
L’ex presidente dell’INPS, intervistato da SenzaFiltro, critico sull’Ispettorato nazionale del lavoro: “Struttura farraginosa a cui mancano i dati. E gli ispettori lavorano male”.
Raffaella, 48 anni, è tetraplegica da 18 a causa di un incidente sul lavoro, e ha dovuto reimparare a vivere dopo essere stata impiegata come camionista, senza riguardi per la sicurezza e la sua stessa salute: turni da 15 ore senza pause, tre ore di sonno a notte. La sua storia raccontata a SenzaFiltro

Immaginate una strada di notte, un’autostrada, e un camion pieno di frutta e di verdura che, da una città del Lazio, raggiunge una del Nord. Milano, Brescia, Bergamo, poco importa. Quel che conta è che quel camion, partito da Fondi (Latina) poco prima dell’ora di cena o subito dopo, arrivi a destinazione, al mercato, entro le prime ore del mattino, in modo da garantire che la merce circoli nei posti previsti e arrivi sulle tavole di noi consumatori.
Alla guida c’è una donna, Raffaella Di Cicco, oggi quarantottenne, che il lavoro da camionista l’ha cercato, l’ha voluto, lo ama. Una parola, camionista, che al femminile o al maschile è uguale, eppure questo è un mondo in cui ancora prevalgono gli uomini, e se a guidare c’è una donna cambia tutto. Si deve dimostrare di poterci stare, su quel camion; di poter divorare quella strada chilometro dopo chilometro, minuto dopo minuto, senza esitazioni, e spesso facendo più di quanto il nostro corpo ci conceda.
Ci piacerebbe che questa fosse la storia di una donna che ce l’ha fatta, a emergere in un mondo maschile, strizzando l’occhio a una parità di genere che sembra non arrivare mai. E invece è la storia di una persona che, a causa di un lavoro che amava, si è fratturata la sesta e settima vertebra cervicale ed è diventata tetraplegica, perdendo l’uso delle gambe, delle mani, del tronco, dell’intestino e della vescica.
Oltre alle tantissime morti sul lavoro – di cui ci occupiamo nel reportage Chi resta dei morti sul lavoro – ci sono anche le storie di chi dopo un infortunio sopravvive, ma perdendo la sua vita di prima. E deve fare i conti con parti di sé che non torneranno più – non solo fisiche.
La storia d’infortunio di Raffaella inizia quasi un ventennio fa. Lei è giovane, forte, volitiva: ha 29 anni, ma già da 16 è in un mondo del lavoro in cui ha fatto di tutto, anche lavorare in serra, dove non vuole più tornare.
“Ho iniziato presto, ho fatto l’esame di terza media e stavo già al lavoro, occupazione in nero trovata da mio padre: lui non voleva che noi figlie studiassimo. Lavoravo tutto il giorno come scaffalista a 300.000 lire al mese, finché a 16 anni sono andata via di casa e, visto che quanto prendevo non mi bastava, ho cominciato a cercare lavoro al mercato ortofrutticolo all’ingrosso. Le condizioni non erano certo migliori, dalle 6 del mattino alle 7 di sera mi ritrovavo a sistemare frutta e verdura, spesso al freddo e al gelo. Non era facile per me, che ero da sola, avevo un appartamento in affitto e l’auto che mi ero comprata. Allora ho fatto un patto con il mio principale (lavoravo per una cooperativa di lavoro interinale): ‘Se dovevo lavorare come un uomo, mi doveva pagare come un uomo’”.
Ed è allora che Raffaella comincia a fare la facchina e a scaricare i camion. “Come dico sempre: prima di salirci davanti, ci sono salita da dietro”. La sua paga aumenta e acquisisce nuove competenze: “Caricando e scaricando i camion ho iniziato a guidarli per spostarli all’interno del mercato, nei vari magazzini, il tutto senza patente. Ho cominciato a fare pratica, sono stata sempre attiva e dinamica, non avevo paura”.
