Spreco alimentare, i consumatori ammettono, le aziende nascondono

Se lo spreco alimentare fosse una nazione, sarebbe la terza fonte mondiale di emissioni di gas serra. Nel frattempo in Italia 200.000 lavoratori agricoli sono in condizione di schiavitù. Parliamo della conferenza “Pianeta impatto zero: economia circolare e buone pratiche per il Nuovo Mondo”, dalla Family Economy Week 2021.

Esiste una nazione invisibile che è la terza fonte più grande al mondo di emissioni di gas serra. Non batte bandiera, non ha confini e non ha alcun governo: è il Paese dello spreco di cibo e di risorse, un’entità astratta dall’influenza concreta, quantificata dall’ultimo report dell’Agenzia per l’ambiente dell’ONU. Allo stesso tempo, però, la ricerca sta individuando nuovi spazi di intervento per contrastare gli sprechi, le aziende si stanno armando di nuovi mezzi e culture della sostenibilità, e imprenditori visionari, insieme a una nuova generazione di agricoltori, hanno trovato un modo per rigenerare la terra attraverso il lavoro.

Se ne è parlato nella conferenza Pianeta impatto zero: economia circolare e buone pratiche per il Nuovo Mondo, nell’ambito della Family Economy Week 2021. La tavola rotonda ha visto come relatori Claudia Giordano, ricercatrice in Scienze e Tecnologie agroalimentari dell’Università di Bologna, Mauro Marani, Executive Marketing Manager di ENEA, e Lucio Cavazzoni, presidente di GoodLand S.r.l.

I dati mostruosi dello spreco dei consumatori (e quelli nascosti delle aziende)

La produzione di cibo implica l’emissione di gas serra; è una correlazione inevitabile, e il settore è tra i principali responsabili dei cambiamenti climatici. Ma è davvero necessario che gli effetti nocivi del processo produttivo abbiano un volume così insostenibile?

«La filiera è lunga e composta da tante fasi: produrre una bistecca di manzo, per esempio, interessa mezzo pianeta», precisa Claudia Giordano. «Circa il 24% per cento delle risorse idriche, di terra e di fertilizzanti è utilizzato nella produzione di cibo che viene gettato via. Alle fasi di retail, trasporto, packaging e trasformazione è dovuto il 18% delle emissioni totali. Quindi ci sono settori in cui lo spreco è maggiore, sui quali occorre focalizzarsi, e per il momento quello più consistente riguarda il consumatore».

In effetti il quadro è inquietante: 570.000.000 di tonnellate annuali di alimenti sprecate a livello domestico, il 53% dello spreco totale di filiera in Europa. In Italia ogni settimana si gettano via 600 grammi di cibo commestibile a persona, 27 chili all’anno. Ma non si tratta di una tendenza esclusiva dei Paesi ricchi: anche le economie in via di sviluppo partecipano a piene mani allo spreco a causa del fenomeno della “transizione nutrizionale”, secondo il quale a ogni latitudine chi entra a far parte della classe media cambia abitudini alimentari, consumando – e buttando – cibo come in Occidente.

Le soluzioni possono riguardare anche la fase di produzione, ma si rivolgono soprattutto a quella del consumo. Ne è un esempio la legge Gadda, che incentiva i supermercati con sgravi fiscali alla tassa sui rifiuti in caso di donazioni di eccedenze alimentari ad associazioni di beneficenza; tuttavia è ancora irrisolto il nodo delle pratiche sleali che comprimono il valore dei prodotti nella prima parte della filiera, come le aste a doppio ribasso. Resta cruciale la diffusione della consapevolezza dello spreco individuale, con l’intaccamento dei criteri estetici di selezione del cibo e l’istituzione di enti locali che gestiscano il sovrappiù di alimenti a livello comunale.

Nonostante i numeri siano impietosi, il quadro è solo parziale, e non è corretto additare solo i consumatori come responsabili dei fenomeni di spreco: «Non conosciamo i dati sullo spreco nella fase di produzione, perché le aziende non li comunicano. Hanno paura di ricadute sulla loro reputazione». Come se già un’omissione simile non bastasse a comprometterla.

