La “vergogna” del RdC: abbiamo paura della povertà e ce la prendiamo con i poveri

L’esperienza di chi ha percepito il RdC e la ricerca di un team di psicologi dell’Università di Bologna: la depressione da lavoro è una patologia a sé, e il disprezzo per chi percepisce sussidi ha una motivazione precisa.

La vergogna di chi percepisce il RdC: un ragazzo col cappuccio tirato si copre la testa

Claudia vive a Manfredonia, in provincia di Foggia. Ha 37 anni e una storia che ricorda quella di tanti italiani del Sud ma non solo, fatta di precarietà, frustrazione, difficoltà economiche e di vita. È una donna fatta e finita, anche se condivide un destino di incertezze con migliaia di giovani, in un’accezione di questo termine tutta italiana, perché non indica più tanto l’età anagrafica, quanto una condizione esistenziale forzata, precaria perché senza un lavoro, o con un lavoro instabile e mal retribuito.

Claudia si laurea in Economia aziendale nel 2013 e inizia subito a darsi da fare per rendersi autonoma. “Dopo la laurea ho fatto tirocini, praticantati, ho avuto contratti di collaborazione a progetto in area amministrativa e ho girato di studio in studio cercando serietà e la possibilità di sfruttare ciò che avevo studiato”, ci racconta, “ma ho sempre trovato situazioni precarie e sottopagate, che non davano alcuna tutela, chiedendo in cambio disponibilità illimitata. D’altra parte la mia vicenda è comune al Sud, perché qui le situazioni illegali e il lavoro nero ci sono sempre stati. A me, per poter lavorare, è addirittura capitato di dovere restituire parte del compenso ricevuto. E non sono certo un caso isolato. Sono andata avanti così per sei anni, dal 2013 al 2019, passando da un lavoro all’altro e facendo veramente di tutto, dalla barista all’addetta al call center alla collaboratrice amministrativa”.

Poi arriva la pandemia e Claudia perde anche l’ultimo lavoro che aveva trovato. “A quel punto, visto che ero in affitto, non possedevo nulla e avevo tutti i requisiti richiesti per fare domanda, mi hanno assegnato il Reddito di Cittadinanza, che ho percepito per diciotto mesi, fino al 2021”, spiega. “Inizialmente mi davano 700 euro, poi mia madre ha iniziato a ricevere una pensione di invalidità, che le è appena sufficiente per coprire le spese per le medicine, e il mio RdC è stato portato a 300 euro”. Trecento euro. Vale ripeterlo perché, secondo la vulgata corrente, l’Italia sarebbe piena di persone che per non farsi scappare queste cifre imbarazzanti rifiuterebbero offerte di occupazioni meglio remunerate pur di evitare la fatica del lavoro.

La vergogna di percepire un sussidio: “Quel terrore di fare la spesa o prelevare”

Ma è davvero così? Davvero bastano pochi euro per rinunciare alla propria dignità in nome della pigrizia? Ci siamo mai chiesti come vivano la propria situazione tutti coloro che campano grazie ai sussidi pubblici o si trovano disoccupati e senza fonte di reddito?

Io avevo il terrore di fare la spesa o prelevare anche solo cinquanta euro”, racconta Claudia, “perché temevo sempre che qualche acquisto potesse essermi contestato e che quindi mi revocassero il beneficio. E poi ricordo, fortissimo, il senso di vergogna. Avevo comperato una piccola custodia per il bancomat dove tenevo la tessera del RdC e quando andavo a fare la spesa la passavo sul Pos senza tirarla fuori per non mostrarla ai cassieri. Non vedevo l’ora di trovare un lavoro per poter spezzare quella carta. Sento spesso fare discorsi che criminalizzano il RdC e chi lo percepisce. È vero che esistono persone che se ne approfittano, ma questo capita in tutte le situazioni; pensiamo ai ‘furbetti del cartellino’. Il problema è che l’INPS dovrebbe fare controlli veri e sistematici, ma questo non avviene e quindi si lascia spazio a chi sfrutta la situazione”.

E allora diciamolo: la mancanza di lavoro non rappresenta soltanto un problema economico per chi la vive, perché non ha mezzi di sussistenza, e per lo Stato, che vede impoverirsi il tessuto economico del Paese, ma anche psicologico, con enormi ricadute in termini sociali e di spesa sanitaria. Vergogna e senso di colpa: ecco i sentimenti predominanti che accomunano le persone che si trovano senza un lavoro, anche se percepiscono un sussidio pubblico. Perché a venire meno, quando non si lavora, è anche il senso di sé.

