Ci focalizziamo sul tema cardine dei e delle caregiver, che hanno necessità di conciliare la vita lavorativa con l’impegno dell’assistenza nei confronti di un proprio famigliare con disabilità, tra cui i figli stessi, e che altrimenti rischiano di uscire del tutto dal mondo del lavoro. Un problema che tocca soprattutto le donne in termini di maggioranza numerica, visto che, come dimostrano i dati a livello nazionale, sono soprattutto loro a gestire l’attività di caregiving.
“Qui la situazione diventa ancora più grave, perché c’è una discriminazione generalizzata sia nei confronti dei lavoratori con disabilità e ancora di più nei confronti dei caregiver” dichiara Gilberto Gini. “Mentre i lavoratori con disabilità hanno almeno la tutela di qualche normativa e sentenza della Corte europea, i caregiver assunti, al di là dei permessi 104, hanno ben poco. Seguiamo con attenzione numerose situazioni di lavoratori con disabilità e caregiver: ci capita ogni giorno di richiedere degli accomodamenti ragionevoli, e lo smart working è uno di questi. Accade però che non venga attivato, così scriviamo alle imprese una PEC formale, ma nell’80% dei casi non abbiamo nemmeno risposta da parte loro, e questo atteggiamento è inconcepibile”.
Gilberto Gini restituisce un quadro amaro. “Da ciò che abbiamo riscontrato attraverso i casi seguiti da noi, oltre il 90% dei datori di lavoro pensa che ai caregiver non siano dovuti gli accomodamenti ragionevoli. Inoltre più dell’80% dei datori di lavoro non concede giornate di smart working aggiuntive alle caregiver che nel 74% dei casi sono appunto donne della fascia di età 40-55 anni”. E aggiunge: “Ci sono casi in cui nella pubblica amministrazione cogliamo una preoccupante indifferenza rispetto al tema della tutela dei diritti, oltre al fatto che la figura del disability manager è spesso assente o non utilizzata come si dovrebbe. In pratica i regolamenti interni vengono anteposti alle leggi che tutelano i lavoratori con patologie o disabilità e i lavoratori caregiver. Situazioni che riscontriamo anche nel privato.”
Il lavoro agile, va ricordato, è uno degli accomodamenti ragionevoli che rappresentano un punto cardine della Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità che l’Italia ha ratificato nel 2009. Rifiutarsi di accordarlo equivale ad agire una discriminazione vera e propria, ma diverse imprese sembrano non saperlo. Possiamo parlare di carenza di formazione a questo livello? “Sì, c’è mancanza di formazione e conoscenza delle leggi” spiega Gini. “Come sindacato noi siamo spesso costretti a rivolgerci al difensore civico regionale o alla figura della consigliera di parità per ottenere una semplice risposta, che può essere anche un diniego, alle nostre istanze. Resta il fatto che parliamo di diritti da rispettare e di leggi da applicare, e questo vale per qualsiasi realtà”.
Intanto è recentissima ed emblematica la notizia che riguarda una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (causa C-38/24, pubblicata l’11 settembre 2025), la quale ha stabilito che anche i caregiver famigliari hanno pieno diritto a ottenere i cosiddetti accomodamenti ragionevoli sul posto di lavoro, come ad esempio la modifica del turno o dell’orario e lo smart working, per conciliare l’attività di cura e assistenza – che ad oggi non viene riconosciuta come lavoro – e la propria attività lavorativa remunerata. Rifiutare ai caregiver la possibilità di fare smart working equivale quindi a porre in essere una discriminazione sul posto di lavoro. Estendere tale tutela significa salvaguardare i diritti di coloro che hanno una disabilità, oltre che dei caregiver stessi: persone che ricoprono una funzione cardine, e non spugne da spremere sul fronte di energie, salute ed economia.
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Photo credits: beobachter.ch