Segregati nelle RSD, familiari sotto scacco. E la politica resta immobile

Si moltiplicano le denunce di ospiti reclusi in alcune RSD: sono le singole direzioni sanitarie a decidere chiusure e sbarramenti, come testimonia in Emilia-Romagna l’esperienza di una madre di una ragazza con autismo. Cristiana Mazzoni, presidente FIDA: “L’integrazione sociosanitaria in Italia è un business”.

Nel momento in cui vengono agite, le discriminazioni hanno l’effetto di una valanga che soffoca dignità, diritti e non da ultimo la salute stessa: a dimostrarlo sono in primis le storie di chi queste discriminazioni le subisce, ma anche quelle di chi lotta per contrastarle. Con SenzaFiltro continuiamo a sondare il tema urgente e scomodo delle discriminazioni, e quello correlato delle segregazioni subite dalle persone con disabilità ospiti delle strutture residenziali durante questi due anni di pandemia. Come sempre mettiamo al bando le generalizzazioni e ricordiamo che esistono anche casi virtuosi; abbiamo però il dovere di raccontare gli strascichi di danni e contraddizioni scaturiti dal sistema dei servizi sociosanitari, dove la parola “sicurezza” è diventata il paravento di azioni che in realtà hanno portato a esiti tutt’altro che sicuri per la salute, e men che meno rispettosi dei diritti.

Il nostro viaggio prosegue in Emilia-Romagna, Regione considerata da tempo fiore all’occhiello nel panorama nazionale rispetto ai servizi erogati alle persone con disabilità. Di nuovo, gli esempi di strutture virtuose di sicuro esistono e sono apprezzabili, ma contemporaneamente non mancano quelli negativi e con derive discriminatorie, come ci conferma la testimonianza che abbiamo scelto di raccontare.

Protagonista è la storia di Amelia (nome di fantasia), madre di Debora (altro nome di fantasia), ragazza di sedici anni che presenta un disturbo dello spettro autistico grave accompagnato da disabilità intellettiva e assenza di linguaggio.

Amelia è una madre determinata, consapevole dei diritti della propria figlia e tenace nel difenderli, giorno dopo giorno, fin da quando è bambina. Gli anni che accompagnano la crescita di Debora sono infatti duri e faticosi: cominciano a manifestarsi le crisi causate dal disturbo, ma soprattutto, i servizi che dovrebbero dare risposte presentano invece lacune evidenti e disarmante inadeguatezza.

“Il tempo passa, le energie sono sempre meno e aumenta il timore del dopo di noi: questo scatena molta angoscia”, spiega Amelia, che nel frattempo per poter continuare a lavorare e a mantenersi è costretta a rivolgersi a una struttura residenziale in Emilia-Romagna dove Debora viene inserita. “La struttura era lontana da casa e in tre anni ho fatto circa 100.000 chilometri di trasferte per vedere mia figlia”.

Debora cresce e viene in seguito trasferita in un’altra struttura residenziale, sempre in Emilia-Romagna ma più vicina alla casa della madre, e intanto inizia a frequentare le scuole superiori. “La scuola non era preparata ad accogliere e a realizzare un adeguato percorso: ho scoperto che Debora stava tutto il tempo in uno stanzino separata dagli altri compagni”, racconta Amelia con amarezza. “Sarebbe questa l’inclusione così tanto dichiarata su carta?”.

Pandemia, strutture chiuse e ospiti isolati. La risposta del Garante

A febbraio 2020 ha inizio la pandemia, e Amelia, vista l’impossibilità di Debora di seguire le lezioni in DAD, opta per la cosiddetta istruzione parentale, anche se rappresenta una scelta sofferta. Ma questa decisione è in qualche modo l’ultima che Amelia ha facoltà di prendere, perché con l’avvento della pandemia lei e Debora entrano nel tunnel delle chiusure e della separazione netta.

La struttura che ospitava Debora si è del tutto chiusa all’esterno per mesi: le visite sono state ristabilite solo a giugno inoltrato. Sono stata l’unico genitore a chiedere di entrare per vedere mia figlia, ed è stata un’esperienza dilaniante: dopo mesi di totale assenza Debora era destabilizzata, non mi lasciava il braccio, voleva venire via con me”.

Amelia ripercorre le difficoltà di quel periodo: “I primi mesi era assente un tracciamento della situazione all’interno di questa struttura, dove mancavano persino i presidi di sicurezza come le mascherine: ci siamo dovuti mobilitare noi genitori per farle avere”. E ancora: “Gli operatori entravano e uscivano senza essere testati, e nemmeno i ragazzi ospiti della struttura: ho denunciato in varie sedi la cosa senza ricevere risposte”.

