[VIDEO] Intervista a Roberto Pedicini: “Appartengo al mondo del suono più che a quello della parola”

Roberto Pedicini è la voce. Quella con la V maiuscola perché nel buio degli studi di doppiaggio ha donato suono ai corpi di Kevin Spacey, Javier Bardem, Jim Carrey, Woordy Harrelson e tantissimi altri.  Ha recitato alcune delle frasi più celebri del cinema hollywoodiano e oggi naviga tra la radio, il teatro e le serie […]

Roberto Pedicini è la voce. Quella con la V maiuscola perché nel buio degli studi di doppiaggio ha donato suono ai corpi di Kevin Spacey, Javier Bardem, Jim Carrey, Woordy Harrelson e tantissimi altri.  Ha recitato alcune delle frasi più celebri del cinema hollywoodiano e oggi naviga tra la radio, il teatro e le serie tv.
Lo abbiamo intervistato a Roma per il numero di Senza Filtro dedicato alla cultura del lavoro nel mondo del cinema.

Roberto, una volta hai detto che il doppiatore bravo è quello capace di annullarsi, di sparire. Che significa?

Il doppiatore deve sparire in quanto tale. Deve farlo all’interno del corpo che va a riempire con la sua voce. E in questa metafora, forse anche un po’ filosofica, si nasconde il fatto che una voce deve riempire i nervi, le emozioni, le pulsazioni del cuore, del sangue che circola all’interno del personaggio. Proprio a livello fisico. Sparire vuol dire non far venir fuori il proprio ego, vocalmente parlando. Perché io ritengo che i doppiaggi che non funzionano sono quelli legati al fatto che veniamo fuori noi con la nostra personalità, con il nostro modo di essere, di recitare o di intendere quell’emozione che andiamo a rappresentare e non vestendo il corpo e quello che ha voluto trasmettere l’attore originale. 

In questo il doppiaggio diventa un doppio tradimento. Già lo è in quanto tale, perché va a tradire un’opera che in originale può essere inglese, giapponese, tedesca o quello che vuoi; in più se noi mettiamo il nostro ego nella manifestazione del bene, del male, delle cattiverie, dell’amore, se lo facciamo a modo nostro non facciamo un buon servizio. Il più grande complimento che possa ricevere infatti è sentirmi dire: “Cazzo, l’hai doppiato tu? non ti avevo riconosciuto”. Questo è il complimento più grande che mi si possa fare: “Non ti ho riconosciuto”. È quindi fondamentale che un doppiatore non esista e che sparisca all’interno di quella figura.

Sorrido perché la metafora del tradimento l’avevi già usata in un’altra intervista dicendo che l’importante è farlo bene e che non si scopra.

Noi doppiatori siamo degli illusionisti. Tu quando guardi un film lo sai che è una doppia finzione, oggi abbiamo maturato una consapevolezza maggiore. Il doppiaggio è sempre più conosciuto e riconosciuto anche proprio come un’opera di artigianato e artistica. Io sono d’accordo, ne faccio parte da tanti anni e lo faccio con tutto l’amore che ho avuto. Mi sono sempre definito un doppiatore realizzato e non un attore frustrato che ha ripiegato nel doppiaggio. Quindi quello che ho fatto non lo rimpiango mai, anzi ne sono particolarmente felice. Detto questo, è chiaro che lo trovo un nobile tradimento e in quanto tale per me illuderti che sta parlando Jim Carrey, Kevin Spacey, Javier Bardem o Woody Harrelson – i miei attori – o Ralph Fiennes, è il mio scopo. Quando guardi il film dopo i primi cinque minuti, dieci minuti iniziali, se tu ti perdi e ti sembra che parli lui significa che sto facendo bene il mio lavoro.

Tu i film li guardi in lingua originale o doppiati? 

Se vado al cinema vado a vederli doppiati e qualche volta mi incazzo.

Quando? 

Guarda, adesso mi viene in mente un film ma non voglio citarlo in particolare perché mi sembrerebbe una critica troppo brutta, però c’erano dei bambini in questa pellicola che parlava di favelas brasiliane, quindi una roba molto vera e, se dovessimo fare un paragone alla Gomorra, avevano un accento romano. Ecco, questa cosa la trovo non credibile, non è credibile, non è reale. È proprio lì che sento il doppiaggio. Allora se mi costringi a sentire un bambino che nelle favelas brasiliane ha un accento romano non c’è un buon lavoro. 

Le serie televisive le voglio guardare sempre più in originale con i sottotitoli. 

Èd è una cosa buona che con le piattaforme on demand si è portati a vedere i prodotti in lingua originale?

Io lo faccio da quando ho i dvd in realtà, quindi da prima ancora di Sky. Spesso preferisco guardarmi anche l’originale – originale e con sottotitoli italiani – perché mi piace studiare la recitazione, mi piace vedere come è stato fatto il lavoro dall’attore. E siccome doppiamo sempre dei grandissimi attori che si sono fatti il culo per realizzare quei personaggi, per realizzare quella struttura e quella recitazione e ci hanno messo mesi di lavoro, cazzo, io penso di doverli rispettare e per rispettarli devo capirli bene. Devo sentirli. Devo far vivere dentro di me la mia parte attoriale per quel poco che la mia voce può dare riempendo i loro corpo. 

Su questo c’è la domanda centrale di tutto quello che mi sono sempre chiesto sul mondo del doppiaggio. Tu studi Kevin Spacey o Francis Underwood? 

