Il crepuscolo della DEI: nelle aziende sempre meno Diversità, Equità e Inclusione

Tempi cupi per Diversità, Equità e Inclusione, per effetto delle pressioni di governi e aziende internazionali. Ma che cosa rischia di perdersi insieme ai programmi DEI, e come vivono il lavoro i componenti della comunità LGBTQIA+, in Italia? Le testimonianze di attivisti, formatori e associazioni

16.05.2025
DEI, Diversità, Equità e Inclusione: caschetti colorati isolano un caschetto arcobaleno

Ci sono sempre meno soldi destinati ai programmi di inclusione e alla diversità. Da quando l’amministrazione Trump ha detto di voler tagliare i fondi ai programmi DEI (Diversity, Equity, and Inclusion) negli Stati Uniti, le aziende – specie le multinazionali – hanno rivisto la propria posizione; a peggiorare lo scenario, la scelta di Trump di rimarcare la sua idea di binarismo di genere, e quindi di cancellare di fatto l’identità transgender e non binary. Come quasi ogni tendenza che arriva dagli Stati Uniti, anche i Paesi occidentali ne subiscono l’impatto. Le compressioni dei diritti civili non sono una novità e la comunità LGBT+ le vive ogni giorno, ma quando hanno un effetto sulle aziende diventano ancora più difficili da contrastare.

Come la DEI sta sparendo dalle aziende: effetto Trump?

“È un vero e proprio ricatto”, dice Lucia Urciuoli, riferendosi alla posizione assunta dalla Casa Bianca. Da tempo esperta nella comunicazione strategica e nello sviluppo istituzionale, ora Urciuoli è presidente di EDGE, un’associazione che riunisce manager, professionisti, imprenditori e imprenditrici LGBTQIA+ e alleati, impegnata nella promozione dei diritti e dell’inclusione sul posto di lavoro. Spiega che la scelta dell’amministrazione Trump deriva da una convenzione, ovvero che i programmi di inclusione non siano solo contrari alla morale e alla religione – come sostiene la Russia – ma che siano anche opposti alla libertà di espressione e di concorrenza.

“Secondo loro, laddove applicati nei luoghi di lavoro e di impresa, produrrebbero delle alterazioni competitive a discapito di tutti gli altri” dice. Secondo Urciuoli, quindi, i programmi DEI sarebbero finiti sotto i riflettori di una “destra unitaria reazionaria” che ha compreso come le lotte per l’emancipazione negli ultimi decenni in tutto il mondo “abbiano cominciato a erodere i privilegi che tenevano fuori dalle condizioni di uguaglianza sociale e di libertà civile tutte le minoranze”.

Si tratta di un cambio di rotta significativo. Nel corso degli ultimi quarant’anni, infatti, soprattutto nelle aziende statunitensi (e successivamente in Europa) è cresciuto un numero di soggetti imprenditoriali che ha capito come combattere le discriminazioni all’interno delle organizzazioni fosse non solo giusto, ma anche salutare. Ora, per la comunità LGBT+ e per le realtà interessate alla promozione delle politiche DEI, i Paesi occidentali stanno facendo un grande passo indietro.

Secondo AGEDO, dall’inizio dell’anno soltanto tre aziende hanno richiesto programmi di formazione, rispetto alle cinquanta del 2024.

Le aziende più vincolate dalle scelte dell’amministrazione Trump sono le dirette fornitrici della Casa Bianca, e in seguito il peso di queste decisioni ricade a cascata su tutte le altre: prima Amazon, poi Tesla, Meta, Disney e altre. Ma non tutte sono convinte che rinunciare alla DEI sia la strada migliore.

Urciuoli spiega che ci sono molte aziende che negli USA e in UE stanno riflettendo su quale sia la scelta migliore da fare; una fetta di imprenditori europei è convinta che questo sia il momento migliore per promuovere la diversità e l’inclusività nelle proprie aziende, perché così facendo sarebbe in grado di intercettare i bisogni di chi invece non si sente in linea con l’amministrazione Trump. In più, spiega Urciuoli, molte aziende si stanno rendendo conto che il costo di una marcia indietro potrebbe essere più elevato di un mantenimento dello stato attuale della policy.

“Ci sono tra l’altro aziende che hanno consolidato modelli di business in cui la DEI è un pezzo del loro posizionamento. Tantissimi attori stanno cominciando a pensare di spostarsi dagli Stati Uniti, creando un’occasione per l’Europa di attrarre talenti STEM e ricercatori.”

La comunità LGBT+ e il lavoro in Italia: problemi una volta su due

Per ora i numeri però non fanno ben sperare, se diamo un occhio allo stato delle discriminazioni nei confronti della comunità LGBT+ in Italia.

