O segregati o fuori per sempre. Quando i centri residenziali ricattano gli ospiti con disabilità

La pandemia ha ridotto ancora i diritti delle persone con disabilità ospitate da alcune strutture residenziali: uscite e visite con i famigliari stretti negate anche con tamponi negativi. L’esperienza della madre di un figlio con autismo: “Rinchiuso per due mesi, anche durante il Natale. Mi hanno imposto di vederlo attraverso un vetro, abbiamo dovuto ammalarci per stare insieme”.

Per immergervi nel tema che stiamo per raccontare dovete prima chiudere gli occhi e immaginare di non poter uscire dall’ambiente in cui vi trovate non per qualche ora o un solo giorno, bensì mesi, anche tanti, come se non finissero mai. Immaginate anche che all’improvviso i vostri riferimenti più cari – fatti di volti, voci, sguardi – si volatilizzino senza spiegazioni, o che al massimo li possiate vedere dietro un vetro, anche se voi non siete contagiosi e men che meno loro. Mentre siete chiusi nel luogo in cui vi trovate, insieme all’assenza di chi vi è più caro, le persone che lavorano in quello stesso ambiente al contrario di voi possono entrare e uscire, anche se avete gli stessi diritti e siete fatti di carne e ossa come loro. Dall’immaginazione passate ora alla sensazione: che cosa provereste? Frustrazione, disperazione, angoscia, senso di abbandono, solitudine, rabbia e tanto altro, ma di sicuro non benessere.

Quello che abbiamo descritto non è frutto dell’immaginazione, ma è accaduto in concreto a diverse persone con disabilità “ospiti” all’interno di strutture residenziali che hanno attivato le dinamiche appena riportate. Con SenzaFiltro ci siamo già occupati del tema focalizzandoci sui casi di discriminazioni in Lombardia, e anche stavolta mettiamo subito al bando qualsiasi deriva di generalizzazione ricordando che non tutti i centri residenziali hanno fatto questo: ci sono anche diversi casi virtuosi che hanno attivato degli accomodamenti ragionevoli e soluzioni che tutelano i diritti di tutte le persone.

Allo stesso tempo però non ci nascondiamo dietro un dito e raccontiamo, com’è nostro dovere fare, ciò che è accaduto nelle strutture che di virtuoso hanno poco e nulla.

“Mio figlio con autismo devastato dalla via crucis dei centri residenziali”

Stavolta approdiamo in Veneto e ci confrontiamo con la storia di Alice (nome di fantasia), madre di Marco (altro nome di fantasia), giovane uomo con diagnosi di disturbo dello spettro autistico. Alice e Marco da anni affrontano labirinti di ostacoli e battaglie che scavano stomaco e cuore a causa di servizi lacunosi, o peggio ancora gestiti senza tenere conto dei diritti delle persone coinvolte.

Quella dei centri residenziali è una via crucis che ci ha devastato: con la pandemia è peggiorato tutto”, tuona Alice iniziando il racconto della sua esperienza. La scelta del centro residenziale per lei è dettata da motivi di forza maggiore: cresce Marco da sola dopo l’abbandono del marito, avvenuto a seguito della diagnosi quando il bambino era ancora piccolo. Priva di una rete famigliare che possa supportarla, è costretta a gestire tutto quanto contando sulle proprie forze. Anche il mantenimento economico ricade del tutto sulle sue spalle.

“Ho vissuto l’infanzia di Marco in un periodo in cui per l’autismo si faceva meno di adesso e in cui non c’erano terapie adeguate”, spiega. “Già a scuola non sono mancati i problemi con un insegnante di sostegno totalmente impreparato che dava la colpa a mio figlio del fatto che non riuscisse a fare determinate cose: assurdo”.

Alice però non demorde: cresce Marco mettendoci tutto l’impegno possibile e riservando una parte delle energie al proprio lavoro, che non può in alcun modo lasciare essendo l’unica fonte di sostentamento. Proprio quando scocca la maggiore età per Marco i problemi aumentano, non a causa dell’autismo, bensì del sistema lacunoso che lo attornia e di cui ci vengono portati alcuni esempi disarmanti.

