Università e industria militare, il legame c’è: aziende, bandi, accordi

Sono 80 gli accordi di ricerca attivi tra atenei italiani e israeliani, con finanziamenti a pioggia, progetti di ricerca internazionale e vicinanze conclamate tra accademici e produttori di armi come Leonardo S.p.A. Le voci dei docenti contrari e la testimonianza di Michele Lancione, autore del libro “Università e militarizzazione”

15.05.2024
università e industria militare, le proteste degli studenti a Bologna

Negli Stati Uniti le manifestazioni si susseguono da mesi, anche negli atenei più prestigiosi. Le università europee, oggi, non sono differenti: sono diventate il palcoscenico di imponenti proteste studentesche contro il massacro dei palestinesi e la crescente militarizzazione dell’Europa. La mobilitazione studentesca si sta ora estendendo anche ad altre nazioni UE, con Austria e Svizzera che si sono aggiunte alla lista delle università coinvolte nelle proteste contro le politiche israeliane – e il supporto che hanno ricevuto dall’Europa.

Se Joe Biden ha cercato di mantenere la neutralità, la ministra spagnola per la scienza, l’innovazione e l’università, Diana Morant, ha elogiato il pensiero critico degli studenti e ha sottolineato l’importanza degli atenei come luoghi di sviluppo del pensiero critico e della coscienza sociale. Al contrario, alcuni governi – come quelli di Parigi, Berlino e Amsterdam – hanno adottato una linea dura, reprimendo le manifestazioni.

L’Italia è tra questi. Il governo Meloni ha optato per un approccio repressivo, contraddistinto anche da manganellate, arresti e contrasto attivo delle proteste degli studenti. I rettori di diverse università italiane, invece, sono contrari a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine per sgomberare le tende degli studenti accampati nelle università in segno di solidarietà con il popolo palestinese.

Questa ondata di proteste, soprannominata “Intifada degli studenti“, è partita dall’Università di Bologna per diffondersi poi in tutta Italia. Gli universitari, attraverso queste proteste, chiedono la cessazione degli accordi con le istituzioni israeliane coinvolte in quello che viene da loro definito “genocidio” palestinese, e il termine del supporto italiano a politiche belliche in Medio Oriente.

Dal 2006 ad oggi sono stati stipulati 177 accordi tra 44 atenei italiani e 31 israeliani. Di questi, quelli ancora attivi sarebbero circa 80, di cui quasi la metà sottoscritta tra il 2021 e il 2022.

Nel dipartimento di Fisica dell’Università La Sapienza, a Roma, si è tenuto un presidio significativo dopo la vandalizzazione di una targa in memoria del rettore Sufian Tayeh, ucciso dall’esercito israeliano. Inoltre, si è organizzata una raccolta di firme contro il tirocinio “Mare Aperto” con la marina militare, che prevede esercitazioni belliche nel Mediterraneo.

La domanda che ci siamo posti è: ma esiste davvero un collegamento tra la ricerca in Italia e gli armamenti in Israele? La risposta sembra essere affermativa, e viene da diversi accademici che hanno osservato dinamiche simili in prima persona.

“L’università cerca fondi, i militari glieli forniscono”: il caso di professori e rettori vicini a Leonardo, primo produttore di armamenti in UE

Michele Lancione, professore di Geografia economica e politica al Politecnico di Torino nonché autore del libro Università e militarizzazione (Eris Edizioni, 2023), esplora il delicato intreccio tra ricerca accademica e industria bellica, un argomento di crescente rilevanza, specie in relazione al conflitto in Palestina.

“Il mio libro analizza le relazioni che il mondo accademico pubblico, focalizzato sulla ricerca civile, intrattiene con il complesso militare-industriale, rappresentato dal ministero della Difesa e dalle aziende che operano nel settore della difesa”, spiega Lancione.

Per l’accademico le collaborazioni tra università e settore militare possono essere suddivise in tre categorie.

“Innanzitutto c’è la ricerca diretta per scopi militari o civili, con partner come Leonardo, primo produttore europeo di armamenti. Spesso queste non sono vere e proprie ricerche, ma committenze o prestazioni di servizio, senza spazio per domande critiche. In secondo luogo, si registrano rapporti di formazione tra docenti universitari e personale militare o viceversa. Una terza categoria – conclude – riguarda il finanziamento della ricerca, che coinvolge sia l’ambito militare che quello accademico. Un esempio è il Piano Nazionale di Ricerca Militare del ministero della Difesa in Italia, o il programma Horizon Europe, in origine focalizzato su tecnologie civili o di difesa, ma che ha finanziato aziende come Elbit Systems, il principale fornitore delle attrezzature terrestri e dei veicoli aerei senza pilota dell’esercito israeliano”.

