Consulenze umane e intelligenze artificiali: la grande irrilevanza

La consulenza è in una profonda crisi, non tanto economica, quanto culturale, in cui deve trovare una nuova identità dopo l’impatto dell’IA. Le aziende rischiano di considerarli una commodity intellettuale, ma il futuro dei consulenti sta nella generazione di cambiamento e di ecosistemi di innovazione

23.09.2025
Un consulente solo davanti a una lavagnetta: è la crisi culturale della consulenza

La consulenza non è in crisi. È in transizione identitaria. Quello che stiamo vivendo non è un declino congiunturale, ma un disallineamento strutturale tra ciò che offriamo e ciò che oggi serve davvero. Se negli anni Novanta bastava essere più informati del cliente, oggi non basta nemmeno essere più competenti. Serve essere rilevanti. E la rilevanza, oggi, ha un nuovo algoritmo: impatto, tempo, autenticità. Se non riesci a produrre valore reale in meno tempo di un’intelligenza artificiale generativa, il problema non è l’IA – il problema sei tu, non per nostalgia o per arroganza, ma per onestà intellettuale.

In questo periodo, mentre continuo a muovermi tra aziende, eventi, business school e università, una domanda si fa insistente: che cosa sta diventando il mestiere del consulente?

La crisi culturale della consulenza

L’impressione sempre più forte è che la consulenza, così come l’abbiamo conosciuta, stia vivendo una crisi non finanziaria, ma identitaria. È come se un’intera industria avesse smarrito il proprio perché. Dimenticate le slide patinate e i post-it colorati: ciò che vacilla oggi non è la sua sostenibilità economica, ma il suo significato.

La consulenza è sempre più percepita come una commodity intellettuale, un’esternalizzazione di cervelli e braccia, più che un acceleratore di visione. Non lo dice solo qualche cliente scontento: lo dicono i numeri, i movimenti interni ai big player globali, e soprattutto lo dice il mercato. Le aziende la acquistano come si acquista un software: per svolgere qualcosa che non conviene fare internamente.

Il problema? Quando il cliente non distingue più il consiglio esterno dal proprio processo interno, la legittimazione del consulente salta. Non è una questione di cifre: è un vuoto di senso.

Per anni, le grandi società di consulenza hanno venduto la promessa di pensiero strategico, visione e capacità di execution. Molte si sono trasformate in macchine operative per l’outsourcing di cervelli, con un modello industriale che ha più a che fare con la replicazione che con l’innovazione; la tirannia della standardizzazione per abilitare proficui modelli di business piramidali. Il vero problema non è che i clienti paghino troppo. È che non sanno più per cosa stanno pagando.

Mariana Mazzucato e Rosie Collington, nel loro libro The Big Con (2023), denunciano come la consulenza moderna abbia eroso le capacità istituzionali ed economiche dei governi, vendendo soluzioni preconfezionate senza trasferire competenze reali. Il Financial Times e l’Economist negli ultimi mesi stanno proponendo numerosi articoli sulla crisi della consulenza cosi come ne parliamo oggi. La mia sintesi è che la crisi sia culturale, non solo economica, né soltanto di competenze che faticano ad aggiornarsi a seguito della velocità delle tecnologie. Non stiamo parlando di piani di sostituzione, up-skilling e re-skilling. Stiamo parlando di un’evoluzione del modello di business.

In un mio recente intervento all’AIDP Lombardia ho condiviso il concetto di “intolleranza all’irrilevanza”. Il principale impatto dell’intelligenza artificiale è quello di renderci tutti intolleranti sia nella sfera personale sia in quella professionale all’irrilevanza del valore ricevuto in termini di tempo e di competenze. Se questo valore non si dimostra distintivo, specifico, personalizzato e umanamente autentico, allora non accetteremo che non sia prodotto da una macchina. Anche perché in quel caso la macchina lo produrrà con livelli di efficienza e di errore inferiori.

Intelligenza artificiale e umana consulenza

Nel campo della consulenza, l’intelligenza artificiale ha già cambiato le regole del gioco in base alla dinamica della “intolleranza all’irrilevanza”. Il famoso studio della Harvard Business School del 2023 ha misurato un aumento del 25% della produttività nei team ibridi IA+umani, e un miglioramento del 40% nella qualità del lavoro prodotto grazie agli LLM (Large Language Models), pur segnalando il rischio di perdita di controllo e di accuratezza. Su Zenodo, uno studio indipendente mostra come l’IA stia disgregando le fasi a basso valore del lavoro consulenziale, costringendo il settore a ripensarsi in chiave trasformativa.

Il punto non è quanto velocemente l’IA ci supererà in efficienza; il punto è perché esistiamo in quanto consulenti. Se i report, i benchmark, i canvas, un tempo preziosi perché scarsi e quindi rilevanti, sono ora generabili e compilabili in pochi secondi, che valore ha il “bravo consulente”? Il futuro della consulenza si gioca sul trasferimento della capacità trasformativa, non sull’eleganza del deliverable.

Il nuovo bravo consulente non è quello che sa tutto, ma quello che sa dove imparare più in fretta. Non è il generalista da war room, o il super esperto verticale, ma il sintetizzatore radicale di tecnologia, cultura, organizzazione e mercato. Il rischio è chiaro: continuare a vendere soluzioni che il cliente può generare da solo, o peggio ancora, che l’IA può generare meglio.