“Sempre in Veneto ci hanno proposto di inserirlo in una RSA insieme a persone molto anziane”, racconta Alice. “Marco aveva poco più di vent’anni, è sempre stato molto sensibile, una spugna che assorbe le emozioni altrui, al contrario di quello che si dice e pensa dell’autismo: che soluzione poteva essere per lui se non totalmente inadeguata?”.

Alice si immerge in un vero e proprio ginepraio di ostacoli e situazioni inaccettabili: “Abbiamo avuto a che fare con una struttura che distava 300 chilometri da casa nostra, con viaggi massacranti per andarlo a prendere il sabato e riportarlo la domenica, con un totale di quasi mille chilometri da macinare ogni fine settimana. Non sono mancati casi in cui ho dovuto portare via Marco dalle strutture in cui era inserito perché avevo scoperto segni di morsi sulla sua testa e altri che sembravano di percosse lungo il corpo, ma nessuno mi dava spiegazioni né erano previsti controlli: una cosa inaccettabile!”.

Una luce in fondo al tunnel sembra essere offerta da un centro residenziale in Friuli, che però si rivela presto un bluff inquietante: “Ci avevano promesso laboratori e percorsi dedicati ai ragazzi e anche stanze in cui far pernottare in genitori in caso di necessità o malessere dei figli, invece poi non è stato fatto nulla. Ho persino dovuto firmare una liberatoria che dava loro la possibilità di somministrare a mio figlio qualsiasi farmaco, psicofarmaci compresi: non capivo perché visto che Marco è sempre stato socievole e tranquillo. O firmavo o lo rimandavano a casa seduta stante, questo è ciò che ci prospettavano”.

“Noi famigliari ricattabili dalle strutture. Conosco genitori che non hanno visto i figli per due anni”

A esasperare la drammaticità della situazione c’è un aspetto fondamentale, come evidenzia Alice.

Noi famigliari diventiamo ricattabili da parte di chi gestisce queste strutture, perché ci troviamo ad avere bisogno al cento per cento di loro e non abbiamo alternativa se non quella di perdere del tutto il servizio, con la conseguenza di non poter lavorare e nemmeno dare supporto ai nostri figli.”

Un vero e proprio aut aut che raggiunge il suo punto di non ritorno durante la pandemia: “Lo stesso centro residenziale in Friuli aveva comunicato a me e ad altri genitori che non era più possibile andare a fare visita ai nostri figli e nemmeno farli uscire, nonostante tutte le precauzioni prese. A quel punto ho preso la drastica decisione di portarlo via di lì e tenerlo a casa con me, con la conseguenza che ho esaurito tutti i permessi 104 e il periodo di aspettativa; ma almeno mio figlio non è rimasto rinchiuso come è capitato ad altri ragazzi”.

Ma non tutti i genitori hanno potuto fare la stessa cosa: “Conosco madri e padri disperati che per quasi due anni non hanno visto i loro figli e viceversa. Ci tengo anche a dire che poi in questa struttura gli ‘ospiti’ si sono ammalati quasi tutti di COVID-19, anche se non potevano uscire, vaccinati e non vaccinati: evidentemente il virus lo possono portare anche gli operatori, ma già si sapeva”.

Alice ci illustra anche casi in cui ai genitori che hanno fatto richiesta di portare a casa i figli veniva paventata la dimissione immediata e totale dal servizio. “In un centro hanno rifiutato anche la figura di uno psicologo esterno che monitorava i percorsi attivati, eppure tutti gli altri operatori uscivano ed entravano secondo le regole generali: perché queste differenze? La pandemia in questi casi è stata proprio strumentalizzata”.

Delusa dalla situazione che stava vivendo in prima persona, Alice chiude i rapporti con la struttura friulana e trova una successiva soluzione in una comunità alloggio veneta che secondo lei non soddisfa tante necessità, ma è anche quella che si “salva” di più rispetto alle altre realtà. Durante la fase di pandemia garantisce infatti passeggiate e movimento all’aria aperta alle persone con disabilità: diritti che dovrebbero essere garantiti alla base, senza nemmeno dubbi sulla loro applicazione.

Per dovere di cronaca ricordiamo tra l’altro che già nella primavera del 2020, ancora nella fase aspra della pandemia, ai soggetti con autismo, disabilità di tipo cognitivo o con fragilità psichiche era consentito uscire dalle proprie abitazioni, accompagnati da qualcuno, per fare passeggiate a tutela della loro salute.

