Sciopera anche lo Stato: la PA incrocia le braccia

9 dicembre, pubblica amministrazione in sciopero. Gli statali chiedono assunzione dei precari, rinnovo dei contratti e più sicurezza, specie nella sanità: negli ultimi anni aggressioni in crescita e 7.000 sanitari in meno.

Scenderanno in piazza oggi per chiedere una riforma della pubblica amministrazione che ne incrementi l’efficienza, limitandone il precariato. Sono i lavoratori della PA, un esercito di impiegati comunali, regionali e statali, ma anche di medici, infermieri, operai, lavoratori della giustizia. Insomma coloro che hanno il compito di far funzionare a vario livello la macchina statale, e che l’hanno fatto anche nei mesi di pandemia, lavorando da casa in condizioni non sempre ottimali.

Lo sciopero della pubblica amministrazione

Nel primo lockdown gli uffici pubblici, pur essendo chiusi, non si sono fermati, ma hanno continuato a garantire il loro servizio.

«Spesso – dice Manuela Vanoli, segretario generale della FP CGIL Lombardia – l’hanno fatto rimettendoci di tasca propria. C’è chi ha messo a disposizione la propria connessione e anche il proprio computer. Con esiti non sempre felici, dal momento che in alcune zone c’erano delle difficoltà di connessione. Questo è uno dei punti sui quali vorremmo confrontarci con il governo.»

Prima di entrare nel merito gli statali, infatti, chiedono un incontro, che finora non c’è mai stato. «Nel privato – spiega – non si è mai visto che un datore di lavoro decida gli incrementi da mettere in busta paga senza consultare la controparte. Eppure il nostro principale, che poi sarebbe il governo, lo ha fatto: ha stanziato risorse sul rinnovo del contratto senza riceverci».

Si parla di un aumento di 107 euro lordi che si trova nella bozza della legge di bilancio. Pur non rappresentando il punto principale delle loro rivendicazioni, secondo i sindacati è comunque basso, nonostante il primo ritocco sia arrivato nel 2016 dopo anni di blocco del contratto. Peraltro l’aumento medio di 107 euro in alcuni casi si riduce a 75.

Anche la pubblica amministrazione ha i suoi precari

Un infermiere in media guadagna 1.400 euro al mese. Il trattamento di chi è stato per mesi in prima linea per combattere il COVID-19 in tutto questo periodo non è migliorato. Anzi: i precari dopo un’assunzione di qualche mese durante il picco sono stati congedati e sono ritornati alla loro precedente occupazione.

«Al momento – spiega Vanoli – abbiamo 170.000 precari che lavorano nella pubblica amministrazione. Per loro chiediamo la stabilizzazione». Sul punto sono d’accordo tutti i sindacati, che hanno rilasciato un comunicato congiunto.

«Rischiano – scrivono tutte le sigle – di sentirsi dire “grazie e arrivederci”, senza poter far valere nemmeno un giorno di anzianità. Chiediamo quindi il superamento della legge Madia, in particolare l’esclusione dei somministrati dalle quote di riserva dei concorsi pubblici, un provvedimento discriminatorio che getta via moltissime carriere e competenze maturate negli anni e utili alla pubblica amministrazione. Per questo si chiede un piano straordinario di assunzioni che coinvolga anche i somministrati e i lavoratori atipici con quote a loro riservate. Una misura del genere può diventare anche una straordinaria occasione per l’innovazione dei servizi, grazie all’ingresso di tanti giovani in una PA con un’età media di 51 anni».

PA, sbloccare il turn over non ha risolto il problema delle assunzioni

«A partire da questa finanziaria – dice Vanoli – il governo deve tornare ad assumere. Bisogna rendere subito efficiente la funzione pubblica per rendere moderno il Paese, anche perché negli anni a venire gli investimenti dovranno essere fatti sui privati per il rilancio dell’economia».

Il primo passo da fare non può prescindere dal ringiovanimento dei lavoratori, che dalla metà degli anni Duemila è stato impedito per via legale. Iniziò tutto con il patto di stabilità del governo Prodi, che limitava le spese correnti degli enti pubblici al 6% in più rispetto a due anni prima. Poi si portò il turn over al 25%, così che si potesse inserire un nuovo dipendente ogni quattro pensionamenti. L’obiettivo era quello di contenere la spesa e il debito pubblico.

