Disservizi residenziali in Lombardia: persone con disabilità ancora segregate, stavolta non solo nelle RSA

La denuncia di LEDHA su venti strutture residenziali lombarde: “Persone con disabilità segregate nei servizi che dovrebbero impedire che siano isolate”. L’avvocatessa Laura Abet: “Alcune direzioni sanitarie hanno agito per paura, violato l’articolo 2 della Costituzione”.

Poter uscire, vedere i propri cari, raggiungere luoghi differenti. Azioni innocue, che non determinano nulla di male, ma che anzi fanno parte della nostra vita portando benessere e valore aggiunto, almeno fino a quando la libertà di compierle non viene scardinata. La pandemia scatenatasi nel 2020 e la conseguente fase di contenimento (lockdown) ha fatto sperimentare direttamente quanto sia difficile convivere con il decadimento del diritto alla libertà, anche se per un fine alto come la tutela della salute.

Eppure ci sono situazioni in cui questo diritto è stato leso in modo grave e senza reali motivazioni. Parliamo dell’ambito dei servizi residenziali, dove determinate dinamiche protratte a oltranza hanno innescato veri e propri meccanismi discriminatori, come scopriamo confrontandoci con chi ha trattato questo tipo di situazione.

Servizi residenziali che negano visite e uscite. La denuncia di LEDHA

Il 10 gennaio scorso LEDHA – Lega per i Diritti delle persone con disabilità ha lanciato un importante appello per chiedere agli enti gestori dei servizi residenziali della Lombardia – area di riferimento per l’associazione – di garantire agli ospiti di queste strutture i diritti fondamentali, come le visite dei famigliari e le cosiddette uscite programmate. Parliamo di persone con disabilità di varia tipologia e con età differenti, tra cui giovani e anziani.

A LEDHA erano infatti giunte preoccupanti segnalazioni da parte dei famigliari degli ospiti di alcune strutture residenziali, le quali, nei mesi finali del 2021 e in concomitanza con l’aumento della curva dei contagi, avevano scelto di sospendere sia le visite dall’esterno, comprese quelle dei famigliari stretti, sia le uscite degli “ospiti” stessi. Una situazione fotocopia rispetto a quella del primo lockdown, con la differenza che, nel periodo precedentemente menzionato, queste restrizioni non sono state mantenute per il resto della popolazione.

LEDHA nel suo appello chiede ai gestori delle “Unità di offerta” il rispetto e l’applicazione puntuale di quanto previsto dalla circolare del 29 dicembre 2021 della direzione generale Welfare di Regione Lombardia, in cui si evidenzia l’importanza di mantenere canali di relazione e di vita sociale per la tutela del benessere e della salute delle persone con disabilità. Riportiamo un estratto della circolare:

“In riferimento agli ospiti di strutture residenziali per disabili e della salute mentale/dipendenze/NPIA, Comunità Alloggio Minori, è opportuno tenere in giusta considerazione la particolare utilità delle uscite programmate, anche in coerenza con il progetto individuale dove le uscite programmate rientrano nel progetto di cura, raccomandando le dovute attenzioni durante la permanenza in famiglia.”

Ancora dubbi? No, soprattutto se si pensa che tutto questo dovrebbe salvaguardare benessere e salute; eppure l’appello di LEDHA non sortisce gli effetti sperati. Ma l’associazione non demorde e fa un passo ulteriore, rivolgendosi al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale per “segnalare la situazione di sostanziale privazione della libertà personale a cui sono sottoposte le persone con disabilità che vivono nei servizi residenziali”, come indica la nota a inizio anno. Un’aberrazione con derive discriminatorie, come denuncia il presidente di LEDHA, Alessandro Manfredi, in questo stralcio di lettera inviata al Garante: “Le persone con disabilità sono di fatto segregate nei servizi che dovrebbero invece garantire loro il sostegno per vivere nella società e impedire che siano isolate o vittime di discriminazione”.

L’avvocatessa Laura Abet di LEDHA: “Discriminazione grave, le direzioni sanitarie hanno agito per paura”

A pochi mesi da questa emblematica azione ci confrontiamo con Laura Abet, avvocatessa del Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi della stessa LEDHA. La deriva discriminatoria costituisce uno degli aspetti centrali della situazione, come ci conferma.

“A gennaio le scuole erano aperte, e sempre a gennaio educatori e medici dei centri residenziali potevano uscire, magari anche per prendere un aperitivo al bar. Perché allora imporre limitazioni così esasperate alle persone con disabilità ospiti dei centri residenziali? La discriminazione sta proprio in questo: utilizzare due pesi e due misure, ledendo un diritto fondamentale come quello alla libertà di alcune persone. Si tratta di una discriminazione molto grave.”

Ci troviamo di fronte a una cultura antidiscriminatoria che ancora arranca, o piuttosto a una mancanza di consapevolezza vera e propria da parte di chi gestisce queste strutture? “La mia interpretazione è che abbiano avuto paura e abbiano così guardato in piccolo e alla loro esclusiva tutela”, riflette Laura Abet. “Qui non parliamo però solo di libertà e pari opportunità, bensì anche di dignità: a essere violato è l’articolo 2 della nostra Costituzione”.

