
Consumare carne in modo sostenibile si può, ma è una richiesta che deve partire dai consumatori: qualità al posto della quantità. L’opinione di Pietro Sardo di Slow Food, Elisa Bianco di CIWF e Arnaldo Santi di Fumagalli Salumi.
Tod’s e Cucinelli sono solo gli ultimi due esempi di un sistema industriale che fa dei valori la cifra della sua comunicazione.
Basterebbe rispettarli, coerentemente.
La Procura di Milano ha chiesto l’amministrazione giudiziaria per Tod’s S.p.A., il marchio di lusso fondato da Diego Della Valle con un fatturato 2023 di 1,12 miliardi di euro. L’accusa, coordinata dal PM Paolo Storari, è di aver agevolato “fenomeni di caporalato” in alcuni opifici cinesi tra Milano, Pavia e le Marche, dove sarebbero state riscontrate “condizioni di lavoro ottocentesche”: paghe da fame (2,75 euro l’ora), lavoro notturno e festivo, luoghi fatiscenti dove si lavora, si mangia e si dorme, macchinari privi di sistemi di sicurezza.
La vicenda si complica per questioni di competenza territoriale. Il Tribunale di Milano, pur confermando in parte il dolo dell’azienda, ha sollevato perplessità sulla competenza, rimandando il caso ad Ancona, senza che nessun giornale faccia notare o trasmetta l’ imbarazzo di questa scelta, che comprometterebbe l’esito dell’inchiesta, considerando il territorio in cui l’impresa conduce e produce.
Tod’s, non formalmente indagata, risponde di “carenze organizzative” e “mancati controlli” che avrebbero agevolato colposamente lo sfruttamento. I dati sono inequivocabili: una tomaia prodotta da un operaio sfruttato costa 14 euro, il mocassino Tod’s si vende a 690 euro.
Quella di Tod’s non è una storia isolata, ma l’ennesimo capitolo di un copione ormai noto. Negli ultimi anni, le grandi maison del lusso hanno costruito imperi di comunicazione sui valori ESG: sostenibilità, attenzione alle persone, etica del lavoro, rispetto della filiera, bilanci di sostenibilità patinati. Campagne pubblicitarie che sfiorano con grande disinvoltura una comunicazione che tratta di “capitalismo umanistico“, “umana sostenibilità“, affidata ad agenzie alla milanese, sempre meno creative e sempre più omologate al desiderio del cliente, non solo padrone, ma in molti casi anche creativo, storyteller, sceneggiatore di se stesso.
La pubblicità del Parmigiano Reggiano di qualche anno fa, con il povero Renatino orgoglioso di lavorare 365 giorni all’anno, non deve aver insegnato niente a nessuno.
E poi certificazioni ambientali e sociali esibite come medaglie al valore, che diventano patacche quando i Carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro entrano negli opifici della filiera e la realtà che emerge è ben diversa: Dior, Armani Operations, Alviero Martini, Valentino Bags Lab, Loro Piana. Tutti giganti del lusso, tutti finiti sotto la lente della Procura di Milano, tutti con la stessa dinamica: subappalti su subappalti, opifici-dormitorio gestiti da imprenditori cinesi, lavoratori pagati una frazione del dovuto, orari massacranti, sistemi di sicurezza rimossi per “aumentare la produttività”.
Il caso più emblematico di questa dissonanza cognitiva è quello di Brunello Cucinelli (che nulla ha a che fare con le inchieste del PM Storari), l’imprenditore-filosofo che ha fatto della retorica del “capitalismo umanistico” il proprio marchio distintivo. Discorsi sulla dignità del lavoro, citazioni di Kant, conferenze al G20 sulla sostenibilità morale. Poi, a settembre 2025, arrivano le accuse di Morpheus Research e Pertento Partners: nonostante le dichiarazioni pubbliche, Cucinelli continuerebbe a vendere in Russia prodotti oltre la soglia consentita dalle sanzioni europee, attraverso una complessa rete di triangolazioni commerciali. Negozi teoricamente chiusi ma operativi, merce prodotta nel 2024 e 2025 (ben dopo le sanzioni) venduta a Mosca per migliaia di euro, sconti aggressivi per smaltire scorte gonfie.
Quando i valori proclamati si scontrano con i numeri reali, emerge la verità: la sostenibilità è diventata uno strumento di marketing, un lucido strato di vernice verde sopra pratiche che restano immutate. Non importa quanti report ESG si producano se, alla fine, il modello di business si basa sullo sfruttamento sistematico di chi sta in fondo alla catena produttiva.
Quello che emerge dalle indagini della Procura di Milano non sono “mele marce” in un sistema virtuoso, ma un sistema consolidato e diffuso. L’utilizzo di “serbatoi di manodopera” attraverso subappalti opachi è una strategia industriale precisa: permette alle grandi maison di mantenere margini di profitto straordinari (il 60-70% sul prezzo finale) scaricando tutti i rischi e le responsabilità su imprenditori intermediari, spesso connazionali dei lavoratori sfruttati.
La dinamica è sempre la stessa: l’azienda del lusso affida la produzione a una società esterna, che a sua volta subappalta ad altre ditte, che a loro volta utilizzano cooperative o ditte individuali. A ogni passaggio si perdono tracciabilità e responsabilità. I controlli? Formali, burocratici, facilmente aggirabili. Come scrive il PM Storari nel caso Tod’s, l’azienda stila “importanti raccomandazioni di controllo” nell’aprile 2024, ma queste “alla data dell’ispezione non sono state minimamente prese in considerazione dall’appaltatrice, né tantomeno Tod’s ha provveduto a controllarne l’applicazione”.
