Siria, come muoiono i gelsomini: le guerre prima della guerra

Il complesso e pericoloso ruolo dei giornalisti in periodo di guerra: ripudiare il conflitto senza rinunciare a capirlo, al di là di ogni manicheismo. E nessuna esperienza è traumatica e rivelatrice come quella della guerra.

Non avevo mai visto corpi di gente morta ammazzata prima di quei giorni ad Aleppo, né avevo mai notato come muoiono i gelsomini, i fiori simbolo di quella città. I gelsomini cadono come bimbi addormentati su un fianco. Mi sono trovata davanti a una grande pianta, negli occhi le immagini degli orrori visti quella mattina, nelle narici l’odore della morte, accarezzato dal profumo stoico di quei fiori che sembrava voler sconfiggere le oscurità della guerra.

Una delle strade che uniscono il nord del Paese, dopo la frontiera turca, alle principali arterie autostradali.
Photo@AsmaeDachan

Mi sono piegata a raccogliere un fiore morto per conservarlo nel mio taccuino, quando si è avvicinata a me la padrona di casa.

La tua auto è pronta”.

Ho annuito, ho raccolto le mie cose e dato un ultimo sguardo a quella pianta che si tingeva dei colori del tramonto. Ho scattato una foto col telefonino. “Ti piacciono i gelsomini? Prendi”, e così dicendo mi ha riempito la tasca destra di fiori, prendendone una manciata dai rami che pendevano all’interno del cortile. Ero viva, con in tasca fiori vivi. Quella stessa sera, quando ho rimesso la mano in tasca, ho visto che i fiori erano tutti schiacciati, morti. Come i corpi dei civili che erano rimasti intrappolati sotto le macerie delle loro case. Non piangevo da giorni. Piansi per i fiori di gelsomino morti nella mia tasca. O forse quello era un pretesto per liberarmi da tanto dolore accumulato.

Aleppo, civili tra le macerie di alcune palazzine colpite da bombardamenti osservano i soccorritori della Protezione Civile intenti a recuperare i corpi delle vittime seppelliti sotto le loro stesse case. Photo@AsmaeDachan

Nella mia memoria i fiori e la morte rievocano un ricordo lontano. Le insegnanti della scuola primaria ci portarono a visitare alcuni monumenti della città di Ancona e a fine giornata anche il cimitero della Seconda guerra mondiale. Il ricordo che portai a casa quel giorno era quello dei fiori bellissimi e dell’erba perfettamente tagliata. Descrissi la scena come se avessi visitato un giardino. All’epoca non avrei mai immaginato che un giorno sarei diventata giornalista e sarei andata in Siria, nella terra delle mie origini, dove però non ero nata, e avrei visitato un giardino con giochi per bambini trasformato in cimitero perché nei cimiteri non c’era più spazio per seppellire le vittime dei bombardamenti. All’epoca non avrei immaginato neppure di raccontare una guerra al presente, perché da bambini ci si illude che le guerre siano qualcosa che appartiene al passato. Qualche anno più tardi capii che, a differenza dei fiori e delle illusioni infantili che sfumano in breve tempo, la guerra è un sempreverde, che si rinnova in ogni epoca, generazione dopo generazione.

Avevo quattordici anni quando iniziò la cosiddetta prima guerra del Golfo, il primo conflitto che in qualche modo potevo seguire e capire. Mi ricordo che alcuni ragazzi del quinto si divertivano a chiamarmi Saddam e che un giorno uno di loro mi chiese se tifassi per Bush o per il leader iracheno. Risposi che non mi piaceva nessuno dei due, che uno era un guerrafondaio e l’altro un dittatore. Da Saddam il mio nome passò così a “Svizzera”, perché non essendo una tifosa di guerra venivo considerata neutrale. Argomentai su quello che conoscevo, anche se non fu facile, considerando che all’epoca non avevamo Internet. Le mie argomentazioni devono essere state convincenti, tanto che i ragazzi più grandi decisero di organizzare un’assemblea di istituto dedicata al tema della guerra, dove vennero invitati alcuni attivisti di Amnesty ed Emergency. Avevo vinto la mia prima battaglia, non ero Saddam e non ero nemmeno Svizzera, ero una persona che cercava di farsi delle idee leggendo e documentandosi. A quella assemblea ne seguirono altre, con l’inizio della guerra nei Balcani. Non avevo più nomignoli, o almeno non sapevo di averli e scrivevo qua e là per qualche giornale. Avevo capito quale sarebbe stata la mia strada.

La guerra nei Balcani fu la prima che vissi in qualche modo sulla mia pelle. Nelle Marche, Regione in cui vivo, arrivarono molti profughi. Imparai a guardare le persone negli occhi, a osservare la loro mimica, a cercare in quella loro lingua per me incomprensibile espressioni che dessero voce al loro dolore. Grazie a chi traduceva, per la prima volta in vita mia sentii parlare di stupri etnici, di violenza di genere come arma di guerra. Erano anni in cui il corpo mio e dei miei coetanei viveva grandi trasformazioni e quei racconti furono uno schiaffo terribile. Anche il corpo poteva diventare un’arma. E quell’arma poteva ferire in due modi, con l’atto in sé e con le conseguenze di quell’atto, quando le donne rimanevano incinte dei loro carnefici. Cominciai a leggere di aborti, di diritto e necessità, di pro e contro, di bambini non voluti e abbandonati, di bambini amati contro ogni previsione. Imparai molte parole che non avrei mai creduto di pronunciare in una frase al presente, come assedio, pulizia etnica, tortura, embargo.