Ogni cosa che tu vai a doppiare è la manifestazione di quel personaggio. Quindi in quel caso io studio Frank Underwood, Kevin Spacey è l’uomo ed è come dire Roberto Pedicini. Lui è l’uomo. Quindi io studio Frank Underwood, cioè seguo Frank Underwood. 

Un doppiatore fa quel lavoro di immedesimazione e studio sul personaggio? Mi viene in mente Leonardo Di Caprio che per girare Shutter Island è andato a trascorrere qualche settimana, o forse mese, in un manicomio. Un doppiatore come si prepara per restituire quel tipo di sfumature? 

In questo il nostro lavoro è prettamente tecnico. Nell’utilizzo vocale della voce tu vai a seguire tecnicamente quello che hai fatto. È chiaro che un processo di immedesimazione attoriale richiede settimane, se non mesi di immedesimazione sui personaggi, che il doppiatore non ha, non ce l’ha assolutamente. Quindi io devo riprodurre con la voce il suono, lo sforzo dell’apertura del costato del cavallo di Di Caprio in The Revenant che poi è il film dal quale ho preso anche il mio nome radiofonico. 

Perché devo pensare alla fatica interiore, alla febbre che lui aveva. Ho letto che lui ha girato quella scena a meno venticinque gradi, con quaranta di febbre e il rischio di broncopolmonite, per cui c’era un processo del dolore che lui ha voluto vivere sul suo corpo per potersi immedesimare totalmente. Noi non ce l’abbiamo. Il doppiaggio, io direi, è un lavoro, nei migliori dei casi all’ottantacinque percento tecnico e al quindici percento frutto di una parte attoriale, la parte di immedesimazione nelle emozioni vocali. È chiaro che se io devo essere dolce, gentile e amorevole, più riesco a richiamare delle emozioni che rispecchino quei sentimenti in modo vero, autentico, più sono credibile anche vocalmente. 

Probabilmente è del 1985 e ti cito testualmente: “Uscivo dallo studio di registrazione e mi sentivo davvero Mozart”. Cosa è successo? 

Ti faccio una premessa, un assunto. Quando venni chiamato per fare quel personaggio (ndr; la voce di Mozart in Amadeus, un film del 1984 diretto da Miloš Forman) io ero qui a Roma da poco tempo, da due o tre anni circa, e non avevo molti amici, anzi quasi nessuno e si viveva un po’ una competizione, diciamolo nel senso edulcorato del termine. Venivo un po’ emarginato perché comunque ero abbastanza bravo e questa cosa a volte è scomoda. Ero abbastanza da solo. 

Io poi non ho mai studiato recitazione quando ero ragazzo. Volevo farlo però poi il lavoro prese piede e cominciai a lavorare e quindi ho imparato sul campo. Quello che ho fatto per tanti anni, forse per la maggior parte degli anni della mia vita, l’ho imparato veramente lavorando e ho richiamato dentro di me un processo attoriale che poi dopo mi sono andato a studiare e quando riuscivo a dargli un nome mi dicevo “Oh cazzo, io questo l’ho fatto senza saperlo”. 

Io ho sempre creduto che noi conteniamo tutto. Sta a noi andare a rovistare all’interno di questo grande cesto che siamo e dove ci sono le emozioni, la manualità, i sensi. C’è tutto il processo della nostra vita all’interno di quello che noi manifestiamo e quindi mi sono reso conto che l’amore, l’aspetto bambino, genio di Mozart, io lo contenevo nel mio piccolo, nel mio piccolo mondo. Nel piccolo mondo del figlio unico che giocava a casa e creava le voci di altri bambini con cui giocare perché era solo, era figlio unico per cui faceva finta di giocare o altri. 

Quindi il mio rapporto con la finzione, con il mondo dell’attore è un rapporto che c’è da quando ero piccolo, ma senza saperlo, senza esserne cosciente, senza essere consapevole. E sono venuto a Roma, ho cominciato a fare il doppiaggio e già lo sapevo fare. Poi ho affinato la tecnica perché in realtà già lo sapevo fare perché il processo attoriale in realtà lo facevo già vivere dentro di me, già si trasformava. Siccome mi sono sempre sentito nella vita amato da Dio, sia nel termine proprio fideistico cristiano e sia nel termine della protezione, mi sono sempre sentito positivo. E quando noi attiriamo positività, che tu lo voglia chiamare Dio, Maometto, energia o quello che vuoi, ti arriva la roba in modo energetico, in modo positivo. Se sei così, se hai pensieri negativi, ti arriva la roba negativa. In quel momento, quando uscivo dalla sala di doppiaggio e facevo “Amadeus”, mi sentivo amato da Dio, perché questo è quello che che vivevo. E questo è quello che ho pensato quando avevo la mia borsa del judo, perché non avevo neanche zaini o palestre in cui andare.

Sei molto credente?

Ho un rapporto con la spiritualità. Non sono credente nel senso letterale del termine. Però ho dei riferimenti a Dio. A un Dio che io riconosco come tale. Ho un rapporto intelligente con Dio. 

Quando Francis sputa sul crocifisso è intelligente quel rapporto o no? Perché di sicuro è vivo come rapporto.