Il progetto PAD dell’Università di Bologna: la depressione da lavoro è una patologia a sé

Se ne sono resi conto a Bologna, dove un gruppo di psicologi coordinato dalla dottoressa Anna Russo, in collaborazione con la NIdiL CGIL e con la facoltà di Antropologia dell’ateneo felsineo, nel 2016 ha avviato un’esperienza pilota chiamata PAD (Progetto Assistenza Disoccupati), finalizzata a indagare i vissuti di persone disoccupate, precarie e inoccupate. Il progetto ha previsto colloqui tra i soggetti individuati e psicologi accreditati, così da iniziare un percorso di analisi delle problematiche psicologiche legate alla loro condizione sociale, e incontri con psicologi del lavoro per fare un bilancio delle competenze e favorire il reinserimento nel mondo del lavoro.

“La perdita o la precarietà del lavoro generano disturbi del sonno, sintomi psicofisici, apatia, abbattimento, difficoltà nelle prestazioni sociali, nel condurre le attività quotidiane, nel fronteggiare i problemi, senso di inutilità, tristezza, rabbia, vergogna, umiliazione, senso di colpa, perdita di autostima, autosvalutazione e percezione d’inadeguatezza: un quadro, insomma, dove l’emergere di sintomi depressivi è altamente probabile”, spiega la dottoressa Russo.

Questo interessa tutte le persone che si trovano senza lavoro, sia che percepiscano un sussidio pubblico sia, a maggior ragione, se sono disoccupati o inoccupati senza alcuna forma di sostegno al reddito. Gli effetti della mancanza di lavoro hanno un’incidenza di tipo professionale, poiché si determina una progressiva riduzione delle conoscenze e delle competenze del lavoratore; di tipo personale, perché agiscono, come detto, sull’autostima e sulla motivazione; di tipo sociale, poiché vengono minati il senso d’identità e l’individuazione del proprio ruolo all’interno della società. Ne consegue che la non-occupazione può considerarsi un vero e proprio momento di arresto e di crisi sia nello sviluppo psicoaffettivo e psicosociale della persona sia nella costruzione di una propria identità. Siamo convinti che la perdita e l’assenza del lavoro, come fenomeni generalizzati, possano costituire un campo di patologie psicologiche talmente specifiche da richiedere interventi terapeutici ad hoc”.

Il terrore di diventare poveri colpevolizza chi lo è davvero

Ma se il disagio di chi si trova in assenza di un lavoro coinvolge in questo grado tutte le sfere dell’essere, perché il fuoco incrociato contro gli indigenti, i disoccupati, i percettori di RdC?

“A nessuno piace parlare di povertà e tutti oggi abbiamo paura dei essere o diventare indigenti, i percettori del RdC ma anche chi un lavoro ce l’ha; basta guardare cosa succede alle donne, che devono chiedere il part-time per conciliare lavoro e cura della famiglia, o ai giovani che sono costretti ad aprire partita IVA pur avendo redditi bassissimi”, spiega la psicologa del lavoro Carmelina Angela Fierro. “E allora, davanti a questa realtà, la povertà diventa una paura da esorcizzare. Credo che l’accanimento nei confronti di chi percepisce il RdC si possa leggere anche come la necessità di trovare un nemico per allontanare da noi una paura profonda, anche inconscia. Abbiamo il timore di diventare poveri, ma non possiamo dirlo neanche a noi stessi, quindi dobbiamo cercare un nemico fuori di noi, che può essere chi riceve aiuti dallo Stato o anche chi crediamo ci porti via il lavoro”.

“Chi non ha un’occupazione e anche chi è in povertà patisce riflessi psicologici pesanti, perché la disuguaglianza sociale, le condizioni di vita, il modo in cui è riconosciuto dal contesto nel quale è calato, inficiano le relazioni e influenzano la salute. E così il disagio diventa cronico, l’autostima crolla, si perde la fiducia in sé e nel futuro, si entra in uno stato di ansia generalizzata. Tutto questo, che si connota come malattia, ha costi enormi, molto maggiori di quelli sostenuti per le politiche attive del lavoro. È necessario cambiare paradigma e capire che bisogna parlare di sistema sociosanitario, perché è tutto interconnesso.”

Ma torniamo a Claudia. Come è finita la sua storia? Nel 2021, da sola, senza essere mai stata contattata dal Centro per l’impiego, ha trovato lavoro. Ora fa la consulente amministrativa presso un centro estetico del suo paese, non ha dovuto lasciare la sua terra. Il suo lavoro le piace, fa ciò per cui ha studiato ed è orgogliosa di avere rimesso in sesto la propria vita. Ma il ricordo di quella vergogna, del timore di essere additata come “fannullona mantenuta dallo Stato”, non la lascerà mai.

Pensiamoci, la prossima volta che abbiamo la tentazione di criminalizzare il RdC, di colpevolizzare la povertà.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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Foto di Лечение наркомании da Pixabay

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