La Diversity & Inclusion scompare, ma la parità di genere è ancora lontana

Lo schema trova conferma in diverse zone d’Italia: sempre più imprese hanno “perso interesse” per la DEI da un giorno all’altro, spesso dopo aver incassato certificazioni posticce sulla parità di genere. Ne parliamo con l’avvocata Chiara Mazzeo specializzata in diritto antidiscriminatorio

18.06.2025
Diversity & Inclusion: la foto in bianco e nero degli operai che pranzano sospesi su una trave, tutta composta da donne

Sono 6.800 le aziende che nel 2024 hanno ottenuto la certificazione sulla parità di genere, introdotta dalla UNI/PdR 125 del 2022. Un dato che sembra rassicurare sull’impegno delle organizzazioni italiane rispetto al tema delle differenze di genere e, più in generale, dell’inclusione. Peraltro, la diffidenza sulle modalità con cui si svolgono gli accertamenti, sugli enti accreditati e sui tanti motivi di interesse legati al raggiungimento del traguardo (non ultimo la decontribuzione dell’1% fino a 50.000 per le imprese) rimane piuttosto forte. E si consolida ulteriormente guardando i risultati emersi dal Global gender gap 2025 del World Economic Forum.

Per carità, l’Italia ha rosicchiato due posizioni in ascesa. Ci sarebbe quindi da complimentarsi, se non si fosse passati dall’87° posto del 2024 al poco invidiabile 85° di quest’anno. E mentre il mondo conta, secondo lo stesso report, ancora 123 anni al raggiungimento della parità, l’Italia incassa un’ulteriore nota dolente, più nello specifico rispetto alla partecipazione al mondo del lavoro, dove si ristagna al 117esimo posto. Ecco: senz’altro bene le quasi 7.000 aziende certificate, però sembra più un bicchiere d’acqua (calda) nel deserto che una rivoluzione concreta.

“Se ti parlo del locale, nello specifico Prato e Pistoia, va pure peggio. Anzi, è un vero e proprio disastro. Su 5.500 questionari sul tema inviati alle imprese, solo 220 hanno risposto, dicendo di non essere interessate”. A raccontarmi questo aneddoto è Chiara Mazzeo, avvocata pistoiese specializzata in diritto antidiscriminatorio e politiche di genere.

La intercetto a margine della presentazione del libro di Gino CecchettinCara Giulia: quello che ho imparato da mia figlia, Rizzoli – che ha moderato lo scorso 5 giugno alla libreria Lo Spazio, proprio in centro a Pistoia. L’impatto mediatico del caso di femminicidio di Giulia Cecchettin è ancora molto forte, e la partecipazione all’evento è stata impressionante – non so se per curiosità, morbosità o reale attenzione al tema di genere. Nella chiacchierata con Mazzeo decido di partire proprio da lì.

 

 

Chiara, che intervista è stata?

Devo dire di aver trovato un uomo intelligente, magari senza strumenti scientifici sull’argomento e, opinione mia, non so se quel che dice sia tutta farina del suo sacco. Di certo è stato bravo, perché ha creato una fondazione (Fondazione Giulia Cecchettin, N.d.R.) all’interno della quale è presente un comitato scientifico con personalità competenti come Irene Biemmi, docente di pedagogia di genere all’Università di Firenze.

La professoressa, se non sbaglio, l’ha accompagnato anche nell’evento del 6 giugno con le scuole della città, al teatro Bolognini di Pistoia. Una voce autorevole in più?

Esatto, una collaborazione nell’ambito del progetto che coordino personalmente all’interno della provincia, in contrasto agli stereotipi di genere, finanziato dall’Unione europea. Una voce autorevole che rafforza con contenuto l’impatto mediatico che richiama Gino; in questo vedo intelligenza. E vedo intelligenza nel proporre con sistematicità il tema nelle scuole, dove ancora oggi i testi sono intrisi di stereotipi di genere, fin dalla primaria, per arrivare poi agli istituti superiori dove nei libri di storia la presenza femminile è del tutto dimenticata. Quanto a Cecchettin, parla del fenomeno della violenza di genere come di qualcosa di molto lontano dal lui, prima della tragedia. Poi si è reso conto che non si tratta solo di pazzi che si inventano di uccidere con 75 coltellate la fidanzata intenzionata a rompere la relazione. La verità è che il problema riguarda tutto il genere maschile.

Provo a calarmi nella parte dell’avvocato del diavolo. Il problema riguarda solo il genere maschile o tutta la società?

Lo sappiamo, gli stereotipi ce li abbiamo tutti. Tante volte mi sono inimicata gruppi di femministe che pensano alla cura dei figli come una questione solo materna, quando non è così. Però, se ci concentriamo solo sul fenomeno della violenza come femminicidio, allora è ovvio rivolgersi solo ai maschi. In ogni caso, sentire queste dichiarazioni da un uomo che nella vita, prima della tragedia, faceva l’informatico a tempo pieno, fa riflettere; soprattutto perché lui stesso si definisce il classico veneto, un uomo del fare con un vissuto legato in toto al suo mondo del lavoro.