Beh, lì sta sputando il suo dolore. Lui sputa il suo dolore e ha rinnegato Dio scegliendo il male come un senso del potere, come una rivalsa rispetto a tutto quello che lui ha avuto da piccolo. E guarda Frank Underwood, io non so quanto Kevin Spacey abbia contribuito alla scrittura della sceneggiatura di quel personaggio, e della serie stessa, avendo letto dei fatti accaduti nella vita vera, reale di Kevin Spacey, beh, forse c’è un po’ di roba che lo riguarda. Il suo rapporto col padre è quello che Frank Underwood ha col suo. Era un rapporto simile a quello che lui ha avuto. Lui è stato abusato da suo padre quand’era bambino. Lui e il fratello, vittime di un rapporto di violenza, un rapporto anche sessualmente violento. 

Credo che tante cose lo riguardino. Quindi io penso che quando tu provieni da un dolore, da dolori così profondi nella vita, ti ritrovi anche a rinnegare Dio. Probabilmente quindi quel personaggio in quel momento stava rinnegando Dio.

Quel pezzettino di te che abita in Francis è stato scalfito in qualche modo da tutto il polverone che è uscito fuori? 

Ma guarda la vita privata di ognuno di noi è vita privata, nel senso che la mia vita privata non ne è stata scalfita. Ovviamente la mia vita professionale sì, perché lui era comunque un attore che faceva la serie televisiva, uno/due film all’anno grossi per cui professionalmente, economicamente, sì. È stata scalfita, sì. 

Vi siete incontrati a Londra, sicuramente. Immagino si sia creato una specie di feeling.

Io l’ho conosciuto, l’ho solo conosciuto a Londra e abbiamo parlato un attimo, ma lo sento molto Kevin Spacey, quando lo doppio vivo proprio un rapporto di empatia.

Perchè sai, fossi stato io, la prima cosa che avrei pensato sarebbe stata “Cazzo, impossibile”. 

Quando è scoppiato lo scandalo io ci sono rimasto malissimo. Ci sono rimasto malissimo anche umanamente devo dire perché della sua omosessualità insomma si sapeva abbastanza nell’ambiente, anche se non c’è mai stato un coming out ufficiale. Però di questa roba qui, delle molestie e di altre cose sinceramente no. Ci sono rimasto male perché oltretutto sapevo anche che lui per beneficenza insegnava recitazione ai bambini di Londra. Per cui sai, in ognuno di noi credo che abiti tutto e in alcuni momenti della vita magari vincono le situazioni più malate tra virgolette.

È un prodotto che ti sei divertito a realizzare, House of Cards? 

Sì, mi è piaciuto tantissimo. Sì perché lui, Kevin Spacey, ha per esempio questo rapporto con la telecamera e col pubblico che è strepitoso. La rottura della quarta parete lui la fa da personaggio, non da uomo. È meravigliosa. 

Io penso quello sia un momento divertentissimo.

La prima volta che l’abbiamo vista nella prima stagione, quando faceva i monologhi più frequenti, mamma mia, è stato eccezionale perché passava da una parte all’altra in un modo strabiliante. Veramente come forse pochissimi attori sarebbero in grado di fare.

La “rottura di quarta” è shakespeariana come termine. Usiamo un altro parolone colto che indica quello che fa arrabbiare me nel doppiaggio: il patto di sospensione dell’incredulità. Mi spiego. Con Spacey ci siamo: 5 minuti, l’inganno prende forma e vive. Negli ultimi film Disney invece che succede? Le canzoni e gli animali che parlano non su un cartone animato ma in CGI a me lasciano un sapore strano. A te?

Io non li ho visti, ho sentito un po’ di critiche ma sai quelle sono operazioni legate al marketing, cioè il fatto che ci sia Elisa, mi pare, quindi cantanti famosi. O Mengoni come altri personaggi pubblici di cui la gente conosce il volto e che sono molto amati e molto popolari. All’interno di quel pacchetto di doppiaggio e di canto è legato anche un merchandising, per cui loro avranno fatto interviste, avranno presenziato a prime, eccetera eccetera. Per cui è una strategia di lancio. È pubblicità.

Mi hai offerto un assist per l’altra domanda che volevo farti, quella dalla sfumatura un po’ più polemica. Ogni tanto succede che vengano buttati dentro – oltre Mengoni o Elisa che comunque sono mostri sacri della musica ma che poco hanno a vedere con il doppiaggio – anche youtuber che c’entrano poco proprio col cinema. 

Sì, ma certo! Ma questa storia poi degli youtuber per quanto mi riguarda è una cosa che non reputo artistica. Io la reputo un gioco. Se tu mi vuoi far vedere un video che tu fai a casa io ti dico che possiamo vederlo come gioco, per farci una risata ma non di più.

Perché un gioco?

Perché non lo dobbiamo valutare professionalmente.

Cosa cambia? 

Tu puoi giocare a fare una cosa e io posso giocare a fare il pilota di formula uno, mi faccio fare un video, affitto una Ferrari, vado a girare a Monza e mi faccio riprendere: “Avete visto ragazzi come sono bravo a guidare in Formula Uno, sarò un pilota straordinario!” Se mi guarda Hamilton o qualcun altro però mi dice: “Ma che cazzo sta dicendo questo?” Ed è la stessa cosa che direi io se vedessi magari te fare un doppiaggio che oggettivamente non sai fare. Nessuno però ti vieta di poter giocare. Io vorrei usare la parola giocare. Play.