Durante l’estate, dopo che i genitori dei ragazzi ospiti della struttura si sono fatti sentire a gran voce, le uscite vengono di nuovo ripristinate ma a ottobre scroscia una nuova doccia fredda: “Senza nessun preavviso la struttura è stata di nuovo chiusa all’esterno, con il paradosso che invece operatori e medici potevano entrare e uscire”, chiosa Amelia. Tutto questo, sottolineiamo, nonostante ci fosse già la possibilità per i genitori – come per chiunque – di effettuare tamponi anche molecolari.

Amelia non perde tempo e segnala subito la questione: scrive a diverse figure che occupano ruoli di responsabilità, alla Regione stessa e non da ultimo anche alla Garante regionale per i diritti dell’infanzia: “Ho spiegato per iscritto che stava avvenendo una vera e propria compressione dei diritti fondamentali di questi ragazzi minorenni con disabilità ospiti nella struttura, ai quali veniva impedito di uscire. Inoltre presentavano un alto rischio di crisi se gli incontri venivano organizzati solo all’interno della struttura, e per motivi ben intuibili”. Ci mostra con desolazione la risposta ricevuta: “Dopo la mia segnalazione la Garante ha coinvolto la struttura e mi è stato scritto che comunque c’era la possibilità di fare videochiamate: ma ci rendiamo conto che parliamo di ragazzi e ragazze con autismo grave, come nel caso di Debora, e che certe dinamiche non solo non vengono comprese, ma nemmeno risultano fruibili?”.

Protocolli di “sicurezza”: chiusure sì, tamponi no

Amelia mantiene alta la guardia sul fronte sicurezza, fa i tamponi e risulta sempre negativa; nonostante ciò Debora non può varcare il cancello della struttura e fare una passeggiata con lei oltre questo confine, e men che meno essere portata a casa. Amelia racconta: “Ho scritto persino a Maria Luisa Scattoni chiedendole: ma vi rendete conto di cosa sta accadendo? Lei ha risposto che stavano ricevendo altre segnalazioni come la mia ma che non si poteva fare altrimenti per la sicurezza”.

Amelia si attiva anche per far richiedere l’utilizzo di tamponi salivari, più gestibili nel caso di persone che presentano scarsa tolleranza per quelli usati tradizionalmente, ma anche qui non ottiene riscontri. L’inquietudine sale, Debora è sempre più sofferente per la situazione, ma Amelia stringe i denti: non cede e continua a segnalare la deriva rispetto alla situazione che lei stessa definisce “una segregazione senza nessuna motivazione di ordine scientifico che tuteli davvero la sicurezza”.

Contatta telefonicamente anche il direttore sanitario del territorio in cui risiede. “Mi ha detto: lei signora ha parlato fin troppo. Poi mi ha sbattuto il telefono in faccia. Ecco la risposta che ho ricevuto”.

Se ti lamenti, ti escludo. Gli allacci e le minacce di alcune strutture sociosanitarie

Il periodo più angosciante scocca a dicembre 2021, quando la struttura viene chiusa del tutto impedendo anche gli incontri con i famigliari all’interno.

Debora non l’ho vista per mesi, fino a marzo, Natale in totale assenza: è stato tutto assurdo”, commenta Amelia. “A dicembre sono stati rilevati dei casi positivi tra gli operatori, mia figlia è risultata contagiata i primi di gennaio: ha subito impedimenti senza senso per poi prendersi il COVID-19 stando chiusa in struttura”. Oltre al danno l’amara beffa.

La delusione e la preoccupazione per il prossimo inverno sono tangibili in Amelia e in altri genitori come lei: “Sono diventata un genitore molto scomodo per chi gestisce la struttura e non solo. La cosa che in questi anni mi ha creato più inquietudine è stato scoprire gli allacci potenti che queste strutture detengono e l’ipocrisia che le caratterizza. Il centro residenziale in cui ho inserito Debora all’inizio si era presentato in maniera diversa, ma era tutta facciata: si è rivelato un contesto soffocante che, al di là del periodo di pandemia, ha manifestato sempre più una preoccupante tendenza a bypassare noi genitori, come se i nostri ragazzi fossero di loro proprietà”.

Amelia evidenzia un aspetto cardine: “Se segnaliamo qualcosa che non va la segnalazione torna al mittente, se rivendichiamo i diritti dei nostri figli ci viene paventata la possibilità di escluderli dal servizio: in che modo possiamo migliorare la situazione se ci troviamo con le mani legate e intanto i nostri ragazzi pagano questo caro prezzo con regressioni e crisi ulteriori?”.

Amelia ci rivela un aneddoto disarmante ma significativo: “Tempo fa Debora ha dovuto subire un intervento in anestesia totale in ospedale. I medici si erano raccomandati che ci fossimo noi genitori al risveglio, così come accade se coinvolto un bambino o un minorenne. Anche in questo caso un educatore della struttura si è messo in mezzo scrivendomi che sarebbe stato meglio se io e il padre di Debora non ci fossimo fatti vedere al suo risveglio, altrimenti si sarebbe agitata, e che ci sarebbero stati loro. Come si può proporre questo a dei genitori, soprattutto dopo i disagi causati dai lungi distacchi e senza tenere conto dei nostri doveri e dell’importanza che abbiamo per nostra figlia, e della sua volontà di stare con noi?”.

