Gilberto Gini, Smart Workers Union: “Lo smart working ai caregiver? Negato soprattutto da manager donne verso altre donne”

“Nove aziende su dieci pensano che ai caregiver non siano dovuti accomodamenti ragionevoli, specie le PMI e le piccole amministrazioni: più tutelati i lavoratori con disabilità”. Intervistiamo il segretario generale del primo sindacato in smart working in Italia

30.09.2025
Caregiver in smart working: una madre con una figlia lavora al pc da casa

Corre l’anno 2025 ma nel mondo del lavoro si richiamano modelli che già negli anni Novanta scricchiolavano, e che oggi risultano obsoleti e insostenibili. Su tutti il lavoro agile, alias smart working, viene ridimensionato da diverse imprese, e in alcuni casi addirittura osteggiato o negato a chi dovrebbe usufruirne per necessità.

Dopo essere stato adottato in fretta e furia durante il periodo della pandemia, da due anni a questa parte ci sono aziende che stanno facendo marcia indietro sul lavoro da remoto, annunciandone la drastica riduzione, se non la fine. Tra i casi più emblematici ci sono quelli di Amazon, Disney e persino Zoom, il cui nome è diventato quasi un sinonimo del concetto stesso di lavoro a distanza, e che adesso sta puntando a un approccio ibrido.

Eppure il lavoro agile è molto apprezzato e sempre più richiesto, soprattutto da Millenials e generazione Zeta. Secondo una ricerca effettuata nel 2024 dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, il 73% dei lavoratori che se ne avvalgono si opporrebbe se la propria azienda eliminasse questa forma di flessibilità. In particolare, il 27% ipotizzerebbe nel caso di cambiare lavoro per non rinunciarvi, mentre il 46% si impegnerebbe per far cambiare idea al datore di lavoro.

Di quest’estate la notizia secondo la quale il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) non ha rinnovato gli accordi di lavoro agile che sono scaduti il 30 giugno scorso. A sottolineare tutte le criticità di questa scelta è Smart Workers Union, il primo sindacato in smart working, quindi senza sedi fisiche, nato proprio nel 2020. L’obiettivo è quello di promuovere la cultura del lavoro da remoto, hi-tech e digitale, e al contempo di tutelare i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici dell’ambito privato, pubblico e autonomo che usufruiscono di questa modalità.

Gilberto Gini, Smart Workers Union: “Smart working negato l'80% delle volte da PMI e piccole amministrazioni”

Smart Workers Union ha le idee molto chiare sul tema: il lavoro agile o comunque da remoto non è soltanto una modalità organizzativa, ma uno stile di vita da adottare e da diffondere il più possibile per salvaguardare l’ambiente e per prevenire i disagi correlati al pendolarismo, con risparmio di tempo, soldi ed energie, tutelando il bilanciamento tra vita privata e lavorativa.

A ciò si aggancia il tema cardine dell’inclusione lavorativa di tutti coloro che altrimenti sarebbero tagliati fuori dal mercato del lavoro. Pensiamo ad esempio a chi deve conciliare la genitorialità con impegni professionali che non sarebbero altrimenti sostenibili. Manca infatti la cornice socioeconomica degli anni Ottanta e Novanta con cui ancora alcuni datori e datrici di lavoro e referenti politici si ostinano a ragionare, non volendo ammettere che i tempi sono cambiati: ai genitori di oggi non sempre è garantito il supporto di una rete famigliare, come accaduto alle generazioni precedenti; inoltre lo stipendio guadagnato difficilmente riesce a far fronte al costo di servizi necessari per rispondere a questa conciliazione – pensiamo, tra gli altri, al caso dei centri estivi, che non è implicito siano attivi per tutto il periodo di bisogno. L’altra questione emblematica riguarda le necessità dei e delle caregiver, che devono conciliare il lavoro remunerato con quello non ancora riconosciuto dell’assistenza.

A fare il punto della situazione è il segretario generale di Smart Workers Union Gilberto Gini: “Ci occupiamo di tutte le categorie del lavoro privato, pubblico e autonomo. Abbiamo una struttura versatile e intercategoriale che ci permette di seguire i nostri associati in tutte le fasi della loro carriera lavorativa. In piena coerenza con ciò che sosteniamo, noi per primi siamo in modalità smart”.

Gini sottolinea sin da subito come le barriere culturali siano la causa principale di ostacolo e diffidenza nei confronti del lavoro agile. “Nel nostro Paese il rifiuto nei confronti dello smart working avviene per l’80% dei casi da parte delle piccole e medie imprese, di cui è perlopiù costituito il tessuto industriale, e nelle amministrazioni pubbliche molto piccole. In diverse situazioni permane una difficoltà, data da pregiudizi e scarsa formazione, a organizzare e mantenere una struttura da remoto. Ciò porta i datori e le datrici di lavoro delle PMI e amministrazioni pubbliche in questione, soprattutto over 50, a fare marcia indietro sullo smart working e a utilizzare modalità più tradizionali che li fa sentire a loro modo ‘sicuri’. Questa tendenza a restare nella comfort zone, unita al voler avere sotto controllo i lavoratori, determinano le conseguenze negative che vediamo”.