To play a rule, gli americani usano proprio questa espressione, giocare un ruolo e mi piace questa metafora anche in italiano. Mi piacerebbe se noi giocassimo un po’ di più e ci prendessimo, per certi versi, un po’ meno sul serio. Ma non perché meno sul serio debba essere più superficiale, meno sul serio nel concetto astratto. Perché io trovo che la recitazione sia una straordinaria magia. È una straordinaria magia, un illusionismo meraviglioso dove io porto te pubblico a guardarmi e a far sì che tu possa piangere, arrabbiarti, rilassarti, innamorarti, cioè evocarti emozioni e sensazioni. E non è un illusionismo questo? 

È incredibile. La magia dell’attore che è lì per fare il giullare e far sì che tu ti goda in quelle due ore di spettacolo, di film, un’ora di serie televisiva, il tuo tempo libero. Il mio dovere è quello di farti star bene mentre guardi quella cosa. Non ne ho altri. 

Poi alla fine mi dovresti fare un applauso, se sono a teatro, o mi dovresti fischiare se ho fatto male il mio lavoro. Oggi non fischia più nessuno a teatro.

Forse nei festival.

Magari perché sono coperti dalla massa però una volta si fischiava quando tu non facevi bene le cose.

A te hanno mai fischiato?

Io ho fatto poco teatro devo dire la verità, poche manifestazioni pubbliche. Quelle poche volte no, grazie a Dio insomma. Sono un capricorno e con questa accezione astrologica che do alla realtà sono un rompicoglioni di me stesso. Sono molto duro, uno che si prepara, tant’è vero che questo spesso è stata anche un po’ la mia paura, il mio timore di intraprendere il mestiere dell’attore vero. 

Perché a un certo punto volevo fare l’attore e poi ho cominciato a fare il doppiaggio. È andato molto bene, ho fatto sempre doppiaggio ed è diventato la mia protezione. Quindi la mia memoria non si è mai esercitata. Non ho mai lavorato io come figura, come esterno, ma sempre nascondendomi in dei corpi e quindi alla fine per tanti anni ho fatto questo. 

Rimanendo su Youtube per un attimo, prima di lasciarlo come argomento, con una star del web però tu un video l’hai fatto. Rovazzi non è uno youtuber?

No, Rovazzi lo trovo veramente un giovane genietto, uno forte che avrà un futuro sempre più ricco ed è bravissimo, bravo a far tutto. Sa scrivere, ha ottime idee.

Gira bene. 

Gira bene, è un grande produttore anche, ha mille progetti ed è un ragazzo fantastico. Ci ho lavorato benissimo. Era molto rispettoso, educato. Il set era bellissimo, fatto da tutti i giovani intelligenti che stavano con lui. Una bella squadra.

In quel video c’è una frase, che non è quella del voice-over per intenderci, che dice: “Facciamo quella low-budget”. Nel doppiaggio succede? Anche nel mondo del doppiaggio si abbatte la scure del low budget?                                                                                                                                                                                                                 Certo che ne soffre. Tantissimo, soprattutto negli ultimi anni. Se devo dire che con l’avvento anche di questi mostri televisivi, in primis Netflix, insomma i costi si sono notevolmente ristretti e quindi anche le pianificazioni del lavoro. I planning del lavoro sono diventati molto veloci e quindi inevitabilmente la qualità ne va a soffrire.

Una serie tv che tempi ha per il doppiaggio? Quando ad esempio vediamo che esce negli States la domenica notte e da noi il lunedì successivo. Voi quando doppiate?

Il venerdì e il sabato, cioè se vanno in contemporanea si doppia settimana per settimana. Credo che la settimana dopo vada in italia la puntata che è stata mandata la settimana prima in America: queste serie qui – importanti –  vengono doppiate così; infatti, è problematico stare sempre lì a disposizione perché poi tu devi dare la disponibilità per tutto il periodo della serie.

Tutte le settimane? 

Si, certo.

Non le ricevete prima quindi? 

Il doppiatore non riceve mai nulla prima.

Ad esempio il blocco di 7 puntate. 

Nel caso di House Of Cards sì, ad esempio.

E nel caso del Trono di Spade?

No, credo di no. 

Infatti qui ho una domanda che credo possa essere interessante. Tu devi fare Kevin Spacey, House of Cards, personaggio bello scolpito che lui scolpisce benissimo. Bene o male noi lo conosciamo, tu lo conosci. Ok. 

Bolton invece, il tuo personaggio nel Trono di Spade, lì parliamo di tantissime linee narrative che si intrecciano su un asse temporale contorto. Come fai a doppiarlo se non hai una visione a 360 gradi.

Beh, una visione a tre e sessanta non ce l’hai perché il film o la serie televisiva viene tutta tagliata in piccole parti. Ma questa visione a tre e sessanta non ce l’hai neanche quando fai i film, anche quando fai la House of Cards. C’è il direttore di doppiaggio che è il regista del doppiaggio, diciamo tra virgolette, come figura che ti spiega il tuo personaggio e ti spiega tutta la linea del film. Una volt,a devo dire, fino a forse quindici-vent’anni fa, o ci davano i dvd da vedere a casa – non delle serie televisive ovviamente ma dei film – oppure talvolta ancor prima, venticinque anni fa, si facevano le proiezioni nelle sale cinematografiche degli stabilimenti di doppiaggio e venivano chiamati tutti a vedere la pellicola. 

Io ricordo ancora quella proiezione di Schlinder’s list e alle luci finali tutti eravamo pieni di lacrime, tutti piangenti con questa meraviglia che durava tre ore e mezzo, il capolavoro di Spielberg. E c’era il braccio destro di Spielberg che si è alzata e ha detto: “Signori, il lavoro sarà duro” E abbiamo lavorato per un mese su quel film.