La riforma Del Rio del 2015, che prevedeva l’abolizione delle province e la conseguente riallocazione del personale in altri enti tramite mobilità, sembrava risolvere il problema. Ma non fu così. In forza agli enti provinciali c’erano prevalentemente tecnici specializzati, mentre ai comuni servivano ad esempio le maestre d’asilo. Erano però obbligati, per ogni assunzione, a passare dalla mobilità in uscita dalla provincia.

«Il rischio – continua Vanoli – è che se non si investe sugli enti pubblici, i loro servizi finiranno sempre più in mano ai privati». L’esempio lampante è quello degli asili: di pubblici non ce ne sono quasi più.

Nemmeno la liberalizzazione del turn over dei mesi scorsi e quota cento hanno contribuito a risolvere i problemi di personale della PA. Quelli che hanno deciso di sfruttare l’ultima legge che consente di andare in pensione anticipatamente, percependo però meno, sono stati meno del previsto. E di posti non se ne sono liberati poi troppi.

7.000 sanitari in meno negli ultimi dieci anni

L’arrivo del COVID-19 ha messo in luce i molti limiti dell’apparato pubblico, soprattutto a livello sanitario. La carenza di personale si è vista sia a livello medico che infermieristico, così come è emersa la distanza dalla medicina del territorio. In un comunicato i sindacati avanzano precise istanze in tema.

«In tutti i luoghi di lavoro il personale, diretto, somministrato e in regime di autonomia, deve essere fornito di adeguati DPI, e godere dello stesso trattamento in termini di prevenzione COVID-19. Gli ambienti di lavoro devono essere sicuri, i carichi di lavoro devono essere sostenibili fisicamente e psicologicamente: basta turni massacranti nella sanità (spesso superano le 12 ore), occorre proteggere il personale sanitario, troppo spesso oggetto di vili aggressioni».

I dati non erano confortanti nemmeno prima della pandemia. Stando all’ultimo rapporto Inail (ottobre 2020), il 20% del personale del pubblico servizio lavora in sanità. Solo il comparto scuola e ricerca tra gli statali ha numeri più alti. Nonostante questo, il numero di lavoratori è calato. Dal 2009 al 2019 si è passati da 118.655 a 111.654 impiegati nel settore, con una perdita di 7.000 posti di lavoro.

Il COVID-19 poi ha toccato duro nella sanità. È lo stesso rapporto Inail a precisare che «il 70,3% dei contagi codificati della gestione assicurativa dell’Industria e Servizi afferisce proprio a questo settore».

Nella Sanità un infortunio su dieci è provocato da un’aggressione

E poi c’è il problema delle violenze nei confronti del personale, al quale il rapporto dedica un capitolo.

«Nell’intero quinquennio 2015-2019, nella sanità e assistenza sociale sono stati quasi 11.000 i casi in occasione di lavoro accertati positivamente dall’Inail e codificati tramite la variabile Esaw “80- sorpresa, violenza, aggressione, minaccia, ecc.”, una media di oltre 2.000 casi l’anno e un andamento stabile in particolare nell’ultimo triennio.»

Il numero delle aggressioni è di gran lunga superiore a quello degli altri settori lavorativi. «Se in generale nella gestione Industria e Servizi – continua il rapporto – l’incidenza degli infortuni da violenza e aggressione è pari al 3% dei casi in occasione di lavoro accertati positivamente, nella Sanità tale quota si triplica, raggiungendo il 9% dei casi del settore (praticamente un infortunio su dieci). Il 41% dei casi è concentrato nell’assistenza sanitaria (ospedali, case di cura, studi medici), il 31% nei servizi di assistenza sociale residenziale (case di riposo, strutture di assistenza infermieristica, centri di accoglienza, ecc.) e il 28% nell’assistenza sociale non residenziale».

Il problema tocca soprattutto le donne: negli ospedali e nelle case di cura il 60% degli aggrediti è di sesso femminile, e nelle strutture di assistenza sociale e residenziale si arriva all’80%. Le professionalità più colpite sono quelle dei tecnici della salute, cioè infermieri e educatori professionali.

In copertina, degli infermieri che hanno aderito allo sciopero del 9 dicembre. Non potendo interrompere il servizio sanitario a causa dell’emergenza, continuano a lavorare con un cartello sul camice: “Non mi fermo ma protesto”. Photo credits: www.ecomy.it

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