Non servono più solo MBAs operativi, competenze e esperienze: servono archeologi del possibile, narratori strategici capaci di costruire attenzione qualificata e visione differenziante: come possiamo essere rilevanti per questo cliente? Come siamo rilevanti in questo progetto? Come posso portare una soluzione rilevante a questo problema?

Come sottolinea Luk Smeyers (The Visible Authority), uno dei principali problemi della consulenza odierna è proprio l’incapacità di affermarsi come autorità visibile. L’IA ha rotto l’oligopolio della credibilità, aprendo spazio per boutique intelligenti, verticali, ibride (es. Xavier AI, Perceptis, Slideworks, SIB, Unity Advisory). Non vendono più “presentazioni”, ma architetture narrative concrete per affrontare problemi complessi. I giganti della consulenza stanno reagendo: tagli agli organici, acquisizioni tech, partnership con big dell’IA (vedi Deloitte + NVIDIA, o McKinsey + QuantumBlack), come riportato da Business Insider e The Information. Ma tutto questo rischia di essere una cura per i sintomi, non per la causa. Il classico caso di inerzia attiva.

C’è un paradosso che tutti evitano di affrontare, nei corridoi delle società di consulenza, quelle grandi e le boutique: l’intelligenza artificiale non è solo uno strumento per il cliente. È una minaccia esistenziale per il consulente. Non stiamo parlando di metodi, storia, dimensioni e loghi. È cambiata l’efficacia del ruolo, della figura e del modello di relazione del business della consulenza.

Diamo atto ancora una volta al professor Clayton Christensen, che già nel 2013, dalle pagine della Harvard Business Review, nell’articolo “Consulting on the Cusp of Disruption” analizzava il futuro incerto dell’industria della consulenza, evidenziando come stesse entrando in una fase di profonda trasformazione strutturale, simile a quella già vissuta da altri settori sotto l’impatto della digitalizzazione. Christensen osservava che i modelli tradizionali, basati su progetti personalizzati ad alto costo, stavano venendo erosi da soluzioni scalabili, tecnologiche e più accessibili, come piattaforme digitali, crowdsourcing e strumenti analitici avanzati. L’articolo prevedeva che nuovi attori ibridi, capaci di unire competenze tecniche, automazione e delivery snello, avrebbero sfidato il dominio delle grandi società, portando a una democratizzazione della consulenza. In una sana dinamica della disruption, la soluzione proposta era quella di reinventare la propria value proposition, abbracciando modelli modulari, open e orientati al risultato.

Il futuro della consulenza: un ecosistema di innovazione

L’era dell’executive summary, della piramide di Barbara Minto e della “slide finale” è finita. Non basta più documentare un cambiamento. Bisogna generarlo.

Il futuro del consulente è quello di facilitatore dell’apprendimento organizzativo per nuovi spazi di creazione di valore: architetto di ecosistemi cognitivi di intelligenze di diverse tipologie, interprete di scenari di business, designer di applicazioni delle tecnologie su processi e su prodotti/servizi che non siano esclusivamente induttivi e deduttivi. Identifica connessioni inaspettate tra dipartimenti, trasformando intuizioni isolate in innovazioni scalabili.

Ad esempio, sul tema intelligenza artificiale si abbandona la rincorsa alla potenza di calcolo e al perimetro della verosimiglianza, ma ci si dedica all’applicazione, agli impatti reali e concreti sulle organizzazioni. Disegna ecosistemi di apprendimento, implementa “AI standup meeting” dove i team condividono come utilizzano strumenti IA per risolvere problemi specifici. Crea “human-AI pair programming session” per progetti strategici, dove ogni decisione viene elaborata sia da analisti umani che da IA, confrontando sistematicamente i risultati. Stabilisce “reverse mentoring program” intergenerazionali per definire la governance di integrazione dell’IA nella quotidianità, senza tenere conto delle gerarchie tradizionali. La consulenza si trasforma da servizio intellettuale a architettura comportamentale, dove ogni raccomandazione diventa un algoritmo decisionale implementabile.

Quello che resta, per chi saprà davvero essere rilevante, è un mestiere del tutto nuovo. Sopravvivranno coloro che sapranno ridefinire le stesse architetture organizzative, trasformando la consulenza in un ecosistema vivo di innovazione permanente. Saranno i pionieri che scrivono istruzioni, codici, capaci di trasformare le informazioni in requisiti e in scenari anziché slide. Professionisti e professioniste che modellano culture aziendali ibride, in cui l’umano e gli agenti cognitivi dialogano ogni giorno (secondo quanto suggeriscono gli studi su Human‑Agent Systems e Adaptive Collaborative Control).

Saranno quelli che non si limitano a misurare KPI predefiniti, ma che li reinventano di continuo in base al contesto e alla dimensione di impatto scelta, in linea con il paradigma “misurare ciò che conta davvero” proposto da Mazzucato e Collington. E saranno soprattutto i facilitatori che guidano i clienti a fare cose che ancora non sanno come chiamare, scoprendo nuove parole, nuovi modelli, nuove traiettorie possibili.

Questa non è la fine della consulenza. È la sua metamorfosi più radicale. Chi saprà liberarsi dall’illusione di essere capaci di migliorare l’efficienza, aprendosi al nuovo patto tra umani, tecnologie e organizzazioni, non sopravviverà solo: detterà il futuro.

Gli altri? Resteranno eleganti, senza essere davvero necessari in un mero rapporto tra costo e opportunità, tra efficienza ed efficacia. Sposate il denominatore, nel numeratore diventeremo irrilevanti. Sparigliate, interpretate e abilitate.

 

 

 

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Photo credits: indatalabs.com

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