Sei riuscito a lasciarlo fuori dalla porta dello studio quel personaggio? 

Ma sai, il doppiatore non vive mai un processo di immedesimazione, lo vive se è bravo nel momento in cui ce l’ha, cioè fa parte della concentrazione. È importante e fondamentale che abbia concentrazione. Io quando sto là davanti richiamo immediatamente la concentrazione, la concentrazione del doppiatore è una concentrazione di tempo breve. Io devo in breve tempo concentrarmi, in breve tempo incidere, in breve tempo realizzare. È tutto molto concentrato. Se vuoi c’è l’aiuto del buio e del silenzio perché vive soltanto quello che è proiettato. E nella metafora del doppiaggio siamo tutti al buio tranne il copione, che sono le parole, le protagoniste, e l’immagine, che è quella che esiste del girato. Tutto il resto è buio. Quindi in questa magica metafora io ritengo che si sviluppi tutto il nostro lavoro. Ecco perché il doppiatore non esiste, sta al buio. Ecco perché vivono solo le parole che sono parole in italiano in quel caso. Quindi l’immagine è quella reale, quella dell’opera e tu devi far sì che si concretizzi il minor tradimento possibile, nonostante sia appunto, nei casi migliori, un bellissimo e nobile tradimento. 

Il direttore del doppiaggio che fine ha fatto?

Quello di un tempo non esiste più come figura, esistono dei direttori che hanno una bella consapevolezza e una bella cura del lavoro, ma sono pochissimi oggi come oggi. Nella maggior parte dei casi c’è una grande improvvisazione e anche la figura sminuita fa parte della riduzione dei costi. E se vogliamo anche dei tempi, perché un bravo direttore di doppiaggio ha bisogno di tempi per poter fare un buon doppiaggio. Anche il più bravo direttore di doppiaggio se lo costringi a fare duecento righe a turno con quattro personaggi e deve galoppare per fare trenta anelli, anche lui deve dare l’ok dopo la seconda incisione. Perché non c’è il tempo di farne una terza, per cui dovrà accontentarsi e avrà meno tempo per costruire una scena per farmi immergere nella finzione, per spiegarmi meglio, per sentire meglio, per rivedere. Quindi è tutto legato al tempo. 

C’è una figura nella tua vita che è molto importante: Fede Arnaud. Quando dici il miglior direttore di doppiaggio ti riferisci a lei?

Beh, per me sì, però ce ne sono stati di equivalenti che io ho conosciuto meno perché lavoravano su altri fronti. Per esempio Renato Izzo era un grandissimo direttore di doppiaggio, Mario Maldesi era un altro grande direttore di doppiaggio. Fede per me è stata la mia maestra, per cui era veramente la più brava per certi versi. Poi ognuno di loro aveva una qualità. Io parlo di quelli del mio tempo, del mio tempo giovanile. Ognuno di noi aveva delle qualità. C’è chi aveva uno spiccato orecchio per la scelta sicuramente della migliore. Fede invece era una costruttrice. Quindi per me che non avevo imparato, che non avevo tecnicamente la materia, non avevo imparato la recitazione, lei mi ha insegnato tecnicamente questo lavoro in modo perfetto, perché lei era una maniaca della tecnica; quindi i campi, la distanza, il portato, l’utilizzo della voce e tutto il resto. 

Per esempio e per assurdo, del sentimento io non ne avevo bisogno perché la fantasia attoriale, la creatività, ce l’avevo. Non avevo il resto. 

Avevi fame?

È inevitabile perché quando tu ami o sei innamorato inevitabilmente ce l’hai, cioè è l’energia e il fuoco interiore. Quando tu persegui un sogno non puoi non averla. 

Quindi i giovani d’oggi non hanno sogni o non hanno cazzimma?

Secondo me hanno sogni, ma non hanno cazzimma. Hanno paura e la paura blocca.

Paura di che cosa?

La paura di non riuscire a realizzarlo, la paura di non fare. La paura di fare un salto più grande. Io ti dico che nell’82 sono venuto a Roma in modo fisso, il primo turno di doppiaggio l’ho fatto nell’80, e avevo diciotto anni. Tra i diciotto e i ventidue anni mi sono realizzato e sono entrato nel mondo del doppiaggio. Tutto questo sai che cosa vuol dire? Che io ero veramente giovane in una generazione in cui eravamo davvero molto ingenui e molto piccolini di testa, soprattutto noi maschietti che già lo siamo in generale. Eravamo ingenui ancor di più a quell’età in una generazione che non aveva internet, che viveva in un mondo non globale. Era un mondo piccolo. Io poi vengo dalla provincia, vengo da Pescara. Nato a Benevento, genitori non attori, genitori non di grande cultura. Mia madre era una sartina casalinga. Mio padre era un funzionario dello Stato e lavorava come impiegato.

Però non c’è dimostrazione più bella di una cultura di una chitarra parcheggiata sopra un armadio.

Ma si, certo, infatti io ce l’avevo. E da lì è nata la mia passione per la musica. Amavo la musica, amavo le arti e tuttora fanno parte di me. Da ragazzino volevo fare il cantante, non l’attore. Suonavo la chitarra e ho imparato a strimpellare a dieci, undici anni. Poi ho continuato a cantare e suonare. Ho cantato per strada ad Amsterdam, Stoccolma, Parigi, 

Sei stato artista di strada?

