
Scuola, sanità, PA: il 2020 è l’anno dei concorsi pubblici. Ecco chi partecipa, chi li supera e come si preparano (e con quali costi).
Un focus sul mestiere di educatore socio-sanitario attraverso un’intervista a una professionista del settore, dal rapporto con i pazienti (giovani e anziani) alla confusione sulla loro figura, passando per la posizione ambigua delle cooperative
Che lavoro fai?
Faccio l’educatrice professionale.
«Ogni volta che me lo chiedono, rispondo sempre allo stesso modo, con lo stesso ordine di parole. Le persone restano in sospeso, qualcuno confuso, altri incuriositi, e capisco il disagio perché dire oggi educatore vuol dire tutto e niente; il ruolo degli educatori è abusato anche nel linguaggio comune, e se dovessimo identificarlo davvero faremmo fatica. Di solito è nel terzo settore che circola la maggior parte di noi, ma è bene mettere a fuoco le differenze sostanziali tra i vari tipi di professioni che stanno sotto un ombrello in apparenza simile, ma che simile non è».
Marta Giovagnola ha ventiquattro anni, da poche settimane una laurea magistrale in Scienze riabilitative delle professioni sanitarie presso l’Università politecnica delle Marche, la triennale da cui viene era in Educazione sanitaria socio-professionale: la tenacia nel far chiarezza non le manca, ammirevole lo spirito di categoria con cui si mette in prima linea per proteggere le giuste informazioni sul lavoro che ha scelto, e che il mercato tende a confondere con brutte scorciatoie su benessere e salute di noi cittadini.
L’educatore professionale socio-pedagogico si forma alla facoltà di scienze della formazione e dell’educazione, con codice di laurea L19, mentre l’educatore professionale socio-sanitario – quello di Marta, appunto – studia alla facoltà di medicina e chirurgia, e fa parte di diritto delle professioni sanitarie, con tutto ciò che comporta in Italia l’ammissione a una facoltà di medicina (le recenti riforme con l’illusoria eliminazione del numero chiuso e l’introduzione di un “semestre filtro” stanno creando più caos che cosmo).
Dal punto di vista formativo, qual è l’offerta? «Siamo su piani molto distanti, perché l’educatore professionale socio-sanitario nei tre anni di laurea previsti accumula un monte ore di tirocinio molto significativo, circa 1200/1300. La nostra è infatti una laurea direttamente abilitante alla professione, pertanto strutturata su una colonna portante di esperienza pratica. Il giorno in cui ci laureiamo discutiamo sì la tesi, ma facciamo anche l’esame di abilitazione».
Era stata la Legge Lorenzin n. 3/2018 ad accorparli dentro l’Ordine dei tecnici di radiologia medica e delle professioni sanitarie e tecniche della riabilitazione e della prevenzione: per capirci, una volta iscritti all’Ordine, i colleghi di un educatore professionale socio-sanitario sono logopedisti, riabilitatori, terapisti della neuropsicomotricità dell’età evolutiva, tecnici della riabilitazione psichiatrica, terapisti occupazionali, e tutte le altre figure che potremmo accorpare sotto l’aggettivo di riabilitatori.
Scienze riabilitative delle professioni sanitarie è il nome della laurea magistrale per chi procede nella formazione specialistica, e vale per tutti i riabilitatori, consentendo di acquisire le giuste competenze da spendere in ambito universitario, nella ricerca, così come in contesti organizzativi e manageriali.
«Una magistrale molto arricchente, perché ci mette in contatto con professionisti maturi su più campi e settori. Il decreto n. 520/98 codifica il profilo professionale di chi fa il mio lavoro e ci permette di inserirci in contesti molto diversi e stimolanti, nel privato – anche convenzionato – come nel pubblico o nel sociale: di fatto attuiamo progetti educativi e riabilitativi all’interno di équipe multidisciplinari, progetti volti al recupero, per il paziente, di una vita quotidiana inficiata da patologie».
Il vero problema dove sta, allora? Il sospetto cade sulle cooperative sociali. «Confermo. Al loro interno i nostri profili e titoli di laurea non sono riconosciuti e valorizzati, nella maggior parte dei casi ci confondono e sovrappongono ad altri. Anche per esperienza diretta posso dire che, per chi sceglie di fare questo lavoro e si imbatte come prima esperienza in una cooperativa sociale non solida o non gestita in modo corretto, l’effetto non è gratificante».
«Sapendo della nostra chiacchierata, mi sono preparata per dare a SenzaFiltro un quadro più completo. Ho sentito parecchi colleghi della triennale, e professionisti più maturi, per capire come venissero inquadrati contrattualmente. La conferma, amara, è arrivata: quasi tutti noi veniamo inquadrati in modo difforme rispetto ai titoli posseduti, e molti scelgono a un certo punto di abbandonare la strada lavorativa per cui hanno studiato cinque anni investendo formazione, tempo e soldi. Nessuna obiezione per chi si accorge, in corso d’opera, che questa non è la sua strada, ma spesso le ragioni dell’abbandono arrivano dall’esterno».
Marta va avanti con le storie di lavoro spiacevoli capitate a lei e molti altri, perché dove c’è confusione e ambiguità sui ruoli professionali si insinua il mercato. «In triennale ci insegnano molto bene cosa fa un educatore: lavora con qualcosa che non si vede, intangibile, invalidabile, non sottoposto alle logiche dominanti che attribuiscono un valore solo a ciò che è un prodotto, o un oggetto, un risultato misurabile. Noi educatori lavoriamo sulla relazione e sul rapporto intimo con l’altra persona. Ah, ma allora sei una psicologa?, mi chiedono, e ribatto che no, certo che non lo siamo, perché non indaghiamo i processi che caratterizzano la persona, abbiamo altre competenze e finalità. L’educatore indaga il paziente in ciò che è e vive in quel periodo, anche rispetto al mondo intorno. Amo dire, e mi ci ispiro per il mio lavoro, che l’educatore comprende l’altro, cum-prendere: prendiamo insieme all’altro i pezzi della sua vita e li riabilitiamo».
