Emergenze, non sappiamo ricostruire altro che l’ipocrisia: qui stanno in piedi solo i crolli

A Messina ancora si lavora sul terremoto del 1908. E lo stesso vale per L’Aquila, San Giuliano e Macerata. L’Italia in emergenza perenne ha da farsi perdonare gli sprechi e tanta malafede.

Sono ancora oltre 19.000 gli sfollati dei terremoti del 2016 nelle Marche, la Regione più colpita dalle scosse, che ha riportato oltre il 50% dei danni. Sei anni dopo è ancora piena emergenza, prorogata di anno in anno per decreto dal Governo.

Di questi sfollati 13.400 sono della provincia di Macerata, che è stata danneggiata per circa il 65%. A sei anni di distanza solo nel maceratese ci sono ancora 3.385 persone nelle soluzioni abitative di emergenza, le casette provvisorie destinate a durare al massimo dieci anni, termine illusorio con una ricostruzione in gran parte da realizzare.

Ci sono ancora 262 persone nei container; attualmente il campo container più grande è quello di Tolentino, dove vivono ancora 127 persone. Il loro costo ammonta a una cifra compresa tra i 13 e i 15 milioni di euro secondo i dati dell’amministrazione comunale, prima per l’affitto, poi per l’acquisto del terreno e il riscatto dei container e la loro manutenzione. Il campo sarà chiuso a fine dicembre e diventerà un centro per la Protezione civile locale.

Terremoto nelle Marche, tra Macerata e macerie c’è poca differenza: colpa dell’incuria

Per le soluzioni abitative di emergenza la Protezione civile nazionale, consapevole dell’alto rischio sismico dell’Italia, aveva pronto un appalto preventivo che però non è stato indenne da criticità. Le soluzioni abitative prefabbricate hanno mostrato i loro limiti: si sono dovuti rifare pavimenti e tetti, e sono sottoposte a una manutenzione continua; in diversi centri hanno dato luogo a problemi di muffa.

Nel cratere marchigiano resistono solide le casette di legno destinate agli sfollati del terremoto del 1997, che colpì duro tra Marche e Umbria, provocando solo un quinto dei danni rispetto al 2016, nelle Marche. Sono solide e in tanti hanno scelto di acquistarle e viverci: le distese ordinate dei villaggi in legno si trovano soprattutto a Serravalle di Chienti (Macerata), il Comune che fu praticamente raso al suolo, ma che è rinato come una fenice grazie a una ricostruzione da tutti indicata come un modello, gestita congiuntamente dal Centro operativo misto, che comprendeva Regione ed enti locali.

Le case ricostruite dopo il 1997 hanno resistito perfettamente a Serravalle di Chienti, mentre in altri centri si sono danneggiate di nuovo le stesse strutture del terremoto precedente. È un percorso a ostacoli, la vita dei terremotati, schiacciati dalla burocrazia imperante. Una volta l’anno devono presentare i documenti che attestano il mantenimento dei requisiti per continuare a stare nelle SAE o a percepire il contributo di autonoma sistemazione; devono attendere le peripezie parlamentari dei decreti governativi per sapere se le rate dei loro mutui relativi a case e attività inagibili saranno sospese per un altro anno; nel 2022 la proroga è arrivata in leggero ritardo e alcune banche dal primo gennaio hanno fatto scattare l’addebito della rata, salvo poi essere costrette a tornare sui loro passi da un decreto.

Persino le macerie da portare via non sono ancora terminate. Tanti borghi, paesi e frazioni devastati dalle scosse sono un fermo immagine di quanto accaduto quei terribili giorni dell’autunno del 2016. Cresce solo l’erba tra le crepe, imperversano ancora zone rosse, silenzio e distruzione. Il programma da 5 milioni di euro di demolizioni che interessa centinaia di edifici nei centri tra i più colpiti delle Marche, con ben 17 interventi distinti tra Arquata del Tronto, Castelsantangelo Sul Nera, Visso, Ussita e Pieve Torina, sarebbe dovuto partire con il grosso degli interventi entro l’autunno. Di fatto è ancora in piena fase burocratica, con le gare in corso per affidare i lavori.

L’Italia delle emergenze ancora in corso: si lavora ancora sui terremoti di un secolo fa

Le case ricostruite secondo i dati al 30 settembre scorso erano 4.937, pari all’11% degli edifici danneggiati. Sino a quella data sono state presentate 13.089 richieste di contributo, pari al 29% del totale degli edifici danneggiati, per una cifra che ammonta a 5,6 miliardi. I contributi concessi dall’ufficio speciale ricostruzione sono 3,2 miliardi. I danni di tutto il cratere del sisma del centro Italia ammontano a oltre 27 miliardi di euro; sino ad oggi ne sono stati spesi circa 4,8.

