità d’Italia i dialetti dominano ancora, segno evidente che il concetto di Paese e Nazione è ancora l’abito della domenica, ma quello di tutti giorni è la propria città o regione. Italia Paese di comuni, ma anche di PMI e distretti industriali, dal meccanico alla ceramica, dal biomedicale all’alimentare, passando per l’abbigliamento e tanti altri.

Nel 2030 queste aziende e distretti competeranno sempre di più in un contesto internazionale. Questo nasce dal fatto che il mercato italiano è saturo, sia perché distretti o aziende sono fornitori o subfornitori di gruppi o settori industriali con fabbriche sparse in giro per il mondo, sia perché sarà sempre più facile raggiungere i mercati internazionali grazie alla tecnologia e alla logistica.

In altre parole, una maggiore internazionalizzazione; ma dobbiamo pensare che questo processo avrà degli impatti sul mondo del lavoro e, a cascata, dei passaggi da affrontare e superare anche sui territori in cui queste aziende e distretti si trovano. Proviamo a elencarli e analizzarli.

 

Un passaggio culturale

Operare su mercati diversi, con background culturali diversi o vissuto del prodotto diverso dal nostro, richiede che ci si metta in gioco e che si acquisiscano competenze per muoversi e comunicare correttamente.

Ad esempio, nel mondo del vino in molti mercati manca totalmente il senso della tradizione che ha il vino in Italia e in Francia. Negli USA, ad esempio, è visto come un qualsiasi prodotto di largo consumo, per cui bisognerà saper vendere il vino di qualità anche in formati che in Italia sono poco popolari, come il bag in box.

Il caso D&G in Cina è un altro esempio di come le regole e i valori della comunicazione cambino a seconda del Paese in cui si opera, per cui bisogna saper comunicare l’italianità senza usare i suoi stereotipi, ma neanche quelli dei mercati locali, altrimenti i danni saranno immensi.

Però non è sufficiente avere persone sul mercato locale: occorrerà che tali conoscenze siano possedute anche da chi lavora nelle varie funzioni aziendali nella sede dell’azienda. Questo richiederà un cambio di mentalità delle aziende e delle loro culture, per renderle più aperte a modi di pensare che non appartengono alla tradizione in cui sono cresciute, ma con la capacità di mantenerne e adattarne i valori fondanti.

Quello che sta avvenendo in molte aziende del settore alimentare è la creazione di strutture o di collaborazioni con agenzie esterne specializzate nel declinare sin dall’inizio per i differenti mercati il packaging, la comunicazione e il piano marketing. Ma non solo: esistono anche i consorzi, centri di ricerca e supporto dei distretti che, come presto vedremo, svolgono un lavoro di sostegno a 360° per le PMI e le aziende dei distretti.

 

Un passaggio organizzativo

Sempre più avremo aziende organizzate con lavoratori e collaboratori che lavoreranno in remoto, in giro per l’Italia e nel mondo, con culture, lingue e – non banalmente – orari di lavoro diversi. Avremo comunità reali e virtuali che dovranno sapersi organizzare intorno a valori che probabilmente sono gli stessi, ma declinati dalle differenti culture in maniera differente, o con un ordine di priorità diverso. Questo è, a mio avviso, uno degli aspetti su cui si divideranno le aziende che avranno successo e quelle che invece falliranno, o si ritaglieranno un ruolo come player nazionali.

Oggi le comunità aziendali, delle aziende non multinazionali, sono fondate su una cultura e un sistema di valori solidi, spesso figli della visione del fondatore e/o del territorio in cui sono nati; a fare da collante c’è una serie di importanti chiavi di lettura, composte da non detti e non esplicati che spesso non sono conosciuti o compresi da chi vi è estraneo. Se vorranno continuare a essere aziende di successo, dovranno rendere esplicite e comprensibili a chi arriverà da fuori queste chiavi di lettura. Dovranno spiegare il perché dei valori, essere pronte a declinarli in modo che assumano un valore condiviso anche per i nuovi membri.

