Lo sfruttamento secondo gli ospiti di un Centro di Accoglienza Straordinaria

«Sappiamo che si tratta di sfruttamento, ma non possiamo stare ad aspettare, è meglio sacrificare qualche diritto»: come vengono percepiti lavoro e diritti dai migranti? Nel CAS di via Fanelli, a Milano, c’è chi lavora 20 ore al giorno e chi percepisce 3 euro all’ora

Un residente di un Centro di Accoglienza Straordinaria

Il reportage di Angelica Rimini e Francesca Sofia Selano

 

 

Questo articolo non è firmato da un giornalista della nostra redazione.

SenzaFiltro ha deciso oggi di dare spazio a una giovane redazione tutta femminile che racconta il grave sfruttamento lavorativo. 14 ragazze tra i 16 e i 26 anni hanno dato voce a storie ed esperienze del territorio, da Milano a Legnano, passando per Gorgonzola, Busto Arsizio, l’hinterland e arrivando anche a toccare le rotte migratorie dal Bangladesh e Nord Africa nella nuova edizione della rivista gratuita “Emersioni”. Un lavoro che abbiamo deciso di sostenere e promuovere, perché le giovani redattrici hanno raccolto informazioni e interviste tra case di accoglienza, mercati informali, uscite diurne e serali, e crediamo che sia sempre più importante imparare a scrivere di cose difficili. L’iniziativa è promossa dalla Città Metropolitana di Milano nell’ambito del progetto a supporto di persone vulnerabili “Derive e Approdi”.

 

 

Superata la statale, si arriva nella zona industriale a Est di Milano. È qui, sulla deserta via Fantoli, che si trova il Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS).

Nati per sopperire alla mancanza di posti in caso di arrivi consistenti di richiedenti asilo, oggi i CAS costituiscono la modalità ordinaria di accoglienza per i migranti. La struttura di via Fantoli si riconosce per le sbarre alle finestre all’altezza del marciapiede, attraverso le quali intravediamo alcuni ragazzi stesi sulle brande. Ci addentriamo in un ampio cortile con dei teloni che ne separano gli spazi, nascondendo i bidoni della spazzatura e le bici dei rider.

Siamo con Luisa e Tiziana, due operatrici della Fondazione Somaschi impegnate nell’accoglienza e nel sostegno per donne vittime di violenza, persone senza fissa dimora, tossicodipendenti, malati e vittime della tratta. Le accompagniamo, insieme a una mediatrice linguistica, in un intervento di prevenzione sul grave sfruttamento lavorativo.

A lezione di sfruttamento: «Sappiamo che è così, ma lo cerchiamo»

Ci accoglie il vicedirettore del CAS, Ianik. Veniamo accompagnati verso l’area allestita per l’occasione: una stanza luminosa, piena di specchi e porte finestre. Lunghi tavoli e panche di legno, resti di cibo sul pavimento e un odore acre, prima grande differenza tra il mondo fuori e la vita all’interno.

Ci accomodiamo e Tiziana si presenta a 17 uomini seduti soprattutto negli ultimi posti. Sono di età diverse, dai 19 ai 50 anni. Vengono da Tunisia, Marocco ed Egitto. Indossano vestiti sportivi: jeans corti, pantaloni della tuta, scarpe da ginnastica, alcuni portano cappello e occhiali da sole in testa. Si conoscono: ridono e scherzano, si zittiscono e si provocano. Quasi tutti parlano l’italiano. Inizia la proiezione di un video sul funzionamento del lavoro regolare e sull’importanza del contratto come strumento per proteggersi dallo sfruttamento e rivendicare i propri diritti.

«Prima di tutto, a cosa pensate se usiamo la parola sfruttamento?»

Le risposte più frequenti sono incongruenza tra lo stipendio concordato e quello recepito e contratti troppo brevi o instabili. Solo una persona si riferisce all’assenza di diritti. Tiziana prova a far cenno al diritto primario di «dire quando le cose non vanno bene». Un uomo di 47 anni ride e, con il tono di chi in Italia c’è da abbastanza tempo da sapere come vanno le cose; dice «eh, e come si fa?». Tutti si scaldano ed emerge un commento deluso: «Noi siamo stranieri! Queste leggi che proteggono esistono solo per gli italiani!»

Sempre più persone si avvicinano interessate, occupando i posti in prima fila. Dai vari aneddoti emerge che nessuno di loro ha un contratto e la maggior parte svolge lavori manuali nell’edilizia, mentre alcuni si rivolgono alle cooperative accettando lavori a chiamata. Nessuno sente di potersi difendere o di poter scegliere un lavoro regolare. Tiziana fa notare però che, in quanto ospiti del CAS, possiedono documenti temporanei con cui poter pretendere un contratto. Parla poi del curriculum come strumento per inserirsi nel mercato del lavoro legale e dell’importanza della lingua e di laboratori per acquisire abilità pratiche.