I miei anni da liceale erano un alternarsi di momenti bellissimi dedicati allo studio della letteratura e dell’arte, ma anche anni di presa di coscienza civile e politica. Il disumano e interminabile assedio di Sarajevo, l’avanzata dei talebani e il loro odio misogino (che a distanza di vent’anni è tornato in tutto il suo orrore), il genocidio in Ruanda; mi ero abbonata a diverse riviste specializzate e cominciavo a fare ricerche online. Non era mai tutto bianco o tutto nero, il manicheismo non poteva essere la chiave di lettura dei conflitti. Ogni situazione andava contestualizzata nel tempo e nello spazio e mai poteva essere accettabile abdicare al diritto alla vita in nome di una qualche logica geopolitica.

In quegli anni maturò in me l’orgoglio e la gratitudine di essere italiana. Nelle ore di educazione civica leggevamo la Costituzione. Imparai a memoria alcuni articoli, come avevo imparato a memoria alcune preghiere. Articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. In quella parola, “ripudia”, trovavo il senso di tutte le mie ricerche e di tutti i miei perché. Ero consapevole di essere italiana d’adozione, che nelle vene avevo sangue siriano, ma la mia parte siriana era ancora legata solo agli affetti e ai ricordi di famiglia. Non c’erano ancora le ferite di guerra.

Aleppo, un’auto colpita da un’esplosione nel centro della città vecchia, alle porte dell’antico suq,
il millenario mercato coperto distrutto dalla guerra. Photo@AsmaeDachan

Poi arrivarono l’11 settembre e gli anni del terrorismo. Fu l’inizio di un nuovo incubo che non lasciò nessuno indifferente o distratto. Gli attentati alle Torri Gemelle cambiarono il corso della storia, mostrando un livello di orrore e brutalità inaspettato. Non furono i primi, né gli ultimi purtroppo, con migliaia di vittime innocenti in ogni angolo del mondo. Quel “ripudia” si vestiva per me di nuovi significati; consideravo la guerra e il terrorismo due facce della stessa medaglia, con vittime civili e inermi che pagavano per le scelte disumane e scellerate di qualcun altro.

Il 15 febbraio del 2003 ero a Roma anche io per la più grande manifestazione contro la guerra che si ricordi in Italia. In tutto il mondo oltre 110 milioni di persone sfilarono per la pace. Anche quello fu un giro di boa. Il mancato ascolto di chi chiedeva di abbandonare la logica bellica provocò una frattura all’interno dello stesso mondo pacifista. Il senso di delusione era grande e tagliente come una lama.

Ho scritto di profughi, diritti umani, relazioni internazionali e guerra per anni. Nel 2013 sono andata per la prima volta in un Paese sotto le bombe, per raccontare la guerra con gli occhi di chi la subisce in diretta. Sono andata nella terra delle mie origini, la Siria, nella millenaria città di Aleppo. Ho capito solo allora che non si sa mai davvero nulla della guerra finché non ci si sporcano le scarpe di sangue e coltre, finché non si guardano negli occhi le madri e i padri che stringono a sé i corpicini dei figli esanimi. Per loro non ci sono fiori, solo lacrime.

Sotto le bombe la gente cerca un rifugio che non esiste. Sono passata davanti a un negozio di sapone che era rimasto aperto. “Non decideranno loro della mia vita”, mi ha detto l’anziano titolare. Di lì a poco il quartiere è stato raso al suolo. Qualcuno aveva deciso anche per lui. Aleppo era famosa per il suo sapone e per la sua bellezza; ha perso entrambe le cose.

Ricordo le lacrime di un medico che aveva operato tutto il giorno senza anestetizzanti perché erano ormai esauriti. Finiti i farmaci, finiti i beni di prima necessità, col sistema produttivo paralizzato, una sola industria in Siria, come negli altri Paesi in guerra, non ha mai conosciuto crisi: quella delle armi. Armi messe in braccio anche ai bambini, con centinaia di minorenni costretti a combattere. Giovani e giovanissimi a cui è stata rubata l’infanzia, cresciuti in guerra, senza conoscere alternative alla violenza. In battaglia, senza alcuna esperienza, sono sempre i primi a cadere. E per loro non ci sono mai fiori, né lapidi.

Leggi il reportage “Lavorare con il nemico“, e il mensile 111, “Non chiamateli borghi“.


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In copertina: Aleppo, tra le macerie di una palazzina bombardata i soccorritori recuperano il corpo di una donna rimasto lì per una settimana. Un bambino intento a cercare plastica da rivendere assiste a tutta la scena. Foto di Asmae Dachan

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