Accordi consolidati coinvolgono importanti istituzioni accademiche italiane, come il Politecnico di Torino e di Milano e l’Università di Bologna, e aziende belliche israeliane di spicco, come Elbit, Israel Aerospace Industries e Rafael.

A fine gennaio 2024, centinaia di esponenti del mondo accademico di tutta Europa hanno firmato una lettera aperta per chiedere all’Unione europea di “interrompere le collaborazioni di finanziamento con organizzazioni che sono note o sospettate di essere complici di Israele o di altre (presunte) violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale, compresi i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e il genocidio”. Nel testo vengono citate diverse collaborazioni che rientrano proprio nel programma Horizon (il quale ha stanziato 95,5 miliardi di euro per la ricerca, dei quali quasi 17 miliardi destinati a settori come “Sicurezza civile per la società” e “Digitale, Industria e Spazio”). Nel momento in cui scriviamo, la lettera è stata firmata da quasi 500 persone.

L’elemento più critico per Lancione è rappresentato dal concetto di dual use: “Si tratta dell’utilizzo sia civile che militare delle tecnologie sviluppate attraverso la ricerca accademica. Questo rappresenta una sfida etica e sociale significativa, poiché la ricerca potrebbe finire per alimentare il complesso militare-industriale”.

C’è poi la questione Med-Or: “La partecipazione o iscrizione di molti professori e rettori universitari alla fondazione Med-Or, affiliata a Leonardo S.p.A., azienda bellica, è un problema. Io e gli studenti che protestano chiediamo le dimissioni dei rettori da questa fondazione, sottolineando il conflitto di interessi e il ruolo inappropriato delle università nel sostenere l’industria delle armi. Rettori e rettrici di università italiane non dovrebbero avere nulla a che fare con quella fondazione”.

Per l’esperto il legame tra ricerca e reparto bellico è molto profondo e complesso: “Le università cercano finanziamenti e, in un momento in cui viviamo conflitti globali, le aziende militari rappresentano i migliori offerenti. Allo stesso tempo, il mondo militare trova vantaggio nel lavorare con le università, perché può avvalersi dei migliori ricercatori del Paese e ottenere legittimazione pubblica, operando una sorta di ‘tecno-washing’, come nel caso di Leonardo o di Frontex. Questo meccanismo alimenta però ulteriormente il complesso militare-industriale, una dinamica che dovremmo evitare”.

Il bando ministeriale della discordia: la ricerca militare a fianco di quella civile

Nel frattempo il Senato dell’Università di Torino ha deciso di interrompere la partecipazione al bando MAECI del ministero degli Affari Esteri per la cooperazione tra istituzioni italiane e israeliane nella ricerca scientifica, che stanzia 1.100.000 euro; ciò a causa, a detta loro, della mancanza di restrizioni sull’utilizzo delle tecnologie dual use. Il bando, scaduto il 10 aprile, finanzierà massimo undici progetti, ma il governo italiano non ha ancora annunciato se verrà rinnovato per il 2024.

Nonostante questo, le università italiane hanno una lunga storia di collaborazione con Israele: secondo la piattaforma del consorzio pubblico Cineca, dal 2006 ad oggi sono stati stipulati 177 accordi tra 44 atenei italiani e 31 israeliani. Di questi, quelli ancora attivi sarebbero circa 80, di cui quasi la metà sottoscritta tra il 2021 e il 2022.

I progetti di ricerca italo-israeliani menzionati nel bando del MAECI riguardano tre aree principali:

  1. tecnologie per un suolo sano (ad esempio nuovi fertilizzanti, impianti nel suolo, microbioma del suolo, ecc.);
  2. tecnologie per l’acqua, tra cui: trattamento dell’acqua potabile, trattamento delle acque industriali e di scarico e desalinizzazione dell’acqua;
  3. ottica di precisione, elettronica e tecnologie quantistiche per applicazioni di frontiera, come i rivelatori di onde gravitazionali di prossima generazione.

Il punto più problematico del bando, secondo alcuni esperti, riguarda la terza area, poiché le tecnologie finali possono essere impiegate in modalità dual use, inclusa la sorveglianza e il controllo a distanza.

Alcune istituzioni – come appunto l’Università di Torino, la Scuola Normale di Pisa e l’Università di Bari – hanno scelto di non partecipare al bando per il 2024, citando preoccupazioni etiche legate proprio alla ricerca dual use. La ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, ha invece criticato questa decisione, sostenendo che il boicottaggio andrebbe contro la tradizione di apertura e inclusività delle università.

La questione ha generato divisioni all’interno delle istituzioni accademiche, con alcuni professori che si sono dissociati dalla decisione di non partecipare al bando. La Scuola Normale di Pisa ha citato a supporto della sua decisione l’articolo 11 della Costituzione, che prevede il rifiuto della guerra come mezzo di risoluzione delle dispute internazionali. Anche l’Università Statale di Milano ha sospeso un accordo con l’Università di Ariel, situata in Cisgiordania, sottolineando le implicazioni etiche e legali.