Tiziana è bravissima a farsi capire: pur essendo accompagnata da una mediatrice usa qualche parola in arabo, e ciò, oltre a far divertire tutti, li spinge a prestare attenzione. «Cosa significa adesso lo sfruttamento con le informazioni che vi abbiamo dato?». Le risposte sono vaghe. Yassin, un ragazzo di 24 anni, afferma: «Sappiamo che si tratta di sfruttamento, ma alla fine lo cerchiamo, perché almeno con quel lavoro possiamo mandare qualcosa alle nostre famiglie. Non possiamo stare ad aspettare, è meglio sacrificare qualche diritto».

«Se il padrone dice che questo è lavoro, noi stiamo zitti»

Per distinguere sfruttamento e grave sfruttamento lavorativo si riporta l’esempio della paga: se si riceve solo l’80% dello stipendio previsto parliamo di sfruttamento, se invece si scende al 40% ci troviamo di fronte a una forma di grave sfruttamento. «Però attenzione: non è solo una questione di soldi».

Le operatrici chiedono quante ore lavorano al giorno. Alcuni rispondono dodici, dieci, cinque e un altro addirittura venti. Yassin riporta il caso del lavoro a chiamata. «Può succedere di non lavorare per giorni, e allora quando ti chiamano cerchi di recuperare». Tiziana, un po’ scandalizzata, lo guarda e chiede: «Venti?!». Spiega poi che più di 12 ore sono fuori legge e che anche gli straordinari dovrebbero essere pagati: «Quanto vi pagano all’ora?».

Scopriamo che la maggioranza guadagna 7 euro all’ora, alcuni poco meno, mentre uno di loro solo 3 euro. Su questo punto si crea confusione e qualcuno dice che stanno mentendo. Le operatrici allora cercano di rassicurare tutti dicendo che questo è uno spazio dedicato a loro, per questo hanno fatto allontanare gli operatori del CAS. Viene poi chiesto se vengono utilizzate misure di sicurezza e la risposta è negativa. Tiziana precisa allora che «anche questo è un vostro diritto: reclamare condizioni di lavoro sicure e gli strumenti adatti».

Interviene ancora l’uomo più anziano del gruppo, con ironia e rassegnazione: «Ma anche sapendo questi diritti, se poi li reclamiamo, il datore ci manda via e non ci mette niente a prendere un altro che ‘ste condizioni le accetta».

«Ma voi avete chiesto: dammi la mascherina che me la devi per legge?»

«Anche se è scritto nel contratto, noi non lo chiediamo

«Ma potete usare il contratto per fare denuncia al sindacato e trovare un altro lavoro migliore».

Tutti ridono. «Un altro lavoro? Se il padrone dice che questo è lavoro, noi stiamo zitti».

«È difficile e noi lo sappiamo, non vogliamo raccontarvi una favola», ammettono le operatrici.

Quando i diritti entrano nel Centro di Accoglienza Straordinaria

Arriva così la parte più complicata: far capire che una soluzione esiste. Spiegano che è possibile far vertenza tramite i sindacati, che garantiscono anche l’anonimato. È importante però muoversi in gruppo e avere delle prove. Ahmed si illumina: ha messaggi minacciosi del suo datore e vuole essere aiutato dalla Fondazione.

Si parla poi delle condizioni di vita: non va bene vivere nello stesso luogo in cui si lavora, soprattutto se è sovraffollato, privo di servizi igienici e degradante. Tutti accennano un sorriso di scherno guardandosi tra loro e dicono «c’è qua». Momento di silenzio, guardiamo fuori dalle porte finestre. Difficile non poggiare gli occhi su quei 14 container utilizzati come camere da letto dei residenti della struttura.

Il silenzio è interrotto: «Non c’è legge per i migranti». Luisa contraddice questa affermazione illustrando gli articoli 18 e 22 e ribadendo l’importanza della denuncia per ricevere il permesso di soggiorno per grave sfruttamento.

L’incontro giunge al termine e le operatrici forniscono il numero verde nazionale insieme a quello della Fondazione. Tutti li memorizzano sui telefoni, poi si disperdono tra i corridoi di un luogo che, visto da fuori, torna a essere indistinguibile dagli spazi industriali di una zona disabitata.

 

 

 

Photo credits: 24emilia.com

CONDIVIDI

Leggi anche