A causa dei terremoti, tra il 1962 e il 2018 sono morte 5.018 persone. Secondo i dati forniti dal commissario Giovanni Legnini a un seminario tecnico, ogni anno si spendono 3 miliardi di euro per ricostruire quelle zone d’Italia devastate dalle scosse, per un totale di 191 miliardi di euro di danni a prezzi correnti, dal terremoto del Belice in Sicilia nel 1968 sino ad oggi.

Attualmente, ha stimato Legnini, sono sette le ricostruzioni in corso, oltre al sisma del 2016-2017: la ricostruzione post sisma 2009 all’Aquila, quella di Ischia del 2017, dell’Emilia-Romagna del 2012, e inoltre in Molise, Mugello e Catania. A ogni terremoto le sue procedure e le sue regole.

È tuttora aperta, con ventimila pratiche pendenti presso la Regione, la ricostruzione post terremoto dell’Irpinia: a oltre quarant’anni di distanza, per completarla sono stati stanziati dalla Campania 120 milioni di euro; fino al 1991, anno della commissione di inchiesta guidata da Oscar Luigi Scalfaro, erano stati spesi 25,8 miliardi di euro.

A Messina è terminata un anno fa la demolizione delle baracche dove vivevano ancora circa 2.000 persone, eredità del terremoto del 1908.

La “corresponsabilità” dei morti nei terremoti

Tra i processi e le condanne conseguiti a queste vicende non è mai accaduto che le vittime abbiano tenuto un comportamento che le rende corresponsabili della loro stessa morte. Questo fino a pochi mesi fa.

Non più tardi dello scorso ottobre la giudice Monica Corsi del tribunale dell’Aquila, nella richiesta di risarcimento per un palazzo il cui crollo provocò 24 morti, ha avuto il coraggio di scriverlo testualmente nella sentenza. “È fondata l’eccezione di concorso di colpa delle vittime, costituendo una condotta incauta quella di trattenersi a dormire nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del sei aprile”, si legge nel testo, che stima un concorso di colpa del 30%.

Alle prime scosse, quindi, è il caso di precipitarsi fuori, perché se tutto crolla, chi rimane dentro sarà ritenuto responsabile dei danni e anche in parte della propria morte, secondo l’interpretazione che ha fatto indignare tante persone.

Questo gioco alla deresponsabilizzazione, il non stabilire mai le colpe, condanna l’Italia a rincorrere nel tempo un susseguirsi di emergenze, che in mancanza di una chiara cornice normativa permettono di derogare alle leggi ordinarie e dirottare fiumi di denaro per ottenere obiettivi urgenti, che spesso non sono risolutivi in un’ottica a lungo termine.

La sicurezza scolastica, la sicurezza di tutti. Ma nessuno pensa a prevenire

L’ipocrisia che grida vendetta è quella legata alla tragedia di San Giuliano di Puglia, dove una scossa di magnitudo 5.7 fece crollare il tetto della scuola elementare, alle 11.32 del 31 ottobre 2002. Morirono 27 bambini e la loro maestra, vittime della criminale noncuranza di chi costruì l’edificio, senza rispettare le minime norme di sicurezza.

Per quei bambini e per la loro maestra, sulla sicurezza scolastica, purtroppo non scorrono ancora i titoli di coda. Secondo i dati di Cittadinanzattiva non si conosce l’anno di costruzione del 26% delle scuole; il 42% è stato costruito prima del 1976; più della metà non ha l’agibilità (quasi il 58%) e nemmeno il certificato di prevenzione incendi (54%). In teoria gli edifici senza collaudo statico non si possono utilizzare, ma oltre il 41% delle scuole ne è sprovvisto.

La parola manutenzione è stata per anni una sconosciuta per gli enti locali; per decenni non si è mai investito per garantire la sicurezza del patrimonio edilizio scolastico. Nel 2021 i lavori di ristrutturazione hanno riguardato solo il 7% delle scuole esistenti. Migliaia e migliaia di cittadini sono inconsapevoli dei rischi che corrono e ignorano di vivere vicino a una bomba a orologeria.

Anche se non si può prevedere il momento in cui ci sarà un’emergenza da calamità naturale, prevenire investendo sui fattori strutturali del territorio di riferimento potrebbe essere una strada percorribile.