 

Qui arriviamo al nocciolo della questione. La sensazione è che non si riesca ancora ad agire alla base del problema, che è prima di tutto di processo. L’universo dell’istruzione e del lavoro, strettamente connessi, rappresenta un esempio lampante. Spesso si tende a rimanere in superficie, con proposte e risposte legate solo a campagne di comunicazione estese, utili solo se suffragate da interventi e investimenti cospicui alla radice.

In questo senso il tema della Diversity & Inclusion è illuminante. Un carro sul quale tutti sono saltati, per rinnovare brand e pulire l’immagine della propria impresa. Dal 2023, complice la crisi della manifattura e il passo indietro delle grandi aziende tech di livello internazionale (da Meta a X a Google), l’introduzione e l’applicazione delle politiche di parità non rappresenta più una priorità. O almeno questa è l’impressione.

Significa che non ci si crede più? Probabilmente no, però nella valutazione di un imprenditore può essere che lo sforzo economico e di energie per entrare a fondo nei processi non valga la candela. In sintesi, finché è conveniente ci si lavora, poi basta. L’avvento di Trump alla presidenza americana, poi, ha fornito l’assist perfetto per il disimpegno. Se risaliamo invece al mondo della scuola, forse le difficoltà di docenti di pedagogia come Irene Biemmi sono di carattere solo culturale, frutto di retaggi ben radicati.

Sul lavoro, in dettaglio, torno a chiedere l’opinione di Chiara.

 

Chiara, l’impressione diffusa è che le politiche di parità di genere e la DEI stiano sparendo dalle aziende. Lei come la vede?

Quello che ti posso dire io, visto che mi occupo anche di imprenditoria femminile con la camera di commercio di Pistoia, è che il monitoraggio dei numeri sulla certificazione di genere fino all’anno scorso era in crescendo, con imprese che aderivano. Ora che ci penso, però, ti dico che per le aziende del territorio ho offerto anche docenze sulle pari opportunità, in particolare nella pubblica amministrazione e nelle partecipate. In effetti, da un anno a questa parte sono spariti tutti, può darsi che il trend inizi ad avere una sua coerenza.

Cecchettin non basta.

Il messaggio è che bisogna diffondere cultura. Credo sia l’obiettivo della sua fondazione, ed è lo stesso che avevo io come consigliera di pari opportunità nell’ormai lontano 2013, quando per la prima volta uscì una legge organica contro la violenza di genere incentrata anche sulla prevenzione. Ben venga Cecchettin, per il suo impatto mediatico, però non è che la punta dell’iceberg. L’incontro con le scuole ha prodotto comunque buoni risultati, ed è da lì che bisogna partire. Ti segnalo che, parlando con gli istituti tecnici del territorio, abbiamo notato un aumento delle iscrizioni da parte delle ragazze. Forse stiamo iniziando a erodere un stereotipo importante.

Lavorare nel profondo, altrimenti la mera comunicazione perde forza lungo il percorso.

Questo vale per le scuole, per le aziende e anche per la politica. La regione Toscana ci ha dato 500.000 euro per questo progetto triennale, con fondi del PNRR, proprio per rendere sistematica una materia che di solito è vissuta una tantum. Il progetto che abbiamo impostato, oltre alla giornata inaugurale (anticipata dalla presentazione alla libreria Lo Spazio e programmata al tetro Bolognini, N.d.R.), prevede docenti che portano le classi in un percorso triennale. Una novità assoluta rispetto a quanto fatto finora.

L’ultimo sfizio me lo tolgo sulla sua professione. Da penalista impegnata sul tema, qual è il suo osservatorio?

Vado controcorrente. Noto una schizofrenia totale, con un clima da caccia alle streghe. Ti cito due processi proprio di questi giorni, dove difendo un marito imputato per maltrattamenti in famiglia. Ho lavorato in un centro antiviolenza per tanti anni, ho gli strumenti per riconoscere casi di maltrattamento da casi dubbiosi. Oggi però funziona così: una donna può denunciare per violenza domestica anche con riferimento a fatti risalenti in là nel tempo, al fine di tutelare il percorso di maturazione della consapevolezza. Bene: il marito si becca in automatico un processo. Poi magari sarà assolto, però non serve più neanche un certificato medico per aprire la questione. Ricordo un convegno dell’Università di Bologna nella facoltà di procedura penale, di qualche mese fa, dove si parlava di principio di presunzione di vittimizzazione. Cioè, si sta codificando un principio contrario alla presunzione di innocenza, costituzionalmente garantita dall’articolo 27.

Il nuovo paradigma: vittima fino a prova contraria.

Le procure si muovono così, di fronte all’allarme sociale in corso c’è questa schizofrenia. Però dal punto di vista normativo le contromisure esistono già; mi sembra che questa tendenza alla repressione e all’inasprimento delle pene sia fallimentare, sia per la consapevolezza del problema che in chiave preventiva. Il ritmo delle uccisioni è sempre il solito, una ogni tre giorni. Ripeto: in chiave preventiva non è efficace.

 

 

Mi torna in mente il dibattito sulla sicurezza sul lavoro, sui controlli, sull’inasprimento delle pene, sulle modifiche proposte al Testo Unico. Mentre i morti rimangono sempre tre al giorno.

Già. Forse repressione e comunicazione, da sole, non bastano.

 

 

 

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Photo credits: cittametropolitana.mi.it

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