La solitudine del consulente

La scena questa volta si svolge in un ristorante qualunque di una città qualunque. La sala non è troppo affollata e ci sono parecchi tavoli liberi. Del resto la zona non è proprio quella della movida; piuttosto è una periferia che confina con un’area di uffici e aziende. Una coppia al tavolo a fianco flirta […]

La scena questa volta si svolge in un ristorante qualunque di una città qualunque. La sala non è troppo affollata e ci sono parecchi tavoli liberi. Del resto la zona non è proprio quella della movida; piuttosto è una periferia che confina con un’area di uffici e aziende. Una coppia al tavolo a fianco flirta garbatamente ma nemmeno troppo, ed è abbastanza facile intuire come potrebbe terminare la serata. Due tavoli più in là ci sono una quindicina di professionisti che discutono della giornata trascorsa e si preparano ad affrontare quella successiva. Dai diversi accenti che coloriscono la conversazione si potrebbe dedurre che provengano da regioni diverse, quindi è probabile che in quei giorni ci sia una convention aziendale. Oltre i tavoli vuoti, in fondo alla sala, ci sono tre tavoli più piccoli, ciascuno occupato da una sola persona.

Con una discreta possibilità di successo si potrebbe tentare di indovinare la professione dei tre: sono dei consulenti. Potrebbero forse presentarsi, sedere allo stesso tavolo e scambiare due chiacchiere, o – perché no – condividere esperienze. Ma questo accade di rado. Quando non osservano più o meno distrattamente i comportamenti degli avventori, in una sorta di voyeurismo professional-analitico, sono spesso accompagnati da smartphone, tablet o pc portatili, che in quelle occasioni lasciano il ruolo di meri strumenti professionali e diventano i migliori compagni di viaggio possibili: utili, di compagnia solo su richiesta e silenziosi quando non interpellati. Perché una delle caratteristiche fondamentali che deve avere un consulente è la capacità di stare da solo.

 

Il consulente e la solitudine, un binomio necessario

Infatti, per quanto sia vero che passa molto tempo in mezzo a tante persone, è altrettanto vero che alla fine passa anche tanto tempo da solo. Incontrare tante persone non è sinonimo di conoscerle. Spesso sono solo di passaggio. Di certo ci sono i lunghi viaggi in auto, gli spostamenti in treno o in aereo, ottimizzati preparando la prossima offerta o gli argomenti del giorno successivo, la valigia sempre accanto che lo segue in hotel sempre diversi. Un po’ come il commesso viaggiatore di una volta, che però spesso aveva la possibilità di tornare a casa ogni sera.

Un ulteriore tipo di solitudine del consulente, non meno difficile da gestire, è quella che si vive per la difficoltà di trasmettere agli altri di che cosa ci si occupi esattamente. Perché se si nomina un medico, al di là della specializzazione, è chiaro a tutti di che tipo di lavoro si tratti. L’ingegnere potrà progettare o disegnare, sarà civile o meccanico, così come l’avvocato penalista o civilista, ma più o meno su quei mestieri ci si capisce.

Consulente” invece non è ancora (e sottolineo: ancora) un termine che connota con certezza, nonostante non si tratti certo di una professionalità nata da poco. Permane una naturale quanto inspiegabile difficoltà di comprenderne significato e ragion d’essere, e questo rende ancora più complesso raccontare a chi è lontano da quel mondo le emozioni che si vivono quando si parla con le persone, quando le si incontra, quando si trova la chiave per risolvere situazioni complesse e quali gratificazioni si possono ricevere.

Il rischio conseguente è che la percezione che arriva all’esterno, in base alla sensibilità dell’interlocutore, sia quella di una persona che va a in giro a insegnare cose. Una sorta di maestrino, che nell’immaginario collettivo è un’idea raramente abbinata a sentimenti di simpatia, e meno ancora alla produzione di qualcosa di concreto. All’estremo opposto si colloca invece l’immagine di un dispensatore di panacee universali, un depositario esclusivo di chissà quale verbo, indispensabile per il buon esito degli affari di un’azienda.

 

Da soli davanti al mercato, da soli davanti ai fallimenti

E poi c’è un’ultima solitudine, forse la più difficile da gestire: quella legata al business. Se esistono consulenti che operano prevalentemente – quando non in esclusiva – per società di consulenza, e in questo caso si tratta perlopiù di impiegati, la maggior parte sono liberi professionisti che operano sul mercato in prima persona. Il primo segreto consiste nel rendersi indipendenti invece di restare soli: perché in un contesto sempre più competitivo e sempre più popolato di concorrenza, a ogni livello e di ogni qualità, la lucidità necessaria per le proprie scelte, la capacità di vedere lungo, cogliere e anticipare i trend, costituisce un elemento distintivo, ma anche un’irrinunciabile garanzia di sopravvivenza. Anche perché spesso il proprio “materialenon è coperto da diritto d’autore, e si resta sul mercato solo attraverso la capacità di innovare continuamente invece di specializzarsi come riscaldatori di minestre, che seppure impiattate come Masterchef insegna, sempre tali resteranno nel sapore.

Quando le cose non vanno nel modo in cui si era ipotizzato, come a volte accade, non c’è nessuno con cui prendersela, un capro espiatorio ideale o reale su cui proiettare all’esterno un fallimento. È il momento in cui il consulente si confronta con se stesso, e non ci sono scuse. È il momento in cui si è davvero soli.

Per amore dell’onestà intellettuale, voglio fare una confessione in zona Cesarini. Forse i consulenti non li avevo mai capiti fino in fondo, e meno ancora ne avevo percepito questi aspetti. Anzi: se devo essere sincero, armato di superficialità durante la selezione, non li ho mai amati e basta.

Ora provo a ricordarmelo sempre quando lo faccio.

 

Foto di copertina by Kae Ng on Unsplash

 

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