Gilberto Gini pone in evidenza un altro dato disarmante rilevato dal sindacato di cui fa parte. “Abbiamo notato una maggior rigidità da parte delle datrici di lavoro donne over 50, o che ricoprono un ruolo manageriale nelle risorse umane. Sono soprattutto loro a essere restie ad attivare soluzioni di lavoro agile nei confronti dei e delle dipendenti. Questo rifiuto avviene paradossalmente di più nei confronti delle dipendenti donne che hanno figli: una contraddizione in essere.”

Il segretario di Smart Workers Union mette in luce un altro aspetto osservato dal sindacato stesso, ossia che sinora sono le grandi aziende ad attivare di più lo smart working, ravvedendo anche il vantaggio economico oltre alla questione di tutela della conciliazione tra vita privata e professionale dei dipendenti. Rispetto ai settori più propensi a concretizzare il lavoro agile, afferma: “Ad oggi sono senz’altro quello delle telecomunicazioni, telefonia e hi tech”. E specifica: “L’età di chi è alla guida di queste imprese influisce fortemente sulla spinta alla flessibilità: chi è sotto i 40 anni è più propenso ad attivare lo smart working”.

“I caregiver? Più discriminati dei lavoratori con disabilità”

Ci focalizziamo sul tema cardine dei e delle caregiver, che hanno necessità di conciliare la vita lavorativa con l’impegno dell’assistenza nei confronti di un proprio famigliare con disabilità, tra cui i figli stessi, e che altrimenti rischiano di uscire del tutto dal mondo del lavoro. Un problema che tocca soprattutto le donne in termini di maggioranza numerica, visto che, come dimostrano i dati a livello nazionale, sono soprattutto loro a gestire l’attività di caregiving.

“Qui la situazione diventa ancora più grave, perché c’è una discriminazione generalizzata sia nei confronti dei lavoratori con disabilità e ancora di più nei confronti dei caregiver” dichiara Gilberto Gini. “Mentre i lavoratori con disabilità hanno almeno la tutela di qualche normativa e sentenza della Corte europea, i caregiver assunti, al di là dei permessi 104, hanno ben poco. Seguiamo con attenzione numerose situazioni di lavoratori con disabilità e caregiver: ci capita ogni giorno di richiedere degli accomodamenti ragionevoli, e lo smart working è uno di questi. Accade però che non venga attivato, così scriviamo alle imprese una PEC formale, ma nell’80% dei casi non abbiamo nemmeno risposta da parte loro, e questo atteggiamento è inconcepibile”.

Gilberto Gini restituisce un quadro amaro. “Da ciò che abbiamo riscontrato attraverso i casi seguiti da noi, oltre il 90% dei datori di lavoro pensa che ai caregiver non siano dovuti gli accomodamenti ragionevoli. Inoltre più dell’80% dei datori di lavoro non concede giornate di smart working aggiuntive alle caregiver che nel 74% dei casi sono appunto donne della fascia di età 40-55 anni”. E aggiunge: “Ci sono casi in cui nella pubblica amministrazione cogliamo una preoccupante indifferenza rispetto al tema della tutela dei diritti, oltre al fatto che la figura del disability manager è spesso assente o non utilizzata come si dovrebbe. In pratica i regolamenti interni vengono anteposti alle leggi che tutelano i lavoratori con patologie o disabilità e i lavoratori caregiver. Situazioni che riscontriamo anche nel privato.”

Il lavoro agile, va ricordato, è uno degli accomodamenti ragionevoli che rappresentano un punto cardine della Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità che l’Italia ha ratificato nel 2009. Rifiutarsi di accordarlo equivale ad agire una discriminazione vera e propria, ma diverse imprese sembrano non saperlo. Possiamo parlare di carenza di formazione a questo livello? “Sì, c’è mancanza di formazione e conoscenza delle leggi” spiega Gini. “Come sindacato noi siamo spesso costretti a rivolgerci al difensore civico regionale o alla figura della consigliera di parità per ottenere una semplice risposta, che può essere anche un diniego, alle nostre istanze. Resta il fatto che parliamo di diritti da rispettare e di leggi da applicare, e questo vale per qualsiasi realtà”.

Intanto è recentissima ed emblematica la notizia che riguarda una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (causa C-38/24, pubblicata l’11 settembre 2025), la quale ha stabilito che anche i caregiver famigliari hanno pieno diritto a ottenere i cosiddetti accomodamenti ragionevoli sul posto di lavoro, come ad esempio la modifica del turno o dell’orario e lo smart working, per conciliare l’attività di cura e assistenza – che ad oggi non viene riconosciuta come lavoro – e la propria attività lavorativa remunerata. Rifiutare ai caregiver la possibilità di fare smart working equivale quindi a porre in essere una discriminazione sul posto di lavoro. Estendere tale tutela significa salvaguardare i diritti di coloro che hanno una disabilità, oltre che dei caregiver stessi: persone che ricoprono una funzione cardine, e non spugne da spremere sul fronte di energie, salute ed economia.

 

 

 

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Photo credits: beobachter.ch

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