Si, ci ho vissuto anche con i soldi che guadagnavo. A Parigi io e un mio amico siamo rimasti dieci giorni in più con i soldi che facevo grazie alla chitarra. Lui andava in giro col piattino e con la tazza per i soldi e così ho cantato per strada anche a Stoccolma. Mi piace. 

Adoro questo aspetto che da una parte mi faceva vergognare e dall’altra parte mi piaceva tanto, mi emozionava cantare e riscuotevo un discreto consenso. E poi i soldini ce li davano. 

Faccio fatica a immaginarti.

Avevo una voce anche molto leggera. Cantavo Stevie Wonder, James Taylor e Pino Daniele insomma vari personaggi della mia epoca. Lucio Battisti, De Gregori. 

Da piccolo soffrivi di asma, ti ha mai dato fastidio?

No, l’asma sparì quando ero piccolo e perché avevo bisogno del mare. E il mare è l’amore primordiale della mia essenza. E proprio nella mia anima c’è l’acqua del mare, nelle mie orecchie c’è il suono delle conchiglie, nei miei occhi c’è l’orizzonte. L’orizzonte che mi dà il mare non è l’orizzonte che mi può dare la montagna. È come se la montagna mi spezzasse la linea dell’orizzonte, il mare invece mi dà una prospettiva più ampia e più larga. 

Mi fa andare sia nel passato che nel futuro. Il presente ce l’ho qua, sono qui, vivo nell’ora. Adesso e che cosa sento. E il mare mi fa vivere tutto questo. Quindi il mare per me è una grande forza, forse la mia più grande energia naturale. È il mio amore primordiale, anche il mio lavoro viene dopo. E la cosa che ho più amato nella mia vita dopo dopo il mare è il mio lavoro. lo amo ancora, lo vivo un po’ quasi come un un separato in casa, come una coppia che sta insieme da quarant’anni che magari non dorme più insieme perché l’altro russa, che si dà un po’ fastidio, che non si piace più perché l’altro si è trascurato e si è lasciato un po’ andare.

Chi si è lasciato andare?

Lui, l’altro. Il lavoro si è un po’ lasciato andare. Si è lasciato andare e non si cura più. Ma siccome l’ho fatto anche io capisco che anche lui lo può fare, possa averlo fatto e nonostante ciò lo vivo ancora. Lo vivo ancora perché il lavoro per me è l’energia che chi mi motiva quando mi sveglio anche se oggi nella mia ragione non c’è più il doppiaggio, c’è la radio.

E su quello adesso ci arriviamo perché è molto interessante secondo me. Intanto però: come fa un doppiatore a non restare schiavo di una frase molto importante che dice. Che è un po’ il complimento che dicevi tu prima: “Non pensavo fossi tu.” Johnny Depp è un attore straordinario, però il personaggio de I pirati dei caraibi l’ha un po’ fagocitato. Altri doppiatori sono rimasti sempre un po’ legati a dei ruoli. Tu hai detto delle frasi ingombranti. “Questa è Sparta” è la prima che mi viene in mente. Ecco, come si fa a non restare schiavi di una frase?

Basta dimenticarsela, basta farla tornare a essere passato. Guarda, visto che hai tirato fuori Johnny Depp io sentii un’intervista durante la quale gli chiesero “Lei li va a rivedere i suoi film?” e lui rispose “No, io non ho rivisto mai i miei film” e io invece a risentirmi qualche volta, qualche film che magari mi è piaciuto – ma non per risentire me ma perché mi piaceva il film – lo sono andato a rivedere o mi sono comprato il dvd e me lo sono rivisto. Ti dico questo perché in realtà quel che fai è andato e allora perché restare attaccato a quello? Poi tanto sono gli altri che ci restano attaccati, cioè sei tu giovane ragazzo che magari hai amato Trecento e mi dici “Madonna, mi fai sentire ‘Questa è Sparta’?” e io te la faccio e te la faccio rivivere ma te la faccio meccanicamente, cioè quel che è stato è stato e per me non ha più senso.

Te lo chiedono?

Si, mi chiedono tante cose.

E che succede?

Mi chiedono di American Beauty, il monologo finale l’ho fatto tante volte. Poi I soliti sospetti, sempre la frase finale. E che succede? È una cosa per rendere felici gli altri. Quindi lo fai per per far felice qualcuno. Facciamo un lavoro pubblico. 

Ti hanno scambiato mai?

In che senso?

Non lo so per qualcun altro.

No, mi hanno riconosciuto. 

No no, di ripetere una frase che non avevi doppiato tu.

Ah sì, certo. Il gladiatore, “Mi fai la frase del Gladiatore?”. No guarda non sono io, è Luca Ward, per dire. Però, insomma no, in generale ho fatto film che sono abbastanza riconoscibili. 

Ti diverti?

In che senso?

A doppiare, a giocare con la voce? 

Sì certo, sempre.

Te ne approfitti mai?

Ma sì scherzando sì, seriamente no.

Ci pensano gli altri perché io ormai ho una voce talmente familiare all’orecchio della gente, di tanti, di tante persone che hanno attraversato questo trentennio, che siano giovani o della mia età, più o meno ho attraversato queste generazioni, che vanno direi dai dieci anni ai quaranta-cinquant’anni ce le ho, e quindi in ognuno di loro evoco qualcosa: dal cartone animato al film importante per cui mi capita spesso. Così come alla pubblicità perché ne faccio tanta adesso anche appunto alla radio. Ci sono tante cose che fanno ricordare ormai la mia voce che è molto presente.

