Di donne, di hashtag, di sponsor

La polemica esplosa sui social non ha come unica protagonista Elisabetta Franchi, ma anche certi club al femminile, gli sponsor e la retorica di genere.

L’ennesima “shitstorm” è partita sui social durante un tranquillo weekend di paura. Almeno per Elisabetta Franchi.

E così non solo ho conosciuto una signora che sembra conoscessero già tutti, ma ho scoperto che la titolare di un brand tutto suo è

Una donna che si emoziona e sa emozionare. Perché la sua vita stessa è un’emozione. Vissuta pienamente senza risparmiarsi, con un solo obiettivo: realizzare i sogni di una bambina che nella moda ha sempre visto il suo mondo e la sua essenza più vera. Un desiderio che è diventato realtà.
È la storia di Elisabetta Franchi, anima del brand omonimo, che è riuscita a conquistare l’universo femminile grazie al suo stile e alla sua creatività: un successo frutto di una grande passione, di uno scrupoloso studio del prodotto, di un’assoluta dedizione al lavoro e di una buona dose di concretezza. Un percorso che ha origine a Bologna, città in cui Elisabetta nasce nel 1968, quarta di cinque figli di una famiglia bolognese di umile estrazione, guidata da una madre forte che tra mille sacrifici cresce da sola i bambini: anni dopo Elisabetta ricorda come proprio l’assenza di un padre e le difficoltà, la passione e la determinazione di una rivalsa l’abbiano portata a seguire il suo sogno con caparbietà, senza arrendersi di fronte alle difficoltà della vita. Compagna di gioco e di evasione, la sua unica bambola, che oggi rinasce con la Betty Doll: la stessa che le ha regalato il sogno di poter vestire tutte le donne del mondo.
Studia con grande sacrificio all’Istituto Aldrovandi Rubbiani di Bologna e il suo ingresso nel mondo della moda ha origine proprio lì, mentre si mantiene con lavori saltuari, come la commessa, professione che le insegna a prestare attenzione al gusto delle consumatrici e ad ascoltare le loro esigenze. Un insegnamento fondamentale che non dimenticherà e che sarà la base del suo futuro successo professionale.

dal sito www.elisabettafranchi.com

Sull’episodio che l’ha vista protagonista ormai hanno parlato quasi tutti. La pietra dello scandalo sono state un paio di frasi, una che riguarda la dedizione al lavoro 24 ore su 24 (che poi dico, ma lo stesso scivolone lo aveva fatto Parmigiano Reggiano due mesi fa, ma possibile che questi SuperVip che vivono su altri pianeti fra cui Instagram non imparino nulla dagli errori degli altri?) e un’altra sui suoi criteri di selezione del personale.

Il video ripreso e pubblicato su Instagram

Fermo restando che certi commenti e certi commentatori forse avrebbero fatto meglio a osservare un doveroso silenzio, non tanto per i contenuti costantemente alla ricerca di autocelebrazione e consenso, quanto perché basterebbe guardare indietro di qualche mese per scoprire che non tutto è virtù quello che si scrive.

Primo: donne che odiano le donne

Iniziamo ad ammettere una prima scomoda verità: le donne hanno un loro personalissimo senso della competizione quando si confrontano con altre donne. Su questo giornale abbiamo riportato almeno due volte casi in cui sono state le donne stesse a infrangere il patto di sorellanza e ancor di più a comportarsi come il più sessista dei maschi nei confronti di temi quali : figli, famiglia, tempo.

Nella nostra area “whistleblowing” così come nel recente osservatorio sul sessismo da noi realizzato, troverete diverse conferme ad un problema che è tutt’altro che da archiviare sotto la voce “maschilismo”.

WHISTLEBLOWING_BNL
L’articolo che riguarda l’AD (donna) di BNL

Recentissimo l’episodio della direttrice del punto vendita Conad di Pescara, titolare di un vocale inviato ad un caporeparto: “Voglio il nome di chi oggi ha il ciclo mestruale ok? Sennò gli calo le mutande io“.

Da selezionatore del personale potrei elencare decine di episodi in cui sono le donne a fare le scarpe ad altre donne, a non far crescere altre donne, a preferire uomini per ruoli apicali, a insabbiare episodi di sessismo o di molestie sul lavoro.

