Tomaso Montanari: «Gli studenti non sono pezzi di ricambio. E la scuola non è al servizio del lavoro»

Il rettore dell’Università per Stranieri di Siena, ospite di Nobìlita, intervistato da SenzaFiltro sui temi della formazione e del conflitto, internazionale e sociale.

La scuola come presidio di democrazia.

Il lavoro come elemento di coesione sociale, arma pacifica contro la guerra, cemento per costruire la pace.

Al centro il cittadino, soggetto capace di esercitare sovranità politica, a un tempo radice e frutto di una società libera, giusta, solidale.

Si tiene insieme tutto questo nel contributo di Tomaso Montanari all’edizione 2022 di Nobìlita, che è stato occasione per riflettere sul ruolo della cultura, anche di quella del lavoro, sulle occasioni mancate delle democrazie occidentali e sul futuro che vogliamo costruire per noi e per le generazioni che verranno.

È dalla scuola che parte la riflessione di Montanari. Non solo perché per lui, rettore dell’Università per Stranieri di Siena, questa materia è pane quotidiano, ma anche perché è dall’idea di scuola che si capisce quale tipo di società, di uomo, di cittadino si intende costruire. A volte i numeri spiegano meglio di mille parole la realtà in cui viviamo: l’Italia si appresta a stanziare il 2% del PIL in armi, mentre l’intero nostro sistema universitario ne impegna solo lo 0,3%. La sproporzione e le sue conseguenze sono evidenti.

«Se mettiamo a confronto queste grandezze capiamo che progetto abbiamo per l’Italia», dice Montanari. «Rischiamo di dimenticarci quale fosse il disegno originario della Costituzione italiana, che metteva insieme scuola e politica. Concetto Marchesi, uno dei nostri padri costituenti, indicava la scuola, e non più l’esercito, come presidio della nazione. Non è un caso se l’articolo 9 della nostra Carta parla di sviluppo della cultura, perché allora la scommessa era formare una nazione il più possibile colta, cioè capace di esercitare sovranità politica. Una nazione di ignoranti è più governabile, ma va allo sfascio. Oppure viene guidata dai famosi “competenti”».

Già, la competenza. Quasi un totem, nella nostra società. Che, però, a leggerla in un’accezione sempre e soltanto positiva, rischia di intorbidire le acque.

«Oggi c’è un’idea teologica della competenza, come se fosse un’infusione dello Spirito Santo, per cui, per esempio, si pensa che un banchiere centrale possa governare benissimo anche una pandemia o una guerra», riflette Montanari. «In questa prospettiva, sostituire le competenze alla conoscenza, alla cultura, al pensiero critico, genera il rischio di pensare la scuola come un luogo di profilazione del capitale umanoper il mercato del lavoro, mentre la scuola non è questo, non è al servizio di un mercato del lavoro dove la merce sono i lavoratori. Gli studenti non sono pezzi di ricambio che dovranno sostituire i loro genitori e i loro nonni quando si romperanno, ma persone che vanno messe nelle condizioni di esercitare la democrazia, la sovranità politica, che è poi quella cosa che permette a ogni cittadino, in quanto tale, di criticare le scelte dei governanti che hanno un impatto negativo sulla sua vita. Quindi io direi che ci sono luoghi in cui la competenza è fondamentale, ma questa non è la chiave universale e non può sostituire la conoscenza e la cultura, né a livello di scuola, né a livello di politica».

Tomaso Montanari: «Verso una stagione di conflitto sociale senza la politica, cioè nel peggiore dei modi»

Per approfondire questo e altri aspetti del suo discorso, abbiamo chiesto al rettore Tomaso Montanari di entrare più nel dettaglio.

Professor Montanari, come si può riportare la scuola a essere “fabbrica” di cultura e non di competenze?

