Ci avete rotto il Threads

Sbarca in Italia Threads, “il Twitter di Facebook”, che replica il funzionamento in salsa Meta di un social media già in declino. E se gli utenti si fossero stancati di questi prodotti digitali, come alcuni dati lascerebbero intendere?

16.12.2023
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Twitter è stata con Facebook la più iconica delle piattaforme che ha introdotto nel mondo globalizzato il concetto di social network così come lo conosciamo oggi. La possibilità di spedire nel mondo in 140 caratteri e due tap ogni sorta di pensiero ha rivoluzionato la dialettica politica, rompendo la quarta parete che separava eletto (o candidato tale) ed elettore, e la gestione delle emergenze.

Ciò nonostante, non è che goda di buona salute: in bilico tra il chiudere baracca e il risollevarsi a malapena, l’uccellino azzurro, nonostante sia stato trasformato in una X da Elon Musk – a cui nessuno dovrebbe ispirarsi, e che invece è stato per anni un poster appeso nelle camere degli improvvisati imprenditori e startupper de noantri – continua a inanellare una serie di “meno” non indifferenti. A luglio scorso ad esempio la società registrava un buon meno 50% di introiti pubblicitari e una situazione che, per ammissione dello stesso magnate sudafrican-canadese, non era rosea (e questo nonostante un meno 50% anche di dipendenti, e di stipendi da pagare dopo il licenziamento).

Di questa débâcle fior fior di analisti ben più quotati di me hanno provato a spiegare le ragioni, e la maggior parte è assolutamente valida. Io sono uno di quelli che ha lasciato Twitter perché esausto dall’hate speech e dalla disinformazione veicolabile da profili fake con immagini profilo di cavalli antropomorfi con occhiali fluo, ma sono anche uno di quelli che si è innamorato dei computer quando alle elementari una direttrice visionaria (per i fantastici anni Novanta) decise di introdurre l’educazione al pc, ingaggiando un insegnante che aveva la mascella squadrata quanto il monitor che portava classe per classe su un carrello insieme al pesante IBM con ancora le porte LPT per mouse e tastiera. Da dottore in informatica ed ex appassionato di tali materie sono ben conscio che ogni prodotto digitale ha un ciclo di vita che è destinato prima o poi a chiudersi, a fare spazio ad altro.

Tra le tante regole che i big player del tech vogliono sovvertire, però, c’è anche questa. Vogliono rendere immortali strumenti che hanno da tempo annoiato la platea, che non attraggono i giovani, che iniziano a mostrare le falle di un uso e abuso improprio. Questa sorta di accanimento terapeutico genera i suoi personalissimi mostri, e non c’è una regola scritta o meno che tenga testa a scelte che non sembrano sorrette da chissà che profonda analisi o che splendida intuizione.

In queste ore è sbarcato in Italia sui vostri pc (e per i più fortunati anche sugli smartphone) il Twitter di Facebook, a cui accedere tramite profilo Instagram, che poi si collegherà ad altri servizi (?) digitali in un’estasi di tentato monopolio delle nostre identità digitali, irrealizzabile (per fortuna nostra e per sfortuna di tutti i catastrofisti che immaginano futuri distopici con il destino del mondo in mano alle multinazionali del dato). Si chiama Threads, e non sappiamo al momento se in Meta qualcuno si sia posto il problema che ricalchi pari pari un altro social network in caduta verticale.

Sembra – ma anche qui ci saranno osservatori migliori del mio che possono confermare o smentire tale supposizione – che negli uffici di Mark Zuckerberg (e quelli adiacenti) ancora siano convinti che tutto ciò che re Mida tocca diventi oro. Ne sono convinti quando non vogliono ammettere che il Metaverso di Meta è crollato sulle sue stesse enormi aspettative, restando ormai argomento di discussione per quei pochi tech-guru che continuano a spendersi conferenze e dibattiti su una rivoluzione del tutto disattesa. Non vediamo perché Threads dovrebbe essere diverso – anche se possiamo scommettere che Meta ci investirà, e ci investirà, e ci investirà ancora.

Insomma, perché dovrebbe essere diverso da un classico Clubhouse: se questo nome non vi dice niente, sappiate che in parecchi erano pronti a scommettere che avrebbe rotto le regole dei social con i suoi “post audio”. Cosa che, chiaramente, non è avvenuta (benché abbiate sentito sermoni qui e lì in Rete, su LinkedIn, eccetera). La società negli scorsi mesi ha licenziato metà dei dipendenti a fronte di un crollo di utenti attivi che non raggiungerebbero ad oggi i tre milioni (fonte: La Repubblica).

Veniamo a noi, utenti implumi. Noi che sulle piattaforme Meta, dopo aver regalato tonnellate di dati di profilazione utili, abbiamo scoperto di dover essere tutelati (sia benedetta l’Unione europea con la sua attenzione a consumatori e privacy) dall’utilizzo che queste piattaforme fanno degli stessi. Decidiamo scientemente di collegarci a servizi noiosi per essere bersagliati da promozioni (reali pubblicità), promozioni (gente che promuove sé stessa o la sua azienda), post ammiccanti, e una serie di malintenzionati che vogliono farci cliccare link malevoli, senza tirare in ballo la disinformazione che è arginata solo in parte dalla crociata dovuta dai colossi del tech all’umanità.

Diciamo la verità: possiamo essere stanchi di tali strumenti, da consumatori ormai stracotti e sfruttati. E questa cosa rientra proprio nel famoso ciclo di vita del prodotto digitale di cui sopra, che in qualche modo queste multinazionali stanno provando a stiracchiare il più possibile. Ma un vestito leso più lo tiri e più si straccia, e hai voglia a metterci soldi o tirar fuori nuovi strumenti.

La verità è che, fatta eccezione per TikTok (che non a caso viene dalla Cina e si sviluppa distante anni luce dalle logiche “occidentali” che vedono oggi il mondo tech social in mano a pochi player che fagocitano il resto), alle ipotizzate rivoluzioni manca quella reale innovazione, quel quid che cambia davvero le carte in tavola e trasforma la nuova tecnologia e la nuova piattaforma in quel qualcosa di disruptive come furono Facebook e Twitter.

Questo lungo preambolo serve a mettervi in guardia da chi già oggi, tra guru che passano molto tempo con lo smartphone in mano e presunti formatori/esperti/qualifiche strane su LinkedIn, vi dirà che “su Threads bisogna starci”, “perché ci sono tutti” o “perché potrebbe esserci il tuo target”. La verità è che la vita è fuori e non vi è alcun social dove è obbligatorio stare se non siamo contenti di starci. Più passa il tempo, meno contenti siamo di esserci. Gli indicatori di qualità della nostra user experience social ci sono, anche se non li troverete sui social perché in fondo “acquaiò, l’acqua è fresca”, ma ad esempio Rivaliq stimava lo scorso marzo per le maggiori piattaforme un coinvolgimento dell’utente ridotto almeno del 20%.

In questo grande gioco a tenere in piedi cose che scricchiolano, intanto, recuperavo l’altro giorno un bell’articolo di Francesco Bertolino sul Corriere della Sera dello scorso agosto, in cui si contavano utili e ricavi delle big del tech (tra cui Meta) in Italia. Sei miliardi di euro con utili registrati che però sono solo di 133 milioni di euro, una somma che rappresenta solo il 2.2% dei ricavi in Italia. Il trucco? I costi per servizi che tali big del tech pagherebbero alle sedi centrali, che sono guarda caso collocate dove la tassazione è minore rispetto al nostro Paese.

Questo è lo scenario. Ora potete divertirvi ad annoiarvi col nuovo giocattolo.

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