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Il tampone per il CoronaBusiness
Gentile Cliente, con questa email desideriamo confermare la nostra solidarietà e vicinanza alla vostra azienda e alle vostre famiglie. Qualora voleste confrontarvi sul recruitment, dalla comunicazione con i candidati all’analisi dei trend del mercato, il nostro team è a vostra completa disposizione. Aiutateci ad aiutarvi in questo momento difficile. Il nostro Paese ha sempre dimostrato, […]
Gentile Cliente,
con questa email desideriamo confermare la nostra solidarietà e vicinanza alla vostra azienda e alle vostre famiglie.
Qualora voleste confrontarvi sul recruitment, dalla comunicazione con i candidati all’analisi dei trend del mercato, il nostro team è a vostra completa disposizione. Aiutateci ad aiutarvi in questo momento difficile.
Il nostro Paese ha sempre dimostrato, di fronte alle difficoltà, di sapersi rialzare con forza e orgoglio. Ce la faremo anche questa volta e saremo più forti di prima.
#andratuttobene
Due righe di empatia, due righe di vendita goffamente mascherate da gratuità, di nuovo due righe di empatia e poi un colpo secco al CRM.
Me lo immagino il direttore marketing, soddisfatto e tronfio per questa bella operazione generata da 4-5 meeting con il board della Country, che dopo aver approvato il testo rivisto almeno 4 volte e mandato in approvazione al suo capo in qualche Paese Worldwide per accertarsi che sia allineato alle policy di Gruppo, si rivolge orgoglioso al suo team: “Inviamo!”. Fiero di aver scritto un poema epico e pronto a salvare il mondo.
Evidentemente chiuso in una bolla autistica da non essere a conoscenza che una comunicazione del genere non solo non porterà alcun risultato, ma è ampiamente fuori luogo, fuori target, fuori contesto, fuori.
Questo periodo di sospensione è un’occasione straordinaria per osservare e osservarci. La calma che ci circonda intorno, la decelerazione, il tempo risparmiato da trasferte e riunioni ci sta insegnando la qualità del lavoro e delle relazioni (per chi ha voglia di imparare, si intende), ci sta svelando come siamo fatti ma soprattutto come sono fatti coloro che ci circondano e lavorano con noi e per noi.
I social per la prima volta ci stanno restituendo l’anima delle Persone; accanto alle migliaia di pizzaioli e panettieri improvvisati che hanno tenuto banco nelle prime settimane si sta lentamente affiancando una moltitudine di riflessioni sulla qualità del tempo e del lavoro. In tanti si stanno chiedendo se certe modalità operative non possano resistere anche dopo il ritorno alla normalità e se, una volta superate le evidenti difficoltà di un’economia messa in ginocchio a livello mondiale, guarderemo con distanza e diffidenza a certe pratiche cicatrizzate da anni di cattivi maestri, manager sbagliati, esempi non sostenibili, formazioni inutili, modelli malamente importati dall’estero, business malati e, soprattutto, relazioni di puro interesse.
La prima diagnosi: farmacisti e fornai
I primi sintomi da sospensione sono stati registrati nel commercio.
Il bene primario in assoluto (guanti, mascherine e presidi sanitari) sono spariti dalle farmacie e dai siti on line in meno di 24 ore. Parlando con alcuni medici con cui sono entrato in contatto per l’organizzazione di una campagna di donazioni, mi è stato detto che le mascherine chirurgiche sono passate da 10 centesimi a 4 euro, mentre quelle filtranti da 65 centesimi a 20 euro. I fornitori e le aziende produttrici non hanno dunque pensato di investire sul raddoppiamento della produzione (e dunque magari su maggiori assunzioni temporanee), non hanno pensato di incentivare l’e-commerce e i back office commerciali.
É stato più semplice triplicare o quadruplicare i prezzi.
Hanno vinto mulini e fornai che si sono attrezzati a tempo di record con vendite on line offrendo consegne a domicilio anche solo attraverso ordini telefonici o email. Stesso prezzo, decuplicazione di fatturato, investimento minimo.