Lavora di giorno e la sera frequenta la scuola guida per ottenere la patente per il camion, finché non riesce a trovare lavoro come camionista. “Dico che ho l’esperienza per consegnare frutta e verdura in percorsi nazionali. Da Fondi, dove vivevo, mi fermavo per strada al mercato ortofrutticolo di Roma per caricare la merce alla volta di Firenze e Milano (o altre città del Nord). Partivo alle 7 di sera, a volte anche alle 9, e viaggiavo tutta la notte”.
Ci sono tempi ben precisi da rispettare, quel che conta è arrivare “prima che la vendita all’ingrosso finisca. Anche perché, altrimenti, la merce rischia di restare sul camion e te la detraggono dalla paga”.
Raffaella arriva a guidare anche 15 ore al giorno, a volte senza pause, giusto una sosta in una piazzola per andare in bagno o mangiare qualcosa, quando non lo fa direttamente in cabina. “Se ci sono incidenti le pause te le puoi scordare. Facevo tre viaggi a settimana e venivo pagata a viaggio, non mi fermavo mai, e nel giorno di riposo dormivo. D’altronde non potevo fermarmi: se stai fermo non guadagni, e il camion deve camminare. Inoltre, non deve mai restare vuoto: una volta concluso il viaggio d’andata, ci si ferma per alcune ore e poi si va a caricare la merce da portare giù. Per fare un esempio: potevo scaricare l’ultimo bancale alle 3 a Milano, e alle 8 dovevo caricare a Brescia, dove ci sono le insalatine. Tempo per dormire: tre ore”.
Ed è proprio mentre è in Lombardia, nella zona industriale di Bergamo, che la sua vita cambia per sempre, senza che se ne possa rendere conto.
Raffaella non è sulla strada quell’8 maggio 2007, ma è in attesa di essere chiamata per andare a caricare la merce per il ritorno. Ha guidato tutta la notte, ha dormito solo le consuete tre ore, e decide di aprire lo sportello del camion per far cambiare aria. All’improvviso tutto diventa nero. Raffaella perde i sensi, e cade dall’abitacolo sopraelevato.
A trovarla, vicino alla ruota, è il ragazzo che avrebbe dovuto dire che si era pronti per caricare, ma lei non lo è, non lo è più, davanti al suo camion è incosciente, inerme. Tutta quell’energia che ha sempre avuto ha abbandonato ogni fibra del suo corpo, come un sacco che si è svuotato all’improvviso.
Sono attimi che ricostruirà grazie alle parole di chi l’ha soccorsa, perché Raffaella non ricorda nulla. Arriva all’Ospedale Riuniti di Bergamo, dove viene messa in terapia intensiva. Delle sagome – la madre e la sorella – le appaiono mentre è incosciente, fino a che, al risveglio, arriva come un macigno la sentenza da parte di un medico, che dopo aver parlato con gli altri nella stanza si gira per dirle: “Per i danni riportati lei non camminerà più”.
“Credo di avere dato i numeri dopo quella notizia data con così poco tatto. Sono stata sedata e sono rimasta in quell’ospedale con le braccia aperte, come se fossi in croce, per 20 giorni. Mi tenevano bloccata perché non erano esperti in traumi spinali; poi sono stata trasferita all’Unità spinale del CTO (Centro Traumatologico Ortopedico, N.d.R.) di Roma, dove ho fatto otto mesi di riabilitazione”.
È lì che, vedendo tutti gli altri in carrozzina, Raffaella si rende conto che d’ora in poi alla sua vita mancheranno non uno, ma tanti pezzi, e le domande le rimbalzano nella testa: “Ora come faccio? Cosa mangio? Come faccio a campare? Pensavo anche alla mia voglia di autonomia: più l’ho cercata e più mi è stata tolta”. All’interno del CTO impara di nuovo a scrivere, a lavarsi i denti, a sopravvivere: “Nella mia testa sapevo come fare queste cose, ma le mani non rispondevano ai comandi”.
Durante i controlli del 2012 al Centro Paraplegici di Ostia conosce l’uomo con cui sta ancora adesso: “Anche lui vittima di un incidente sul lavoro, ha avuto una lesione midollare perché è rimasto schiacciato sotto un’impalcatura montata male, ma per fortuna cammina”.