Situazioni in cui al posto dell’incontro dal vivo era concesso soltanto un video Zoom, e magari erano coinvolte persone molto anziane, poco avvezze ai sistemi tecnologici. Allo stesso tempo venivano assurdamente vietate uscite a giovani con disabilità di tipo cognitivo o con disturbo dello spettro autistico, ma senza fragilità di carattere fisico, pur essendoci il monitoraggio dei tamponi e non solo. Tutto questo senza spiegare loro i veri motivi del non poter vedere i famigliari, come del resto non sono spiegabili a nessuno in quanto privi di senso: paradossi che stridono e che fanno male.

Chiediamo come sia stato possibile tecnicamente attuare tutto questo da parte dei centri residenziali segnalati nonostante la circolare regionale: “In quel periodo veniva ancora affidato forte potere decisionale alla direzione sanitaria di queste strutture, e la decisione in determinati casi ha portato a scelte difensive di totale chiusura”, spiega Laura Abet. Il motivo alla base? “La paura, senz’altro. Hanno puntato alla decisione più facile, ossia chiudere del tutto senza pensare alle gravi ripercussioni vissute da chi ha subìto questa decisione: le persone con disabilità e i loro famigliari”.

A conti fatti, secondo quanto riportato dall’avvocatessa del Centro Bomprezzi, si parla di venti segnalazioni fatte per altrettante strutture, tutte situate in Lombardia, che comprendono RSARSD, centri residenziali per persone con disabilità, ma anche CSS e comunità alloggio, oltre all’ambito del semiresidenziale, come conferma la nostra intervistata: “In quest’ultimo caso alcune strutture hanno attivato degli accomodamenti ragionevoli, venendo incontro alle esigenze di ospiti e famigliari; altre invece semplicemente non hanno voluto e hanno preferito chiudere, seppur parzialmente, il servizio”.

Da pandemia a sindemia: contagiati anche i diritti e le relazioni

Con Laura Abet affrontiamo anche l’urgente tema delle ripercussioni scatenate da queste dinamiche sulle persone con disabilità.

“L’effetto più devastante avviene sulla salute psichica con la conseguenza di depressioni. Gli abbracci, il sentire la presenza dell’altra persona cui si vuole bene, vedere luoghi diversi, sono aspetti fondamentali nella nostra vita, che se tolti creano uno stato di forte solitudine e disagio. Non sono mancati gli effetti negativi anche a livello prettamente fisico, perché il non poter stare all’aria aperta ha una conseguenza sulle difese immunitarie, così come la mancanza di attività motoria in spazi aperti”.

Una situazione claustrofobica e contraddittoria, se pensiamo che va a discapito della salute stessa e che non trova giustificazioni sul fronte della tutela dal COVID-19. Ricordiamo inoltre che non tutte le strutture sono dotate di spazi esterni come giardini o cortili: non effettuare l’uscita per gli e le ospiti in questo caso implica per loro il restare in un ambiente chiuso nel vero senso della parola. 

“Vediamo ora gli effetti di quella che non può più essere definita solo pandemia, ma sindemia”, spiega Laura Abet, “ossia un insieme di patologie pandemiche non solo sanitarie, ma anche sociali, economiche, psicologiche, dei modelli di vita, di fruizione della cultura e delle relazioni umane. Emerge dunque la priorità di guardare alle singole situazioni nello specifico e di tutelarle a 360 gradi.”

Ora lo stato di emergenza è ufficialmente terminato. Anche i casi di derive discriminatorie nelle strutture segnalate sono rientrati? “Per ora non abbiamo più ricevuto segnalazioni, la situazione sembrerebbe rientrata e tale dovrebbe restare, a maggior ragione ora”, sottolinea Laura Abet. “Alcune strutture però si basano ancora sul minimo sindacale dei quarantacinque minuti previsti per le visite dalla circolare 6082 di Regione Lombardia del 10 marzo. Ai direttori sanitari è data facoltà di adottare misure precauzionali più restrittive in relazione allo specifico contesto epidemiologico, garantendo un accesso minimo giornaliero non inferiore a quarantacinque minuti”.

LEDHA mantiene comunque la guardia alta su questo fronte, senza scivolare nella generalizzazione. “Non stiamo parlando di tutti i servizi residenziali”, puntualizza Laura Abet. “Ci sono anche enti gestori che sono riusciti a garantire la salute e la dignità delle persone che fruiscono dei servizi, preservando la loro vita di relazione con familiari e amici. Proprio queste esperienze positive dimostrano che quanto avvenuto in altri contesti era ed è ancor più oggi evitabile”. 

A suonare preoccupante restano quei quarantacinque minuti “garantiti”, quasi fosse una concessione sensata e a favore della vera salute, il cui significato è stato cannibalizzato da due anni e più che mai disperso nel calderone della pandemia. Tutto questo in un Paese dove lo stato di emergenza è ufficialmente concluso, le terapie intensive respirano, ma a boccheggiare è proprio la coerenza, accanto ai diritti. Diritti ai quali andrebbe tastato il polso con la sana – questa sì – convinzione che certi limiti non possano più essere valicati a discapito della dignità.

Leggi gli altri articoli a tema Sanità.

Leggi il mensile 110, “Di tutte le Russie“, e il reportage “Aziende sull’orlo di una crisi di nervi“.


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Photo credits: velvetmag.it

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