Piazzatori di Consulenze
I fornitori di servizi di consulenza, piattaforme e formazione si sono immediatamente fatti riconoscere. Non è stato difficile individuare chi, in maniera davvero rispettosa, nella migliore delle ipotesi ha pensato di fare una telefonata ai loro clienti più importanti solo per farsi sentire, per far capire che si è presenti anche quando non si ha niente da vendere e che le relazioni hanno un senso anche in tempi di sospensione (che continuerò a chiamare così, perché la tiritera del “ai tempi del Coronavirus” ha un po’ stufato). Nella peggiore delle ipotesi, hanno mandato un whatsapp per non disturbare.
Dall’altro lato, tutti quelli che non hanno perso l’occasione di fare “vendita” con email massificate (vedi incipit di questo articolo) che chiunque ha imparato a riconoscere, con finti messaggi di empatia per poi proporti un servizio “gratuito” (non prendiamoci in giro, stai sfruttando il momento per raccogliere dati e poi fare pushing quando sarà).
I datori di lavoro, le Associazioni di Categoria, la politica
Nel dilemma dello smart working e delle fabbriche aperte si giocheranno i premi fedeltà dei prossimi mesi, se molti dipendenti, non sentendosi tutelati nemmeno di fronte alla morte, decideranno di accettare offerte di competitor e altre aziende. Continuiamo infatti a registrare decine di migliaia di persone che ogni mattina, a partire dall’epicentro del focolaio fino ad estendersi anche in altre regioni sebbene in maniera minore, prendono mezzi pubblici o girano per le strade per andare a lavorare. Ne abbiamo parlato ampiamente e continueremo a farlo.
Tuttavia è deprecabile l’atteggiamento di datori di lavoro che ancora non danno il via libera ai collaboratori che possono tranquillamente svolgere il proprio lavoro da casa; ancor più deprecabile chi non ha rispettato le richieste del Governo di chiudere per almeno due settimane le fabbriche per spezzare l’anello del contagio. Fra questi ultimi, tantissime le segnalazioni di lavoratori che hanno lamentato l’impossibilità di mantenere la distanza di sicurezza in fabbrica, di frequentare spogliatoi evidentemente a rischio, mense non attrezzate per l’emergenza e addirittura la mancanza totale di presidi sanitari. In Tenaris, azienda nell’epicentro del focolaio bergamasco che fattura miliardi ogni anno – i cui titolari, i signori Rocca, risultano all’ottavo posto fra gli uomini più ricchi d’Italia, produttori di beni assolutamente non essenziali – non solo non si è rispettata la chiusura, ma è stato adottato come disinfettante per gli operai il Vetril. Che non è nemmeno l’ultima follia degli imprenditori di zona, come documentato ampiamente nell’ultima puntata di Report.
I sindaci di Nembro e Alzano Lombardo, così come i sindacalisti nazionali e regionali, riferiscono di forti pressioni da parte degli industriali affinché la Regione non definisca zona rossa l’area della Bergamasca già martoriata dall’idiozia di aver permesso uno stadio pieno per la partita dell’Atalanta che ha fatto il paio con la celebrazione della Fiera Paesana più importante del Bresciano totalizzando solo quest’ultima, 300.000 presenze ad una settimana dall’emergenza conclamata.
Il mite Fontana ha prontamente obbedito scaricando la responsabilità su Roma Ladrona e il Governo tutto, come sta facendo ormai da un mese nello scandire ogni singolo fallimento del tutto personale.
Tutto questo avviene con la complicità di Confindustria Lombardia, il cui Presidente Marco Bonometti ha coronato una serie di dichiarazioni e di atti a dir poco raccapriccianti con l’ultima perla secondo la quale non sono le industrie a rappresentare un problema per l’alimentazione del focolaio, ma il numero di allevamenti presenti in zona.
Stendiamo un velo pietoso non solo sulla qualità culturale, ma soprattutto su quella umana del personaggio.
Buoni e cattivi pagatori
In questo meraviglioso bestiario non possono mancare coloro che speculano anche sui pagamenti: ritardavano prima e adesso hanno il coraggio di mandarti una mail dopo due giorni dall’emergenza annunciando che “ci saranno ritardi nei pagamenti dovuti alla situazione contingente”. Molto probabilmente sono gli stessi che per contratto pagano a 90 (ma anche a 180 giorni) e che vanno sollecitati al 95.mo (e al 180.mo) giorno.