Proprio per fugare dubbi su ciò che fa un educatore, e chi sono i suoi pazienti, serve dare un nome alle cose. Marta ha lavorato in una comunità per adolescenti con le problematiche più disparate, fino ad atti pesanti di autolesionismo. «Togliere il sangue dal corpo di un adolescente che non si vuole bene, e si taglia, è l’eredità più forte che mi porto addosso. Lì non c’è nient’altro che relazione intensa, e il mio obiettivo, da professionista, era tirare fuori quello che c’era nei ragazzi, ma anche proteggerlo. Il ricorso a farmaci specifici, sotto prescrizione attenta di psichiatri o neuropsichiatri, ha il suo peso, e in molti casi è vitale, ma non può essere il sostituto di una relazione; il farmaco ha un altro scopo, riabilita sul piano fisico e mentale, ma non relazionale, non di vita in mezzo agli altri».
Toccare le ferite dell’altro. Marta insiste, usando espressioni che ridanno speranza al desiderio di cura che vorremo gridare in faccia a ogni medico quando gli mettiamo davanti il nostro corpo coi suoi disturbi grandi o piccoli, banali o irrimediabili, e lui ci fa muro, nemmeno ci guarda. «In comunità, quando i ragazzi avevano le crisi acute, gridavano dammi il farmaco, dammi il farmaco, ma la crisi non era mai effettiva, è sempre pretestuale: il farmaco è visto da loro come un ciuccio, le gocce o le compresse sono vissute alla lunga come un bisogno, e tutto risponde a quel bisogno, perdono il contatto con se stessi perché tanto gli sembra ci sia ogni colta una cura apparente per venirne fuori. In realtà effimera, e tornano punto e a capo. Lavoriamo sempre a stretto contatto con figure psicologiche e psichiatriche, il nostro è un mestiere di équipe continua anche con altri professionisti, ma lavoriamo su piani diversi, tutti validi. Noi li portiamo a cucinare insieme, dialogare, stendere i panni, camminare in gruppo o da soli, mangiare e dormire con gli altri. Insomma, con loro entriamo nelle ferite attraverso l’azione e la parola».
Nel 2014 il British Medical Journal ha diramato uno studio dirompente sul rapporto tra giovani sotto i quindici anni e la somministrazione di benzodiazepine, esordendo già dalle prime righe con la segnalazione dell’aumento considerevole riferito ai due decenni precedenti e dei danni a lungo termine quando la terapia a base di benzodiazepine supera per loro i 90 giorni. Lo studio partiva dall’Irlanda, ma allineava i dati agli standard medi europei.
«In comunità, ma non solo, quindi anche per adolescenti che vivono in famiglia, si parte spesso con terapie pesanti già dai 14-15 anni, e le cure vengono protratte ben al di sopra dei tre mesi, generando conseguenze rilevanti in una fase della vita che è il pieno del loro sviluppo cerebrale, emotivo, relazionale.»
Insegnare la dipendenza dai farmaci a un adolescente è come dirgli che qualcos’altro, o qualcuno, può vivere al posto suo. Ai giovani pieni di dolore non serve un medico o un professionista che somministra e scappa; serve qualcuno che resti e si faccia carico di una presenza accanto a pensieri inaccessibili.
L’intangibilità dell’educatore socio-sanitario è ancora più evidente con gli anziani, dove il ruolo viene frainteso con l’assistenza dei volontari che pur garantiscono presidi in ospedale e in strutture di accoglienza, ma oltre non sanno andare.
«Ho lavorato a lungo anche con pazienti neurologici e con anziani, e la resistenza, in quei casi, ha un altro peso. Con loro non si tratta di far comprendere e sentire una presenza, ma di riattivare, fare esercizi di stimolazione cognitiva. Il lavoro sulla memoria biografica è vitale. Penso ad anziani che si trovano bloccati in ospedale, magari per una rottura del femore, e che le famiglie tengono in struttura, spesso da soli, anche perché le vite di tutti noi si sono saturate e alla fine sacrifichiamo gli aspetti più importanti come le relazioni famigliari.
«Gli anziani sono tremendamente soli. La fisioterapia è centrale per loro, crea benessere, eppure lavora per un tempo limitato che li lascia poi ai loro vuoti. Noi educatori ci prendiamo carico di processi più intimi, profondi, all’interno di ospedali e strutture definiti non a caso non-luoghi, spazi istituzionalizzati dove l’umano scompare. Se vedeste, giorno per giorno, come se ne vanno da se stessi gli anziani che sostano un mese in solitudine – guardo le loro mani rotte dalla vita famigliare che hanno sorretto da quando sono piccoli – capireste quanto credo nel lavoro che ho scelto.
«In un reparto fatto di anziani messi da parte si vede con chiarezza cos’è la fisiologia: in appena trenta giorni assistiamo al cambiamento di personalità, se le persone non sono stimolate. Immenso è il lavoro che riusciamo invece a fare noi educatori con le storie che tiriamo fuori dalla loro memoria. La neuroplasticità, cioè la capacità del cervello di autorigenerarsi, va avanti fino al nostro spegnimento: per questo ha senso credere nelle persone finché sono vive».
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Photo credits: Philip Justin Memelic via Pexels
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