Non è ignoranza, è strategia. E il risparmio è colossale: pagare un operaio 2,75 euro l’ora invece del minimo contrattuale, fargli lavorare 12-14 ore al giorno senza riposi, non versare contributi né rispettare norme di sicurezza significa abbattere i costi di produzione del 50-70%. Questo è ciò che permette a un brand del lusso di restare “competitivo” pur mantenendo margini così elevati.
Gran parte della stampa economica, soprattutto quella che vive di pubblicità dai grandi marchi, ha dipinto Paolo Storari come un magistrato “giustizialista”, un PM che “stressa” le imprese con inchieste creative, che “inventa” reati dove non ci sono, che usa “il bastone” dei sequestri per costringere le aziende ad assumere e pagare di più.
Il Foglio si è distinto in questa operazione di delegittimazione con una serie di articoli dal tono sarcastico e ostile. Nel novembre 2023 titolava: “A garantire il salario minimo agli italiani alla fine sarà la procura di Milano”, accusando Storari di “ricattare” le aziende. Nel maggio 2025, con cinismo ancora più marcato, proponeva: “Il PM Storari ha trasformato la procura di Milano in un’agenzia del lavoro. Perché non invitarlo al Concertone?”. Nel luglio 2025, intervistando l’avvocato delle imprese indagate, parlava di “giustizia creativa” e di un magistrato che tratterebbe le multinazionali “come banditi”.
La narrazione è sempre la stessa: Storari agirebbe senza base normativa, imponendo alle aziende obblighi che la legge non prevede, usando lo strumento penale per fare politica del lavoro. Le multinazionali, secondo questa visione, sarebbero vittime di un eccesso di zelo giudiziario, loro che “hanno sistemi di compliance molto avanzati” e sono “sempre ben disposte a migliorare”.
Ma questa ricostruzione ignora volutamente i fatti. Quando Storari ha interrogato i lavoratori sfruttati, quando i Carabinieri hanno ispezionato gli opifici-dormitorio dove si lavora 24 ore su 24, quando sono stati sequestrati i documenti che dimostravano paghe da schiavi, non si stava facendo “giustizia creativa”. Si stava applicando la legge contro il caporalato (art. 603-bis c.p.) e contro l’agevolazione colposa dello sfruttamento lavorativo.
Il PM Storari ha avuto modo, durante un’intervista che ho condotto personalmente a Nobìlita, il Festival della Cultura del Lavoro, di spiegare con precisione e umanità il senso del suo mestiere. Non si tratta di perseguitare le imprese, ma di riequilibrare un sistema dove migliaia di persone vivono in condizioni inaccettabili per permettere a pochi di guadagnare miliardi. E i risultati parlano chiaro: grazie alle sue inchieste non solo sono stati regolarizzati centinaia di lavoratori tenuti nel precariato, ma le aziende che hanno intrapreso percorsi virtuosi di assunzioni dirette e controlli sui subappalti hanno anche migliorato notevolmente i loro fatturati, dimostrando che legalità e redditività non sono incompatibili.
Il caso del Foglio è solo un esempio (fra l’altro nemmeno il più eclatante) sintomatico di un giornalismo sempre più embedded, troppo accondiscendente verso il sistema industriale (come quello politico) che invece dovrebbe controllare. Gli articoli seguono tutti lo stesso schema: interviste agli avvocati delle imprese indagate (mai ai lavoratori sfruttati), citazioni di esperti che parlano di “disorientamento delle multinazionali” (mai delle condizioni di chi lavora 14 ore al giorno), critiche alla “mancanza di certezza del diritto” (mai all’assenza di controlli reali sulle filiere).
È un modello giornalistico che pone sullo stesso piano l’azienda che fattura un miliardo e l’operaio cinese che dorme in un container accanto alle macchine da cucire. Anzi, che presenta il primo come vittima e il secondo come semplice dato statistico. Non stupisce: quando i budget pubblicitari dei grandi marchi del lusso pesano così tanto sui bilanci degli editori, diventa difficile mantenere quella distanza critica che dovrebbe caratterizzare il giornalismo. Si preferisce parlare di “eccesso di panpenalismo” piuttosto che di schiavitù moderna. Si preferisce invocare la “libertà d’impresa” piuttosto che la dignità del lavoro.
Peccato che, come ci ha insegnato la storia, la libertà di alcuni non può fondarsi sullo sfruttamento di altri. E quando il sistema non si autoregola, quando le certificazioni diventano carta straccia e i codici etici rimangono nei cassetti, diventa necessario l’intervento della magistratura.
La domanda vera, a questo punto, non è se Storari stia facendo un lavoro giusto o eccessivo. La domanda è: perché ci vuole un magistrato per costringere aziende miliardarie a rispettare la legge? Perché servono sequestri da centinaia di milioni per far sì che un’impresa paghi i suoi fornitori, in modo che questi possano pagare dignitosamente i propri lavoratori?
Il mercato del lusso ha costruito la propria fortuna sulla narrazione dell’eccellenza, della qualità, del Made in Italy. Ma quel Made in Italy nasconde troppo spesso condizioni di lavoro indegne di un Paese civile. E finché i consumatori continueranno a credere alle belle storie raccontate nelle campagne pubblicitarie, finché gli investitori si accontenteranno dei report ESG prodotti dalle stesse aziende, finché i giornali economici difenderanno le imprese invece di controllare il potere, questo sistema continuerà a prosperare.
Tod’s, Cucinelli, Dior, Armani, Valentino, Loro Piana: non sono eccezioni, sono il sistema. E il lavoro del PM Storari non è quello di un giustizialista, ma di chi ha deciso che la legge vale per tutti, anche per chi fattura miliardi vendendo borse e scarpe.
La sostenibilità vera comincia quando si smette di raccontare belle favole e si inizia a controllare i numeri. E intanto, la ministra del Lavoro anche questa volta non si espone.
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