In questo senso la politica è gravemente miope. Lo dimostra la gestione del fondo per la prevenzione del rischio sismico, istituito con la legge 77 del 2009, costituito presso il ministero dell’Economia e delle Finanze e destinato a coprire gli interventi per la prevenzione del rischio sismico su tutto il territorio nazionale. La prima parte, di 965 milioni di euro, ha coperto solo l’1% del fabbisogno totale per la messa in sicurezza degli edifici. Lo si legge nella sezione dedicata, sul sito della Protezione civile nazionale: “La spesa autorizzata è di 44 milioni di euro per l’anno 2010, di 145,1 milioni di euro per il 2011, di 195,6 milioni di euro per ciascuno degli anni 2012, 2013 e 2014, di 145,1 milioni di euro per l’anno 2015 e di 44 milioni di euro per il 2016. L’attuazione dell’art.11 è affidata al Dipartimento della Protezione Civile e regolata attraverso ordinanze del Presidente del Consiglio dei ministri. La cifra complessiva, che ammonta a 965 milioni di euro, pur se cospicua rispetto al passato, rappresenta solo una minima percentuale, forse inferiore all’1%, del fabbisogno necessario al completo adeguamento sismico di tutte le costruzioni, pubbliche e private, e delle opere infrastrutturali strategiche. Tuttavia, questa operazione consentirà la messa in sicurezza di altre strutture pubbliche proseguendo nei programmi già avviati dopo il terremoto di S. Giuliano di Puglia e potrà favorire un deciso passo avanti nella crescita di una cultura della prevenzione sismica da parte della popolazione e degli amministratori pubblici”.

Il fondo è stato rifinanziato con 50 milioni di euro per il 2019, briciole rispetto alla necessità di rendere più forti contro le scosse edifici pubblici e privati: meglio spendere tre miliardi l’anno per ricostruire in decenni dopo un terremoto che investire risorse per aumentare la sicurezza degli edifici e salvare le vite della gente.

I regolamenti comuni per le ricostruzioni restano lettera morta nel cassetto del Governo

Un tentativo di dettare regole comuni per ricostruire è stato attuato per il cratere sismico del Centro Italia. Giovanni Legnini ha adottato il testo unico sulla ricostruzione privata, firmandolo il 15 dicembre 2022 e consegnando negli ultimi mesi del suo mandato anche la delega al Governo per scrivere il codice unico della ricostruzione, di cui finora non si vedono tracce nelle attività parlamentari.

A ogni emergenza in Italia c’è una certezza: si ricomincia da capo. Si piangono i morti, si attiva la Protezione civile, sfilano in passerella mediatica politici dei diversi schieramenti, si promettono provvedimenti mai attuati. E le tragedie si rinnovano, in una sorta di coazione a ripetere, determinata non dal fato o dall’ineffabile destino, ma dalla noncuranza umana, che a volte sfocia in omissioni criminali.

Ne sono un esempio due delle tragedie più recenti, le alluvioni a Senigallia e a Ischia, dove sono morte persone travolte dal fango.

Era il maggio 2014 quando il Misa, il fiume che scorre nel cuore di Senigallia inondò la città. Si parlò di realizzare una cassa di espansione in località Brugnetto, ma nulla è stato fatto e la tragedia, allora più contenuta con il conto di soli tre morti, si è ripetuta di fronte all’imprevedibilità di un nubifragio eccezionale.

Stesso film a Ischia: si stacca dal fronte della montagna un fiume di fango e travolge una trentina di case, dodici le vittime. Già un secolo fa, il 24 ottobre 1910, il Comune di Casamicciola fu colpito da un’alluvione, con il fango nato dal monte Epomeo, che causò tredici vittime. Un territorio di origine vulcanica fragile, su cui nonostante le conoscenze avanzate di quest’epoca si è continuato a costruire come se nulla fosse. Episodi che dimostrano come la collettività non impari quasi mai nulla dalle tragedie, per prevenire eventuali calamità e disastri nel futuro.

Eppure il dissesto idrogeologico non è un’ipotesi remota in Italia, ma interessa secondo l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione dell’Ambiente) oltre il 93% dei Comuni italiani, con 1.300.000 persone che rischiano di essere coinvolte nelle frane (pari a 548.000 famiglie), e 6.800.000 persone (pari a 2.900.000 famiglie) sono sotto la spada di Damocle delle alluvioni, secondo i dati del Rapporto ISPRA sul dissesto idrogeologico in Italia del 2021. Sono 565.000 gli edifici che si trovano in una zona molto pericolosa per frana, mentre sono un milione e mezzo quelli che rischiano di essere coinvolti in alluvioni.

Quante altre tragedie servono prima che cominciamo a prendere provvedimenti prima che i disastri siano avvenuti?

Leggi gli altri articoli a tema Welfare.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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In copertina e dentro l’articolo, foto di Angelo Giordano da Pixabay

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