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Tre quarti dei professionisti IT in Europa dichiara di aver sperimentato il burnout, e la situazione è anche più grave per i professionisti della cybersecurity: le norme di sicurezza si fanno più stringenti e gli attacchi più spietati, ma il management aziendale non sembra adattarsi alle nuove richieste del settore. Che cosa si rischia?
Notizie di furti digitali, attacchi informatici e truffe online sono all’ordine del giorno. Siamo tutti coinvolti nella difesa del nostro perimetro digitale, sia personale, sia lavorativo: lo stress legato alle minacce informatiche è una costante e non può essere ignorato. In particolare, per i lavoratori di questo settore, lo stress legato alle responsabilità, ai ritmi frenetici e alla carenza di risorse sta diventando un vero e proprio fenomeno, con un impatto reale sulla loro qualità della vita.
Il volume di affari della difesa informatica in Europa è più che raddoppiato negli ultimi dieci anni. Diversi studi di mercato, pur utilizzando strumenti di valutazione diversi, stimano una crescita annua intorno al 9/10%, dovuta a tre cause principali.
Ma qual è il prezzo pagato dalle persone (analisti della sicurezza, consulenti, manager e Chief Information Security Officer, o CISO) che si occupano di difendere il perimetro digitale delle aziende?
Uno studio pubblicato da ISACA (Information Systems Audit and Control Association, organizzazione professionale globale che da oltre 55 anni supporta i professionisti nei settori dell’IT, della sicurezza informatica, della governance, del rischio, della privacy e della conformità) a marzo 2025 ha pubblicato i risultati di una ricerca secondo cui i tre quarti dei professionisti IT europei (circa il 73%) dichiara di aver sperimentato stress lavorativo o burnout.
Sempre secondo questo rapporto, le ragioni dello stress legato alle attività nell’ambito della sicurezza informatica sono molteplici: Il 61% indica un carico di lavoro eccessivo, il 44% cita scadenze troppo strette, Il 43% lamenta una carenza di risorse, il 47% è influenzato negativamente da una gestione difficile o poco collaborativa.
Ai lavoratori del settore sono richieste forti competenze tecniche, ma anche solide qualità personali: è necessario saper comunicare in modo efficace per convincere e trasmettere le informazioni in modo accurato e comprensibile ai non addetti ai lavori; avere fiducia in sé stessi per prendere decisioni sotto pressione e coinvolgere i propri collaboratori; e infine essere resilienti, ovvero sapersi riprendere dagli insuccessi e adattarsi alle nuove sfide, tecnologiche e derivate dall’evoluzione delle normative.
Secondo un recente articolo, redatto da diversi rappresentanti di enti e università statunitensi e dedicato al tema del burnout tra il personale della National Security Agency, “il settore della cybersecurity sta vivendo una crisi di abbandono: fino al 46% dei leader della sicurezza informatica sta valutando di lasciare il proprio ruolo”.
Da molti anni sono a contatto con molti professionisti del settore e posso confermare che spesso la distanza culturale tra il management aziendale e chi si occupa di Information Technology (IT) è una delle principali fonti di stress. L’IT diventa strategica, centrale, indispensabile, quando si tratta di promuovere o mettere in evidenza un progetto di innovazione, ma viene facilmente dimenticato lo sforzo per ottenere risultati, che per molte aziende sono ormai considerati commodity. Quando l’IT non è il core business aziendale, la situazione di stress vissuta da molti professionisti per la mancanza di sostegno e riconoscimento del management è palpabile. Tra la fatica per ottenere il budget per le attività legate alla sicurezza informatica e il timore di subire un attacco non si dormono sonni molto tranquilli.
Per un manager della cybersecurity – che in molte aziende si assume anche responsabilità legali nel rapporto con le autorità – alle difficoltà di confronto con la direzione aziendale si aggiunge quella di trattenere i talenti: le competenze sono sempre più richieste, e i giovani, in particolare, chiedono un migliore equilibrio tra vita privata e lavoro, che le attività del settore spesso non riescono, e talvolta non possono, garantire. Si assiste a un vero e proprio braccio di ferro tra manager e direzione da un lato, e tra manager e collaboratori dall’altro.
I vantaggi di queste professioni – stipendi competitivi e forti motivazioni date dal lavorare in un ecosistema stimolante, tra tecnologie all’avanguardia, psicologia del comportamento delle persone e organizzazione – non impediscono il diffondersi di un malessere diffuso, che in molti casi può sfociare nell’abbandono del ruolo.
Tra i fattori che spingono molti professionisti a lasciare il proprio ruolo figurano le limitate prospettive di crescita, legate al timore di restare confinati nell’ambito della cybersecurity senza possibilità di accedere a posizioni più remunerative o di maggiore responsabilità. A queste si aggiungono la mancanza di allineamento tra i propri valori e quelli dell’azienda e, in alcuni casi, un clima lavorativo poco positivo.
Altre fonti affermano che lo stress dei CISO, e più in generale di chi lavora nella cyber security, può essere ridotto grazie a un maggiore coinvolgimento del management, alla definizione di percorsi di carriera, di mentoring e supporto psicologico, ma anche attraverso iniziative concrete per migliorare il work-life balance, come migliori turni di lavoro, spazi dedicati alla formazione e al recupero delle energie.
Se continuiamo a considerare la cybersecurity solo come un costo inevitabile o come un requisito normativo da spuntare, senza mettere al centro la salute e la motivazione di chi se ne occupa, il vero rischio non sarà l’attacco di un hacker, ma l’abbandono dei professionisti che oggi ci difendono. E allora nessuna tecnologia, per quanto sofisticata, potrà salvarci.
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Photo credits: techradar.com
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