Le università italiane sono presto diventate il fulcro delle proteste contro la cooperazione accademica con Israele. Nell’Università la Sapienza di Roma, ad esempio, gli scontri tra studenti e polizia sono diventati frequenti durante le manifestazioni contro i progetti di collaborazione con le istituzioni israeliane. Gli studenti hanno chiesto la cessazione di queste collaborazioni e le dimissioni della rettrice Antonella Polimeni dalla fondazione Med-Or, collegata a Leonardo S.p.A., la sopracitata, nota azienda italiana di armamenti.

Il Senato accademico della Sapienza ha ribadito però che la ricerca scientifica dovrebbe rimanere distinta dalle questioni politiche, aggiungendo che il boicottaggio delle collaborazioni scientifiche internazionali non promuoverebbe la pace. Altre università italiane, come l’Università di Bari e la Federico II di Napoli, hanno invece preso in considerazione le richieste degli studenti, discutendo la chiusura delle collaborazioni con le istituzioni israeliane.

3.000 docenti universitari firmano per sospendere la cooperazione con Israele

Il legame tra le università italiane e l’industria delle armi israeliane è oggetto di crescente attenzione ed è stato messo in luce anche dall’organizzazione olandese di ricerca Stopwapenhandel. Accordi consolidati coinvolgono importanti istituzioni accademiche italiane, come il Politecnico di Torino e di Milano e l’Università di Bologna, e aziende belliche israeliane di spicco, come Elbit, Israel Aerospace Industries e Rafael.

Nel frattempo, circa 2.800 (al momento in cui scriviamo) tra docenti, studiosi e ricercatori hanno firmato una lettera aperta al ministero degli Affari Esteri, chiedendo la sospensione del bando per la cooperazione tra istituzioni italiane e israeliane nella ricerca scientifica. I firmatari temono che i finanziamenti possano essere utilizzati per sviluppare tecnologie dual use, con possibili impieghi militari. La lettera evidenzia anche le devastanti conseguenze delle operazioni militari israeliane sulla Striscia di Gaza, che hanno distrutto il sistema educativo locale, comprese le università, parlando di un vero e proprio “scolasticidio”.

Abbiamo raccolto le parole di alcuni degli accademici che hanno firmato la lettera al MAECI per farci spiegare le loro motivazioni.

Paolo Piseri, professore associato di Fisica presso l’Università degli Studi di Milano, ha espresso il suo supporto all’iniziativa come un atto pacifico per fermare la violenza.

“Non mi sono voluto soffermare su i possibili distinguo dal dito che indicava al massacro, ma ho ritenuto necessario contribuire a portare l’attenzione verso ciò che l’appello in sostanza denuncia, ossia che è dovere costituente di chi rappresenta la nostra Repubblica agire diplomaticamente perché l’azione di guerra attuata da Israele sia fermata”. Anche se per lui “il boicottaggio è strumento odioso e può infliggere sofferenze anche su soggetti non responsabili di ciò che si intende correggere, tuttavia è un’ultima ratio accettabile a cui accedere per operare forzature tra Stati”.

Lorenzo Zamponi, professore associato di Sociologia alla Scuola Normale di Pisa, considera inaccettabile qualsiasi collaborazione scientifica che possa avere implicazioni militari, specie in un momento di crisi umanitaria a Gaza. Sebbene non sia favorevole ai boicottaggi accademici, crede “che i governi occidentali siano da troppo tempo complici dell’oppressione del popolo palestinese da parte di Israele, e che un segnale di dissenso forte vada dato, soprattutto nel contesto drammatico dell’offensiva a Gaza”.

Anche Gloria Berlier, professoressa ordinaria di Chimica presso l’Università degli Studi di Torino, ha firmato la lettera per principio, preoccupata per l’eventuale utilizzo bellico delle ricerche.

“L’idea di impedire collaborazioni scientifiche tra Paesi è una cosa che non mi trova favorevole – dice – come quando il ministero italiano decise di interrompere le collaborazioni scientifiche con la Russia”. Sebbene sostenga la collaborazione scientifica come veicolo di pace, per Berlier il rischio di dual use nei progetti di cooperazione con Israele l’ha convinta a sottoscrivere l’appello.

Abbiamo provato a contattare anche il comitato estensore della lettera rivolta al MAECI e i collettivi Cambiare Rotta e Fisica Sapienza di Roma, che però non hanno voluto rispondere alle nostre domande di approfondimento. Queste testimonianze riflettono la complessità delle opinioni accademiche sull’argomento, con una varietà di punti di vista che convergono però sul desiderio di fermare la violenza e promuovere la pace, pur riconoscendo le sfide e le implicazioni etiche della ricerca scientifica congiunta.

 

 

 

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Photo credits: masterx.iulm.it

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