Gli audio libri ti piacciono?

Sì, ne ho fatto qualcuno. Mi piacciono se mi piacciono i libri che devo leggere altrimenti è una rottura recitare trecento pagine di libro. Però insomma, in genere, quando faccio un lavoro mi deve piacere nel senso che me lo faccio piacere, sposo il progetto e lo faccio. L’attore deve sposare il progetto. L’attore, il doppiatore, che sia un lettore, deve amare quello che fa altrimenti lo fai male e trasmetti quell’energia svogliata che hai dentro. Io quando faccio una cosa la devo fare bene altrimenti non la faccio. 

Credo che questo possa estendersi un po’ a tutti i lavori. Sarebbe un bel mondo quello nel quale ciascuno ama ciò che fa. Un’altra cosa che mi ha sempre affascinato è quanto voi gesticoliate in sala doppiaggio. Credo sia impossibile fare Jim Carrey restando fermi.

Certo, muovere le mani, le braccia, le gambe, senza spostarti da davanti al microfono, è sintomo di movimento e di energia. È chiaro. Il doppiatore ha la necessità di essere molto energico. Quando doppio Jim Carrey, se tu mi immobilizzi, non potrei doppiarlo. Jim Carrey è un fascio di nervi, un fascio di muscoli. Sempre e in ogni cosa, dal suo modo di camminare al suo modo di articolare. 

Hai visto il documentario su di lui?

Lo sai che non l’ho visto? 

È una figata pazzesca.

Lo so, me l’hanno detto tutti. Quello che è andato a Venezia l’anno scorso o due anni fa. Io ho visto questa sua trasformazione e adesso questa Kidding, questa serie che adesso è arrivata alla seconda stagione, la devo doppiare tra dieci, quindici giorni. 

Lui è fortissimo.

Meraviglioso, bellissimo. Adoro la sua capacità di passare dal dramma al comico, dal dramma interiore e totale che è quello che lui ha vissuto sia da bambino con la mamma malata che lo ha fatto diventare comico al suicidio della ragazza di questi anni.  

Nel documentario lui dice questa cosa. “Quando è morto mio padre gli ho messo un assegno da 10 milioni di dollari nel taschino, con la promessa che sarei andato a ritirarlo da lì a 5 anni. E quel giuramento che ho fatto l’ho mantenuto.” È un pezzo molto bello quando parla del papà.

Lo voglio vedere, adesso me lo devo procurare. Lo vedrò. 

Veniamo alla radio perché la cosa è divertente. Intanto che tipo di medium è? Perché è un formato probabilmente molto più intimo della tv o del cinema. 

Ecco forse è un paragone con un audio libro. La radio è, e devo dirlo tra virgolette purtroppo perché oggi essendoci la radio visione la gente ci può anche vedere, un mezzo dove tu non hai immagine e l’evocazione è solamente auditiva e interiore, empatica nelle parole e nei suoni. Quindi io ti porto lì ed è come il lavoro dell’attore però con un’improvvisazione in qualche modo maggiore perché in radio io faccio due ore di diretta tutti i giorni. Quindi mi sono re-inventato in un momento anche un po’ di crisi personale. Era tre anni fa, tre anni e mezzo, anche se più che di crisi avevo bisogno di concentrazione su di me e di trovarmi un po’ in certi punti, quando mi proposero questa cosa. In un primo momento mi ha un po’ impaurito. Due ore di diretta? Tutti i giorni dal lunedì al giovedì? Mamma mia, oltre l’impegno produttivo, cazzo, è difficile. Mi dissero: “Sei a ruota libera, puoi fare quello che vuoi. Scegli tu il tema, il nome del programma, il nome del personaggio”. E così il mio modo di fare rock si è trasformato in questa arca dell’arte del libero pensiero. E naturalmente, la prima immagine che viene evocata è quella di Noè.

E c’è il mare e c’è la spiritualità 

C’è il mare, la spiritualità, c’è la salvezza delle razze animali. E siccome si chiama Arca dell’arte e del libero pensiero, la salvezza delle arti, del buon costume, del buon pensiero, della bellezza in senso assoluto, generale, secondo me poteva diventare qualcosa senza pretese. Ovviamente sempre con un’ampia leggerezza che può dare un programma radiofonico mi sono messo davanti a due ore di questo tipo, dove ogni sera metto in campo un argomento che è una rotta di navigazione che noi facciamo per quelle due ore e gli spettatori scrivono audio messaggi, danno la loro opinione. Ma ho messo due paletti fondamentali: non si parla di politica e di religione e non si giudica l’opinione degli altri. Quindi è un po’ come un campo dove io ti permetto di dire quello che vuoi. Tu sei libero di fare tutto ma senza giudicare l’opinione altrui e quindi degli altri messaggi. E senza parlare di politica e di religione che sono secondo me gli argomenti che dividono la razza umana. Perché non siamo in grado di accettare la diversità e quindi la diversità politica, la diversità religiosa fa sì che due diventino nemici. Si trasformino nell’uno contro l’altro. Invece no.

Tifoserie prima e nemici dopo.

Per cui ti devo dire questa cosa: io sono un conduttore con le palle. Non perché faccia bene il dj, però sono determinato. Sono un capitano. Sono un capitano di un’arca. Sono il capitano di questa nave e questa nave va dove voglio io. Questa sera va là e ci va a quelle condizioni. Pugno di ferro in guanto di velluto. Poi sono anche molto simpatico, faccio casino, gioco, scherzo, rido.