Secondo l’ultima indagine esplorativa ISTAT-UNAR, pubblicata a fine 2024 e relativa all’anno precedente, un’inversione di rotta è ancora lontana. Se è vero che negli ultimi anni l’inserimento delle persone trans e non binarie nel mercato del lavoro è aumentato – portandosi al 65,3% in piena occupazione e a un ulteriore 20,6% che ha avuto esperienze lavorative in passato – più della metà (il 57% circa) dichiara che l’orientamento sessuale avrebbe rappresentato uno svantaggio in termini di carriera, riconoscimento professionale o retribuzione. Tra questi, circa il 40% avrebbe subito episodi di discriminazione (mancati avanzamenti, rifiuto di congedi o incarichi svantaggiosi), mentre circa il 37% sarebbe stato vittima di un clima ostile o micro-aggressioni, come l’uso scorretto di pronomi o deadname, ovvero il nome anagrafico originario che non corrisponde più alla propria identità di genere.

Sono le stesse difficoltà di cui parla Francesca Paris, che ha affrontato la transizione biologica e legale, ovvero il cambio di genere e, in seguito, dei documenti.

“Se non arrivi a compiere un cambio anagrafico le cose diventano devastanti. E non si può dire che chi lo ha fatto viva nel Paradiso” dice Paris, che ammette come questa convinzione sia una delle più grandi illusioni di chi fa un percorso di transizione e lo porta a termine. È preoccupata perché è convinta che le cose peggioreranno sotto il profilo lavorativo: “Con l’attuale scenario avremo un incremento della prostituzione trans, anche se nessuno ammette che se c’è un aumento è perché la domanda è molto alta”.

In ogni caso, non ha mai voluto incentrare la sua personalità e la sua vita sulla transizione. Una volta preso il diploma da stilista, Paris è diventata una delle prime donne trans a entrare nelle scuole a insegnare. Ancora si chiede se ciò sia accaduto per fortuna o per via della preparazione del dirigente scolastico. In ogni caso, la sua preparazione e competenza sono state così preponderanti, che chi l’aveva come docente non ha mai basato il proprio giudizio sulla sua storia personale.

“Ho fatto tanti lavori per potermi mantenere gli studi, nel momento in cui ero in transizione. Di difficoltà ne ho avute tantissime, anche nei settori che sono più aperti all’inclusività”, ricorda. Non tutte le persone trans però hanno una personalità così forte, spiega Paris. In più, l’accesso al mondo lavorativo è reso difficile da un’idea tossica che i media offrono della comunità LGBT+. Ecco perché per Paris è fondamentale che i media ora si impegnino più mai nel fare una corretta informazione. Lei ci dice di fare il suo, da attivista, e spiega che ogni volta ci tiene a sfatare il mito per cui la sua scelta sia uno sfizio: “Mi chiedo chi sia il pazzo in grado di sottoporsi a un intervento di cinque ore sotto ai ferri per moda” dice. In più, sostiene che per le persone trans è fondamentale lo studio e la conoscenza dei propri diritti. L’obiettivo infatti dovrebbe essere di prepararsi a tal punto da non permettere che qualcuno se ne approfitti.

“Da cinquanta aziende a tre”: il grande freddo sulla formazione DEI

Anche perché gli effetti degli ordini esecutivi di Trump si vedono già in Italia. Il coordinamento del Milano Pride infatti ha comunicato che in questo momento si respira un clima di raffreddamento generale da parte delle aziende nei confronti delle proposte legate alla DEI. Dall’organizzazione del Roma Pride, che abbiamo contattato, ci ha risposto Mario Colamarino, presidente del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli.

“Nelle realtà con cui lavoriamo direttamente non abbiamo percepito segnali negativi. Anzi, molte ci stanno dimostrando una volontà ancora più forte di esserci, di sostenere pubblicamente i valori del Pride e di agire in coerenza con le politiche inclusive”. Il quadro quindi è complesso e sembrerebbe attualmente poco certo. Colamarino comunque ci dice che l’impegno delle aziende non si esaurisce il giorno della parata, ma che prevede eventi, iniziative e momenti di formazione durante tutto l’anno.

Proprio su quest’ultimo aspetto però, Donatella Siringo e Anna Maria Fisichella, rispettivamente presidente e vicepresidente di AGEDO nazionale, esprimono preoccupazione per via di un calo del numero di aziende che richiede corsi di formazione per i propri dipendenti su queste tematiche.