Il punto è che tutto il sistema scolastico è stato brutalmente aziendalizzato, misurato su risultati che non sono quelli della quantità e della qualità delle letture. Non bisogna insegnare la scrittura creativa, bisogna mettere nelle mani degli studenti i libri, ossia la complessità, aiutare i ragazzi a sviluppare un pensiero critico. La sensazione, però, è che proprio lo spirito critico sia diventato un disvalore, qualcosa di cui diffidare. La guerra in Ucraina sembra imporre la necessità di un pensiero unico: in Russia chi manifesta contro una guerra fratricida è arrestato perché filoucraino, in Italia chi protesta contro la corsa alla guerra atomica è bollato come filorusso. È la delegittimazione del dissenso, la cancellazione del conflitto in un mondo che, secondo la ONLUS “Armed Conflict Location & Event Data Project”, conta attualmente ben 59 guerre.

Non crede che questo sia un tragico paradosso?

Sì, è vero. Penso che ci sia indubbiamente un richiamo alle armi, nel senso di un richiamo a un pensiero unico allineato e coperto, che non ammette deviazioni e che è la sindrome del nemico eterno, del “dobbiamo essere uniti”, di tutto quello che invoca uno stato di eccezione. C’è l’idea che in momenti di emergenza la democrazia sia vista come un ostacolo e che quindi vada sospesa, laddove sarebbe invece una grande arma positiva. Forse ne abbiamo paura, questo è il vero problema.

Tenendo conto che spesso le guerre nascono dalla mancanza di lavoro e dai conseguenti conflitti sociali, e che gli ultimi dati Istat dicono che la disoccupazione giovanile in Italia è al 23,8%, secondo lei esistono rischi per il nostro Paese?

Penso di sì, anche se si deve distinguere molto bene tra conflitto della guerra e conflitto sociale, che sono parenti se non molto alla lontana. In Italia il conflitto sociale è stato rimosso. Dalla pandemia in poi, ma anche prima, ci si dice che bisogna essere ottimisti, che c’è un interesse nazionale, e si è sospesa la politica. Siamo in una fase che Gustavo Zagrebelsky chiama “democrazia dall’alto”, quella nella quale è stato il Presidente Mattarella a fare il Governo Draghi, mandando a casa il Governo Conte Due che di fatto poteva andare avanti, e che bene o male era stato eletto. La rimozione del conflitto e il fatto di teorizzare che limitarsi all’unità nazionale sia un valore, cancella quello che il sociologo anglosassone Tony Judt diceva in maniera brutale: “I ricchi non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri”. Chi manda alla scuola privata i propri figli non ha le stesse esigenze di chi li manda alla scuola pubblica; chi usa l’auto con conducente non ha i problemi degli autobus. Eliminare il conflitto significa mistificare la realtà in nome di una semplificazione che fa il gioco soltanto del potere.

Come si compongono questi interessi diversi?

Attraverso la politica, attraverso il Parlamento, attraverso un confronto a viso aperto, forte, serio, pacifico. E poi nella costruzione di un interesse generale che tenga le cose insieme. Se si toglie il conflitto dalla politica poi lo si ritrova nelle piazze; questo è il problema vero, e la guerra aggraverà le cose. Inflazione, maggiore costo dell’energia, carenza di cibo: andremo verso stagioni di conflitto sociale crescente senza avere lo strumento della politica, senza la mediazione. Cioè nel peggiore dei modi.

Come si costruisce, o ricostruisce, la cultura del lavoro?

Si costruisce pensando che i lavoratori non sono “capitale umano” ma sono persone. Abbiamo bisogno di formare cittadini dotati di un pensiero critico. Sembra che il lavoro, le aziende abbiano bisogno di pezzi docili, malleabili, disciplinabili, e invece no, hanno bisogno di teste pensanti.

E su questo lei è ottimista?

Quando vedo i ragazzi sì, quando vedo gli adulti meno.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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In copertina Tomaso Montanari, foto di Domenico Grossi

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