Nel campo della consulenza, l’intelligenza artificiale ha già cambiato le regole del gioco in base alla dinamica della “intolleranza all’irrilevanza”. Il famoso studio della Harvard Business School del 2023 ha misurato un aumento del 25% della produttività nei team ibridi IA+umani, e un miglioramento del 40% nella qualità del lavoro prodotto grazie agli LLM (Large Language Models), pur segnalando il rischio di perdita di controllo e di accuratezza. Su Zenodo, uno studio indipendente mostra come l’IA stia disgregando le fasi a basso valore del lavoro consulenziale, costringendo il settore a ripensarsi in chiave trasformativa.
Il punto non è quanto velocemente l’IA ci supererà in efficienza; il punto è perché esistiamo in quanto consulenti. Se i report, i benchmark, i canvas, un tempo preziosi perché scarsi e quindi rilevanti, sono ora generabili e compilabili in pochi secondi, che valore ha il “bravo consulente”? Il futuro della consulenza si gioca sul trasferimento della capacità trasformativa, non sull’eleganza del deliverable.
Il nuovo bravo consulente non è quello che sa tutto, ma quello che sa dove imparare più in fretta. Non è il generalista da war room, o il super esperto verticale, ma il sintetizzatore radicale di tecnologia, cultura, organizzazione e mercato. Il rischio è chiaro: continuare a vendere soluzioni che il cliente può generare da solo, o peggio ancora, che l’IA può generare meglio.
Non servono più solo MBAs operativi, competenze e esperienze: servono archeologi del possibile, narratori strategici capaci di costruire attenzione qualificata e visione differenziante: come possiamo essere rilevanti per questo cliente? Come siamo rilevanti in questo progetto? Come posso portare una soluzione rilevante a questo problema?
Come sottolinea Luk Smeyers (The Visible Authority), uno dei principali problemi della consulenza odierna è proprio l’incapacità di affermarsi come autorità visibile. L’IA ha rotto l’oligopolio della credibilità, aprendo spazio per boutique intelligenti, verticali, ibride (es. Xavier AI, Perceptis, Slideworks, SIB, Unity Advisory). Non vendono più “presentazioni”, ma architetture narrative concrete per affrontare problemi complessi. I giganti della consulenza stanno reagendo: tagli agli organici, acquisizioni tech, partnership con big dell’IA (vedi Deloitte + NVIDIA, o McKinsey + QuantumBlack), come riportato da Business Insider e The Information. Ma tutto questo rischia di essere una cura per i sintomi, non per la causa. Il classico caso di inerzia attiva.
C’è un paradosso che tutti evitano di affrontare, nei corridoi delle società di consulenza, quelle grandi e le boutique: l’intelligenza artificiale non è solo uno strumento per il cliente. È una minaccia esistenziale per il consulente. Non stiamo parlando di metodi, storia, dimensioni e loghi. È cambiata l’efficacia del ruolo, della figura e del modello di relazione del business della consulenza.
Diamo atto ancora una volta al professor Clayton Christensen, che già nel 2013, dalle pagine della Harvard Business Review, nell’articolo “Consulting on the Cusp of Disruption” analizzava il futuro incerto dell’industria della consulenza, evidenziando come stesse entrando in una fase di profonda trasformazione strutturale, simile a quella già vissuta da altri settori sotto l’impatto della digitalizzazione. Christensen osservava che i modelli tradizionali, basati su progetti personalizzati ad alto costo, stavano venendo erosi da soluzioni scalabili, tecnologiche e più accessibili, come piattaforme digitali, crowdsourcing e strumenti analitici avanzati. L’articolo prevedeva che nuovi attori ibridi, capaci di unire competenze tecniche, automazione e delivery snello, avrebbero sfidato il dominio delle grandi società, portando a una democratizzazione della consulenza. In una sana dinamica della disruption, la soluzione proposta era quella di reinventare la propria value proposition, abbracciando modelli modulari, open e orientati al risultato.