Una sostenibilità da adattare ai territori. E il ministero investe sulla formazione dei cittadini

«Cambiamento climatico e rivoluzione digitale sono due trasformazioni globali irreversibili che vanno affrontate con una visione unica», afferma Mauro Marani, chiamato in causa sul rapporto tra sostenibilità e innovazione. Un parallelo desueto per legare due fenomeni che si influenzano e in parte si contrastano a vicenda, al punto che «non si può avere sostenibilità senza il digitale»: uno studio condotto dalla European House della Ambrosetti e Microsoft mostra che le aziende italiane più digitalizzate hanno aumentato la produzione del 64%, diminuendo la CO2 del 10% e dematerializzando i processi al 68%, con una serie di ricadute positive susseguenti.

Marani mette l’accento sul settore edilizio, sia per la valorizzazione del patrimonio immobiliare esistente (con interventi di efficientamento energetico, ad esempio) che per le nuove costruzioni, da realizzare con tecniche e materiali innovativi dal minore impatto ambientale. Entrambi gli aspetti vanno calibrati di territorio in territorio, in concerto con la pubblica amministrazione, per garantire sia una diminuzione effettiva dei consumi che un aumento della qualità della vita negli insediamenti abitativi.

Il filo rosso che deve legare i processi di innovazione in tutti i settori è lo sviluppo di una cultura della sostenibilità, vero e proprio convitato di pietra di ogni discorso sull’argomento, «un tema di informazione e formazione» che deve coinvolgere la cittadinanza nel modo più capillare possibile. A questo fine, spiega Marani, è stato stanziato un importante finanziamento dal ministero della Transizione ecologica: così uno dei dicasteri più discussi del Governo Draghi batte un colpo, pianificando la formazione all’efficienza energetica di qui al 2030.

Se essere sostenibili non fosse sufficiente: l’agricoltura che rigenera la terra

La semplice sostenibilità, però, non basterebbe neanche più. Secondo Lucio Cavazzoni «bisogna andare oltre quel concetto, che prevede l’equilibrio. E noi l’equilibrio l’abbiamo sfondato. Dobbiamo entrare in una logica di rigenerazione, e cambiare paradigma rispetto ai criteri del Novecento».

La sua GoodLand S.r.l. si propone di demercificare il cibo per renderlo azione di cambiamento, perché «agricoltura e ambiente sono la stessa cosa». Dunque la coltivazione biologica diventa un requisito fondamentale, ma il fine ultimo del lavoro agricolo si rivolge al territorio, diventa leva di attivazione sociale e di rigenerazione ambientale.

La lotta al caporalato e alle agromafie ne è la naturale conseguenza: «Di 1.250.000 di lavoratori del mondo agricolo, in Italia, un terzo lavora senza contratto. Secondo le stime della Sapienza, 200.000 sono in condizione di schiavitù». Sono fenomeni da combattere «diffondendo consapevolezza e mettendoci la faccia», come i produttori affiliati a GoodLand S.r.l., che nell’area mediterranea puntano su produzioni virtuose di olio e pomodori.

Tuttavia nel mondo delle imprese neanche la consapevolezza può bastare, da sola. I tempi sono maturi per pensare – e attenersi – al concetto di corresponsabilità. Conclude Cavazzoni: «Bisogna operare più sul territorio e meno sul mercato. Il Nord Europa si ciba dei prodotti provenienti dal Sud del Mediterraneo, e vuole farlo pagandoli poco; un’abitudine da contrastare con l’aiuto di sindacati e associazioni. Perché il territorio è la prosperità di tutti».

Prosperità di tutti, guadagno di tutti, speculazione di nessuno. Se il nuovo mondo si realizzasse in questi termini proprio a partire dal lavoro, tagliando il cordone ombelicale con la crescita a tutti i costi, forse potremmo affrancarci da un modo di vivere che non tornerà più.

In questi anni sceglieremo se purtroppo o per fortuna.

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