Tutto questo non è un processo banale. Richiede la volontà di mettersi in gioco, una chiara idea di quale sia il senso profondo dei rispettivi valori, la capacità di farli comprendere a chi ha modelli culturali differenti. Occorre la credibilità per guidare questo processo senza sembrare autoreferenziali, senza ripetere un rituale avendone però perso il significato profondo. Soprattutto non dovrà essere una riproposizione del passato, ma qualcosa di nuovo che aggiunga il valore della diversità. Una diversità che non sarà solo figlia della partecipazione di persone provenienti da contesti differenti, ma del bisogno di declinare in maniera nuova i valori per mantenerli vivi e reali nel tempo.

Esempi in questo senso esistono già oggi, e sono dati dai consorzi nati nei vari distretti o all’interno del mondo cooperativo, che si occupano di supportare, generare e alimentare il know how delle imprese in quei distretti. I casi sono innumerevoli: vanno dalla plastica alla Motor Valley, senza dimenticare l’abbigliamento, il calzaturiero e l’alimentare. In esse persone provenienti da dentro e fuori i distretti ricevono e portano competenze, e costruiscono assieme il domani di questi territori.

Spesso queste eccellenze si intrecciano tra loro: il triangolo Bologna, Modena e Ferrara ne è un esempio. In esso si intrecciano e si contaminano industria delle ceramiche, motoristica e agroalimentare: questa contaminazione a mio avviso è un grande punto di forza, perché genera competenze trasversali e protegge questi distretti dalla monocultura industriale.

La crisi di quello Torino, Milano e Genova, ne è forse l’esempio più chiaro, con Torino e Genova che, una volta persa la grande industria privata e pubblica, non sono state ancora in grado di darsi un nuovo ruolo, e con Milano che è diventata città di servizi. È l’unica delle tre che è stata capace di crearsi un ruolo; se reale o effimero, lo dirà il tempo.

 

La provincia, il nuovo centro del Paese

Questo ci porta a un altro tema: la struttura organizzativa/proprietaria/manageriale di queste aziende, che dovranno avere manager e proprietari che sposino questo cambio di approccio, che sappiano costruire modelli organizzativi in grado di supportare questo cambiamento, e che in certi casi sappiano far fare un passo indietro alla famiglia (per consorzi e cooperative ai soci e alla politica) e ne consegnino la gestione ai manager.

In questo contesto, con aziende aperte e collegate al mondo, possiamo immaginare anche che, assieme ai territori in cui operano, possano diventare polo di attrazione per professionalità formate: manager e figure apicali, ma anche neolaureati. Potremmo assistere, dopo un movimento di competenze e lavoratori dalla provincia verso i poli industriali del Paese (Milano in primis), a un movimento di ritorno verso i distretti e la provincia, che rispetto alle grandi città possono offrire una migliore qualità della vita.

Se siamo ancora un Paese di comuni, possiamo immaginare che nel 2030 la provincia sarà il nuovo centro del Paese. Una provincia non chiusa nelle sue mura medievali vere e metaforiche, bensì, come la Bologna del 1088, aperta all’universalità, aperta ad accogliere ed essere arricchita da chi arriverà da altre regioni e Paesi.

Ricordo che l’imperatore Federico Barbarossa diede un lasciapassare a tutti coloro che si recavano a Bologna per studiare, e che una parte dell’odierna e condivisa cultura europea deriva da questo atto di lungimiranza, perché gli studenti venuti a Bologna e tornati nei loro Paesi hanno trasformato i semi della conoscenza, negli alberi delle università italiane ed europee.

Ripeto: queste sono idee e speranze. Sarò felice di essere smentito se PMI e distretti seguiranno strade diverse, che li porteranno a crescere e a portare benessere ai lavoratori e al territorio. Un benessere non solo economico, ma di qualità della vita e sostenibilità ambientale per i territori in cui esse operano.

 

 

Photo by Fernando @dearferdo on Unsplash

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