Amelia ha partecipato alla manifestazione organizzata da Autismo in Movimento e Famiglie Unite per l’Autismo il 9 settembre scorso in piazza Montecitorio. “In quell’occasione ho denunciato la deprivazione dei contatti con mia figlia per più di otto mesi e la risposta da parte di un’onorevole donna con disabilità che credevo attenta al tema è stata un laconico ‘non dipende da noi’”.

Domande e denunce che finora hanno trovato il deserto come risposta.

Cristiana Mazzoni, presidente FIDA: “L’integrazione sociosanitaria in Italia è un business”

Sul tema facciamo il punto della situazione con FIDA – Forum Italiano Diritti Autismo, associazione di promozione sociale nata nel 2020 e attiva a livello nazionale con l’obiettivo di promuovere e tutelare il riconoscimento del diritto soggettivo e della centralità della persona autistica (definizione adottata da FIDA), e in generale con disabilità, nell’ambito non solo dei servizi, ma anche della legislazione italiana. Sul podio spicca il tema della consapevolezza dell’autismo, su cui FIDA sta sviluppando un corposo e capillare lavoro di sensibilizzazione.

Ci confrontiamo con Cristiana Mazzoni, una delle fondatrici nonché presidente e portavoce di FIDA, alla quale chiediamo se siano giunte all’associazione segnalazioni relative a dinamiche discriminatorie e di segregazione. “Ne abbiamo ricevute e confermiamo che questa problematica grave riguarda un po’ tutta l’Italia, solo nel Lazio è andata un po’ meglio. Da quello che ho potuto constatare le realtà socioassistenziali hanno affrontato meglio il periodo della pandemia rispetto a quelle sociosanitarie, che per la maggior parte dei casi si sono blindate con le conseguenze che conosciamo”. E puntualizza: “In Italia c’è un enorme problema a monte di carattere istituzionale, oltre che gestionale. Il ministero della Salute delega infatti le decisioni alle Regioni, che a loro volta delegano alle ASL con le quali le strutture di cui parliamo sono accreditate, e i direttori che le coordinano hanno la totale discrezionalità di scelta. Non è però in alcun modo accettabile che le decisioni da loro assunte calpestino la dignità e diritti delle persone che ne sono ospiti”.

Risulta incandescente sono proprio le questioni della deriva discriminatoria e della segregazione: “Queste sono le conseguenze di scelte fatte solo per togliersi la responsabilità, ma che poi di fatto non hanno tutelato nemmeno la salute fisica perché, come abbiamo visto il COVID-19 nelle strutture è entrato lo stesso”, sottolinea Cristiana Mazzoni.

Le famiglie che si trovano a vivere le complesse e anche angoscianti dinamiche che stiamo raccontando nei nostri servizi che cosa possono fare, quindi? “Non è un iter semplice, ma prima di tutto consiglierei di rivolgersi subito alla dirigenza delle ASL per far presente la situazione. Allo stesso tempo richiamerei l’attenzione dei direttori delle strutture sui contenuti delle circolari del ministero della Salute”. Purtroppo però, come appurato, queste circolari sono state spesso oggetto di libera interpretazione, e i famigliari si trovano con le mani legate. “Le strutture possono assumere decisioni indipendentemente dalle linee guida dell’ASL e del ministero della Salute. Se nulla si muove a livello di ASL la denuncia va fatta alla Regione”.

FIDA pone la lente d’ingrandimento sull’ambito dei servizi che coinvolge le persone con disabilità e le loro famiglie: “L’integrazione sociosanitaria in Italia è diventata un vero e proprio business gestito da enti, cooperative e strutture che spesso presentano carenza di progettualità oltre che di personale”, riflette la nostra intervistata. “Il risultato è non riuscire a gestire in modo adeguato l’integrazione di cui parliamo in riferimento a una popolazione con disabilità in aumento, sia per l’età evolutiva che per quella più elevata riguardante gli anziani.” Un tema che FIDA sta affrontando in prima linea nel Lazio: “Le case famiglia stanno assumendo sempre più le caratteristiche di RSD in miniatura, e ciò è preoccupante” chiosa la portavoce del Forum.

Una via d’uscita esiste? “Sì, l’unico modo per uscire da questa omologazione che toglie dignità alla persona e che al contempo deresponsabilizza le figure professionali coinvolte in questi servizi, quali psicologi, educatori e medici, è la realizzazione di progetti di vita personalizzati. Come FIDA mettiamo al centro la persona e poniamo grande attenzione sul tema del controllo della qualità dei servizi, che finora è stato messo all’angolo”.

Leggi gli altri articoli a tema Sanità.

Leggi il mensile 111, “Non chiamateli borghi“, e il reportage “Aziende sull’orlo di una crisi di nervi“.


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Photo credits: nostrofiglio.it

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