“Imprese”, influencer e fenomeni dei nuovi mercati
Il tempo sospeso sarà un po’ più lungo per coloro che, allergici all’ufficio, alla fabbrica, all’officina, alle trasferte, alle scadenze, agli obiettivi, ai risultati, alla conoscenza, alle competenze reali, hanno destinato la loro vita alla “realizzazione di un’idea” o hanno avuto la fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto e da 10 anni vivono di rendita.
Sono quelli che vengono invitati come “testimonial generazionali” alle convention aziendali, o come consulenti per una non ben precisata “digital transformation” o “innovazione”, contattati sulla base del numero dei followers in contrapposizione alla poca fantasia (e conoscenza) di organizzatori e uffici di comunicazione. A questi aggiungiamo la pletora dei “qualsiasicosa coach” facilmente riconoscibili dal job title su Linkedin che inizia quasi sempre per “aiuto le aziende a…”
Non sarà necessariamente un male. Il mercato sarà meno polverizzato e meglio definito. Finalmente avremo dei job title chiari e si capirà al primo colpo che tipo di professionisti siamo: commerciale, amministrativo, tecnico, venditore, qualità, progettazione, direttore generale, marketing, comunicazione. Il tempo della sospensione ci ha insegnato ad apprezzare i mestieri essenziali per la continuità della vita vera: infermieri, medici, specialisti, progettisti, ingegneri, ricercatori, analisti di dati. Settori in cui abbiamo investito poco, disinvestito totalmente o regalato competenze altrove che speriamo con questa occasione si riesca a riportare e trattenere in Patria.
Non ci saranno più soldi da sputtanare in corsi fighi organizzati dai coworking alla moda sugli HR del futuro o sulla leadership un tanto al chilo. Alla ripartenza ci saranno meno soldi da investire, meno budget per gli amici degli amici o per accontentare le piccole lobby di potere associazionistico. Le aziende dovranno destinare le risorse unicamente a chi porterà vantaggio nella ricostruzione: network, competenze, reputazione saranno le parole d’ordine.
Le banche, le multinazionali, i piccoli imprenditori
Marta (nome di fantasia per una persona vera) ha un negozio di camicie. La conosco da qualche anno e quando passo da Padova vado spesso a trovarla e capita che io acquisti da lei. Non ha prezzi bassi, ma la qualità è molto buona: lavora con vera passione, inizialmente affiancata dal suo papà, poi ha iniziato a cavarsela da sola con una grinta che spero di non doverci mai litigare.
Qualche giorno fa ci siamo sentiti per un saluto e mi ha raccontato delle difficoltà nel gestire i negozi in questo momento. Lavora con due banche: la prima, più piccola e territoriale, è quella che si è mossa immediatamente senza nemmeno la necessità di chiedere. In tre giorni ha aperto una nuova linea di fido, ha rinegoziato gli accordi, pronti a ripartire. La seconda, Corporate nazionale, ha aperto le braccia parlando di burocrazia, di procedure, di nuove linee di credito. Mi dice Marta: “Io sorrido a tutti, poi verrà il momento di decidere con chi continuare a lavorare”.
Nel frattempo, Ikea, Coin, Rinascente, Calzedonia ed H&M aprono lo stato di crisi: 100.000 dipendenti a rischio di cassa integrazione. Federdistribuzione ha già messo le mani avanti per richiedere aiuti di Stato. Il mio amico Maurizio per quanto piccolo imprenditore veneto, è un’eccellenza a livello mondiale nel suo settore. Ha una bella azienda con una quarantina di dipendenti che fattura bene e mi dice: “Io non me la sento di chiedere la cassa integrazione, finché resisto voglio dare un messaggio positivo ai miei collaboratori”.
Questo periodo di sospensione ci sta aiutando a distrarci di meno e chissà, se dopo la crisi, saremo consumatori, clienti e dipendenti molto più consapevoli di prima.
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