Secondo: i Club vestiti di Rosa

Uno dei freni ad una cultura del lavoro più inclusiva nei confronti delle donne e soprattutto delle donne in ruoli apicali a mio avviso – personalissimo avviso – la fanno dapprima certi Club autoreferenziali tutti al femminile, in cui l’orchestra suona lo stesso identico brano da sempre in cui non solo non c’è la minima contaminazione che sarebbe utile a penetrare ambienti “troppo maschili” o “poco accoglienti”, ma quel che è peggio è che non c’è una minima progettazione di pensiero, manifesto, messa a terra culturale che vada al di là di ospitate di “imprenditrici che ce l’hanno fatta” (e se cerco, troverò sicuramente anche la Franchi ospite di uno di questi teatrini), “speech” motivazionali ricchissimi di dati al negativo e frasi ad effetto, hashtag a caso contro certi festival, certi libri, certi uomini, certi temi.

Terzo: gli sponsor SciacquaBrand

Ultimo bug del racconto al femminile sono gli sponsor che promuovono dirette, convegni, incontri. Come nel caso di PWC (Price Waterhouse & Cooper, una delle società di consulenza più importanti a livello internazionale), chi sponsorizza queste manifestazioni lo fa per due motivi:
ETICO / COMUNICATIVO
– accostare il proprio brand a temi sociali su cui l’azienda si sta impegnando con programmi specifici e vuole con questa partecipazione, sottolinearlo al grande pubblico, promuovere un messaggio, lanciare un’azione. E’ tacito che quando si fa un’operazione di questo genere, un ufficio comunicazione che dialoga con le sue risorse umane e con l’ufficio Responsabilità Sociale di Impresa (che tutte queste aziende hanno al loro interno, comprensive di un corredo di codici etici a supporto) si accerta della coerenza con i personaggi invitati alla manifestazione, con i temi dell’intervista e con la qualità dell’intervento.

COMMERCIALE
– esserci con la logica dello “scambio di favori”. Oggi sponsorizzo l’evento, domani tu mi inserisci fra i tuoi fornitori. E qui, c’è poco da spiegare, poichè mi sembra che questa seconda ipotesi sia quella più perseguita, in cui il BrandWashing o il semplice “apparire” a favore di una causa che fa audience vada a pari passo con la ricerca di obiettivi di business.

Imprenditori (e consulenti): i camerieri che sparecchiano la tavola.

In questi episodi non mancano mai quei cattivi camerieri che a fine pasto sperano di ripulire la macchia di vino, strofinando.

Sono quei consulenti che scavando nel fondo del barile cercano di trovare “il lato positivo”, “la complessità” di una situazione che è già fin troppo evidente e meriterebbe unicamente un bel video di scuse e chiusa li, o – come ho realmente letto – chiamare in causa “bias cognitivi, euristiche e misperception” e un po’ di supercazzole utili solo a gettare fumo negli occhi e far finta di capirne.

Ma sono anche quegli imprenditori che provano a difendere la categoria e fanno ancora più danno, perché se c’è una cosa che il web insegna è che questo è l’unico luogo dove è sufficiente una campagna sociale e una festa per influencer per tornare di nuovo vergini.

Quantomeno curioso che, insieme a consulenti in cerca di visibilità, su Linkedin sia comparso anche il post di Francesco Rotondo, a sua volta vittima di una grossa polemica sui social in seguito al conseguimento di un premio per avvocati con una motivazione tutt’altro che onorevole.

Di certo non si può far finta che il mondo vada in direzione contraria, ma se non altro si può provare a denunciare queste pratiche ed evitare che “tutto sia normale”.

Cosa è successo “dopo”

Se la caduta sulla buccia di banana sembrava fosse stata sufficiente ad alimentare una polemica in cui un po’ tutti hanno sentito il bisogno di dire la propria spingendo la reputazione del brand Elisabetta Franchi verso il basso per buona pace di chi continua a sostenere che “basta che se ne parli”, a peggiorare la situazione sono state nell’ordine:

Le regole della comunicazione in casi come questo suggerirebbero un decoroso silenzio, se non altro perchè quelle parole le hanno sentite attraverso un video che lascia adito a pochi dubbi. Giustificarsi con il solito motivetto del “mi hanno frainteso” e sottolineare il rispetto per le donne e per la parità di genere, richiamando i numeri di dipendenti under e over impiegati attualmente in azienda, a mio avviso non fa che peggiorare la situazione.

Soprattutto se conosci le regole spietate dell’informazione più bieca e sai che di fronte a una così ampia attenzione ci sarà subito qualcuno dei tuoi nemici pronto a una “soffiata” e un giornale alla ricerca di click facili.

Con questo articolo, si smonta immediatamente qualsiasi tentativo di giustificazione. Adesso sarà ancora più difficile dimostrare che la teoria del lavoro H24 fosse solo una battuta grossolana. E ancora di più cercare di dare un’immagine diversa da quella percepita, quando nell’arco della stessa settimana vengono pubblicate anche testimonianze dirette di qualche collaboratrice od ex collaboratrice che evidentemente opera in un ambiente non così idilliaco come si vuol far credere.

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