Ma “la disabilità”, mi dice con una consapevolezza che attraversa tutto lo schermo che ci separa durante l’intervista, “non è solo se non ti funzionano le gambe: a me sono partiti l’intestino e la vescica. Ho un tubo sulla pancia, fisso, e andare in bagno è una spesa, tutte medicine che non ti vengono rimborsate. Senza dimenticare che l’incidente mi ha tolto la grande gioia della maternità”.
Da quel maggio del 2007 a oggi sono passati 18 anni, un lasso di tempo lungo che, come dice lei, “mi ha aiutato a fare un po’ di callo”, nel quale Raffaella ha continuato a studiare e formarsi. Si è diplomata come tecnico socio-sanitario, ha fatto il corso da formatrice sulla sicurezza, è diventata testimonial ANMIL.
“Credo molto nella formazione: penso che, se fossi stata formata, forse sarebbe andata in modo diverso. Adesso mi formo per aiutare gli altri.”
A questo punto non posso che chiederle se, tornando indietro, rifarebbe le stesse scelte: “Non mi sono mai pentita di aver fatto la camionista; mi sono pentita di non averlo fatto come si dovrebbe fare, secondo le regole, considerando le ore di guida previste, facendo il giorno di pausa. Ho iniziato per motivi economici, perché era un lavoro pagato più degli altri: poi è diventata passione, ma dai 13 ai 29 anni non ho mai fatto un corso di sicurezza sul lavoro, neanche quando ho lavorato come mulettista, eppure avevo l’attestato. Ci sono tante cose che andrebbero valutate prima di mettere una firma”.
Quando le domando cosa le manchi di più del suo vecchio lavoro, lo sguardo di Raffaella si illumina: “Immagina di notte, la musica a palla e la strada libera solo per te. Anche se in fondo sai già dove devi andare, quel viaggiare ti fa stare bene. Quella è una solitudine che scegli: stai con te stessa, rifletti, magari sogni, fai progetti. Se ci fosse un camion per disabili, lo guiderei subito”.
Oggi invece conosce un altro tipo di solitudine, quella imposta. “È la solitudine che ti impongono gli altri, gli amici che spariscono perché non sanno come avvicinarsi alla carrozzina, le conoscenze che si dileguano. A volte ho la sensazione che siano andati via tutti e che io sia rimasta qui”.
È anche per reagire a questa solitudine che Raffaella ha scelto di restare, in un altro modo, dentro il mondo del lavoro: non più alla guida di un camion, ma come voce che aiuta a far riflettere le persone.“ Prendo la rendita INAIL, da campare ce l’ho. Il senso di quello che faccio è un altro. Il mio infortunio ha cambiato il mio modo di vedere le cose. Quando vedo una macchina con una persona che risponde al telefono, soprattutto se c’è un bambino a bordo, penso che non stai rischiando solo la tua vita, ma anche quella di tuo figlio. Prima queste cose non le vedevo”.
Per Raffaella la sicurezza passa da gesti minuscoli ma decisivi, e di tutti: “Il gancio di sicurezza dei sistemi anticaduta quando si è su un’impalcatura è scomodo, e impiegare cinque minuti per inserirlo sembra una perdita di tempo, ma questo succede perché non si ha la coscienza di cosa davvero si può perdere non compiendo quel piccolo gesto. Vorrei che le persone cambiassero modo di pensare e cominciassero a vedere quello che vedo io, senza dover subire quello che ho subito io” dice. “Perché devi finire su una carrozzina per arrivare a capire che è meglio perdere quei cinque minuti ad attaccare quel gancio?”.
La responsabilità non è solo dei lavoratori, ma di tutto il sistema, che corre a perdifiato, incurante di chi lascia indietro. “La signora che si aspetta il cespo di lattuga fresco al mattino non si rende conto che dietro c’è chi ci lascia il sangue. E questo non riguarda solo la logistica, ma tutti i lavori”.
Poi aggiunge, quasi sottovoce: “Se anche solo una persona, grazie alle mie parole, riesce a cambiare il modo di fare le cose pensando a quello che potrebbe perdere, per me è già abbastanza. Una sola mi basta”.
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