È una missione per te?

Bravo, un po’, una piccola missione impossibile. 

Infatti c’è una dichiarazione che non ricordo precisamente ma dicesti di non esserti buttato sulla radio per motivi venali. 

A livello economico?

Sì, era un po’ un “sposo il progetto perché mi piace”.

Non è stata una scelta economica. È stata una scelta professionale e bella. Volevo rimettermi in gioco. A me piace rimettermi in gioco per delle cose nuove, per cui magari doppi di meno perché ovviamente diventando più grande hai meno personaggi, poi più sei riconoscibile e meno vieni utilizzato perché sei troppo riconoscibile, guarda caso a quel punto la fama ti precede e quindi diventa troppo e quindi molte volte non ti chiamano a fare nuovi personaggi. E comunque nuovi personaggi dell’attualità vuol dire voci da almeno quarant’anni in su e io sono in un arco vocale tra i quaranta e i sessanta, per cui è evidente che i protagonisti delle serie o dei film sono sempre giovani, il primo attore va tra i venti e i trentacinque quarant’anni, è chiaro che per me c’è una collocazione minore. Però io non l’ho mai sofferta questa cosa, perché ripeto che se non faccio una cosa ne faccio un’altra. Insegno anche, faccio la radio, faccio il doppiaggio, mi piace ogni tanto fare l’attore, faccio i reading, mi interesso di profumi, mi piace l’architettura per cui ho cose da fare e che mi piacciono. Poi mi occupo di me che è una grande impresa devo dire. Però mi piace.

Io da da un po’ di tempo oramai mi sono innamorato follemente dei podcast, li trovo una formula bellissima e ho iniziato quasi casualmente a farne uno. Senza nessuna pretesa. Lo faccio perché mi diverto. 

Immagina quante volte ci scriviamo nei social senza esserci mai conosciuti, ormai è diventata la cosa più frequente. 

La moda dei messaggi vocali cosa significa secondo te?

Per me è sempre una comunicazione emotiva e in questo sono ovviamente viziato dal mio lavoro. Cioè io se ascolto un messaggio vocale, non per giudicare quello che pensi o come lo dici, è una trasmissione emotiva che è diversa da quella puramente testuale. Cioè sento l’imbarazzo piuttosto che la confidenza, l’amicizia, il dolore, la gioia, la curiosità. Io sento sempre le emozioni che nascondono le parole e mi piace intelligere, leggere tra le righe delle parole scritte. Ecco quello che mi ha aiutato molto a fare il mio lavoro bene: intelligere, leggere tra le righe. Leggere nei silenzi.

I silenzi sono più importanti del parlato?

Non lo so però sicuramente a volte dei silenzi – Adriano Celentano insegna – trasmettono una potenza energetica enorme. Devono essere sostenuti però da un precedente e da un successivo perché altrimenti diventano vuoto, diventano un buco. Se tu in radio stai parlando e non ti viene la parola e non parli per tre secondi, quello è un buco, non è una pausa. Se io ti sospendo un pensiero con un’intenzione e sto zitto per tre, cinque secondi, anche dieci secondi, e tu che stai dall’altra parte dici : “Ma che cazzo mi devi dire, dimmi’? Che cosa mi vuoi far capire?”. Allora ha senso la pausa.

Io trovo molto bello l’approccio ai social perché credo che alla fine oggi, anche grazie a whatsapp, si scriva e si comunichi molto di più.

Io scusa, però, trovo molto brutto chi rompe il cazzo con audio messaggio di cinque, dieci minuti. Ecco, questa è la cosa che mi rompe le palle. 

Anche sulla musica si parla tanto della musica di oggi, di nuovi autori e di una nuova forma di cantautorato. Però comunque vedo un tornare al centro della parola, proprio quella con la P maiuscola. Dei testi che stanno riacquisendo importanza. Salmo ad esempio è un ragazzo che fa dei testi interessanti.

Ultimo.

Ultimo è un altro. E quindi trovo questa parola che torna sempre un po’ più al centro. Per te che la parola l’hai sposata, l’ultima domanda è: “Che cos’è la parola?”. La parola detta, intendo.

La parola detta diventa quasi un di più perché mi viene in mente ad esempio il Grammelot, quello che faceva Fo o Gigi Proietti, che riusciva senza senso nelle nelle parole, ma solo nei suoni, a farti ridere o magari sentire uno che provava delle robe. E non c’erano parole che avessero un senso compiuto. Quindi ti posso anche dire che la parola può non servire a un cazzo se ci pensi. Serve soltanto a tradurre e a far capire meglio la dinamica di un’azione, lo svolgimento di qualcosa. Poi gli puoi dare un’accezione poetica e allora puoi scrivere in un modo e quindi quella parola, a quel punto, ha quella valenza. Faccio un esempio: se scrive mia madre che ha la quinta elementare e se scrive Dante Alighieri, la parola ha due valenze di scrittura totalmente diverse. Quindi la parola, questa parola di Dante può racchiudere, come la Divina Commedia, tre livelli di scrittura e di comprensione; quella di mia madre ha la comprensione legata alla sua forma culturale, quindi la parola è cultura, forse, ma non è emozione. La parola stessa. L’emozione te la fa provare il suolo. E io faccio parte di quel mondo del suono e non del mondo della parola.

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