“Prima formavamo le aziende grazie anche alla collaborazione con Parks – Liberi e Uguali” spiega Fisichella, e aggiunge: “Parlavamo di ferie per i viaggi di nozze per coppie con le unioni civili, la parità nella genitorialità anche nelle coppie omogenitoriali, la possibilità di avere l’identità alias per le persone transgender”. Ora la situazione è cambiata, in maniera così evidente che Siringo racconta come siano soltanto tre le aziende che hanno richiesto una formazione dall’inizio dell’anno, rispetto alle cinquanta del 2024: “C’è una differenza che non può non saltarmi all’occhio” dice. E Fisichella aggiunge: “Le aziende si possono trovare contrarie dal punto di vista ideologico, ma se non vogliono chiudere sono costrette a non portare avanti i programmi DEI”.

Manifestazioni e reti nazionali. La reazione dell’universo LGBTQIA+

In questo scenario, la grande difficoltà sta nel creare una rete collaborativa tra le realtà che si occupano di promuovere i programmi DEI, anche se, a livello di attivismo, una risposta alla compressione dei diritti civili arriva con l’organizzazione di una manifestazione che si terrà a Roma il 17 maggio, con l’obiettivo di dimostrare ai governi reazionari internazionali che le comunità discriminate non stanno a guardare.

“Bisogna capire che investire sulla DEI significa promuovere i talenti delle persone, e di conseguenza la capacità produttiva dell’azienda ” spiega Manuela Macario, responsabile nazionale Arcigay per le politiche del lavoro: “È la chiave di volta che deve smuovere gli imprenditori”.

C’è una correlazione positiva tra inclusione LGBTQIA+ e sviluppo socioeconomico: i territori più inclusivi, infatti, sono in media più ricchi del 61%.
Dati del rapporto Tortuga-EDGE sull’Inclusione LGBTQIA+ e lo sviluppo economico locale

I tentativi di sensibilizzazione esistono. Uno di questi è stato realizzato proprio da Macario: il Diversity Netw@rk. Si tratta di una rete di aziende attente all’inclusione e alla diversità. Ma quali sono stati negli anni i risultati più concreti ottenuti da questa piattaforma? La costruzione di un insieme di aziende “per cui prepariamo pacchetti e incontri formativi” e la futura realizzazione di un’academy, con l’obiettivo di arrivare al 2026 con una rete di formatori presenti in tutto il territorio nazionale. “Non una rete che ha lo scopo di dare un bollino di qualità” precisa Macario, perché il rischio sarebbe di incappare in fenomeni di rainbow washing, ma “di sollecitare le aziende a fare al proprio interno delle azioni di diversity”.

La DEI conviene: i territori inclusivi sono più ricchi

Ma in che modo Arcigay fa formazione aziendale sulla DEI? I piani su cui si lavora in genere sono due: una base di alfabetizzazione, necessaria per capire di che cosa si parla e che significato hanno i termini che si utilizzano, per poi agire sul piano di stereotipi e pregiudizi sociali, quindi eteronormatività e binarismo di genere. In secondo luogo, si passa alla decostruzione dei concetti di eteronormatività e binarismo per ricostruire una nuova struttura di pensiero.

“Quello su cui lavoriamo è il nostro bias inconscio, che colpisce soprattutto le persone LGBT+, perché le inserisce in dinamiche in cui la loro realtà viene meno” spiega Macario. In alcuni casi è escludente, come per le persone trans, in altri è molto difficile. Molti ritengono che non sia necessario dichiarare il proprio orientamento sessuale sul posto di lavoro, però, come sottolinea Macario, dovrebbero riflettere su quante informazioni personali si trasmettono comunque ai colleghi durante la condivisione della maggior parte della giornata.

Ma fare DEI non è soltanto parlare di inclusività e diversità all’interno delle aziende. Non sono solo diritti civili, ma anche sociali, e crescita economica sostenibile. Urciuoli infatti cita il rapporto 2024 sull’Inclusione LGBTQIA+ e lo sviluppo economico locale, curato da Tortuga con EDGE e il supporto di SACE. L’indagine mostra un quadro interessante: c’è una correlazione positiva tra inclusione LGBTQIA+ e sviluppo socioeconomico; i territori più inclusivi, infatti, sono in media più ricchi del 61%. Inoltre non solo l’Italia è rimasta stabile a livello di attrattività e sta perdendo posizioni in termine di inclusione, ma dal 2017 sempre più persone LGBTQIA+ scelgono di vivere in posti dove si sentono accolte e rispettate. Un segnale preoccupante è il fatto che AGEDO abbia provato, senza riuscirci, a farci parlare con un figlio di una famiglia dell’associazione: lavorano tutti all’estero.

 

 

 

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Photo credits: binclusive.it

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