Dicembre 2021: l’Italia festeggia in famiglia, gli ospiti della comunità restano segregati

Con dicembre 2021 arriva una nuova doccia fredda per Alice e suo figlio: “Verso metà mese, con l’ennesimo provvedimento riguardante il COVID-19, anche la casa alloggio in cui risiede Marco ha tolto la possibilità di fare uscite e visite con i famigliari. Ero disperata, avendo esaurito tutti i permessi e non sapendo come fare. Marco non l’ho potuto portare a casa per due mesi, fino al 10 febbraio circa. Lui poteva uscire con gli altri ‘ospiti’ a fare camminate nei boschi e stare nella stessa stanza con gli operatori, che per le festività ritornavano a casa come tutti, ma non poteva vedere me, che sono sua madre, quasi che il virus avesse delle preferenze. Per la prima volta Marco non ha potuto trascorrere il Natale a casa sua”.

Va sottolineato che nell’arco temporale menzionato da Alice era possibile per chiunque cenare e pranzare con i propri famigliari residenti in un’altra abitazione, diritto non rispettato invece per le persone con disabilità “ospiti” di strutture e case alloggio che hanno preso questa decisione: una vera e propria discriminazione.

Alice arriva persino a cedere la propria privacy per portare Marco a casa per Natale e tutelare questo suo diritto al pari delle altre persone: “Ho proposto di firmare una liberatoria in cui davo la possibilità di effettuare dei controlli a casa mia, anche di notte, per dimostrare che in casa c’eravamo soltanto io e mio figlio e nessun altro, ma non c’è stato verso: o Marco restava nella casa alloggio senza incontrarmi e venire a casa, oppure perdevo il servizio”.

Vedersi dietro un vetro anche se negativi al tampone: “Io e mio figlio abbiamo dovuto ammalarci per stare insieme”

A dicembre 2021 e a gennaio 2022 ad Alice viene concesso di vedere suo figlio solo stando dietro un vetro, pur essendo negativa ai tamponi: “Sapevo che lui avrebbe sofferto ancora di più”, racconta con voce piena di amarezza. “Allora ho scelto di andarlo a vedere io, senza che lui potesse accorgersi di me. Ricordo la sua espressione triste e smarrita, forse pensava che non mi avrebbe più rivisto o che fossi morta”.

Un giorno però Marco, che ha una buona comprensione del linguaggio, sente gli operatori parlare di sua madre che doveva portare delle cose in struttura e si accorge di lei mentre è fuori e sta per andarsene. “Non dimenticherò mai la sua corsa al piano inferiore e il suo sguardo dietro il vetro: felice di sapere che ero viva e allo stesso tempo pieno di tristezza per non potermi raggiungere. Ho fatto la strada di ritorno senza riuscire a smettere di piangere”.

Anche ora che la fine dello stato di emergenza è stata ufficializzata le cicatrici delle esperienze vissute e le nuove preoccupazioni per il prossimo inverno e l’andamento dei contagi si fanno sentire. A dimostrarlo le parole di Alice: “Adesso Marco non sta bene, si è preso un virus all’intestino, per fortuna nulla di grave; ma sa una cosa? Sono contenta di essermi ammalata anch’io dello stesso virus, così posso stare accanto a lui e prendermi cura di mio figlio”.

Suona come un ossimoro quello che prova Alice: non sta bene, è affaticata, deve curarsi, ma ringrazia di non stare bene per avere la possibilità di stare accanto a chi ama. Qui ci sono famiglie stritolate da scelte impossibili e persone con disabilità ferite due volte nella tutela dei loro diritti, per le quali è troppo tardi da troppo tempo: se questo è il livello del nostro Paese, fatto sì di esempi virtuosi ma anche di strumentalizzazioni e servizi fatiscenti, dove tra la brochure di promesse e realtà vissute c’è un oceano di paradossi, allora va ammesso che c’è un enorme problema di cui lo Stato si deve fare carico.

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Leggi il mensile 110, “Di tutte le Russie“, e il reportage “Aziende sull’orlo di una crisi di nervi“.


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Photo credits: sfceurope.com

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