Le mamme da Bonus sono una minoranza privilegiata

La misura del Governo, arrivata in ritardo, si riferisce solo a chi ha già tre figli (o due, entro il 2024) e un contratto a tempo indeterminato, e non è cumulabile con altri bonus. A bocca asciutta le lavoratrici precarie e autonome. Samanta Boni, ACTA: “Un’elemosina che non scalfisce i veri ostacoli alla natalità”

13.02.2024
Bonus mamme, una donna incinta di profilo con delle banconote in mano

Da pochi giorni è stata pubblicata la circolare INPS che rende operativo il cosiddetto “Bonus mamme”, una misura prevista dalla legge di Bilancio 2024 che prevede l’esonero della contribuzione previdenziale del 9,19% fino a un massimo di 3.000 euro annui da riparametrare su base mensile (250 euro al mese) per le lavoratrici madri in presenza di determinate condizioni.

Nello specifico varrà “per i periodi di paga dal 1 gennaio 2024 al 31 dicembre 2026 alle lavoratrici madri di tre o più figli con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato”, fino al compimento del diciottesimo anno d’età dell’ultimo figlio e, in via sperimentale solo per il 2024, “alle lavoratrici madri di due figli, con rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, a esclusione delle lavoratrici del settore domestico”. Nel caso in cui “il requisito di essere madre di tre o più figli si perfezioni in un momento successivo alla data del 1 gennaio 2024, l’esonero trova applicazione a partire dal mese della nascita del terzo figlio”, spiega la circolare. Lo stesso vale per il secondo figlio, ma di nuovo, solo per l’anno 2024.

Per quanto riguarda le modalità di richiesta, l’INPS precisa che “le lavoratrici interessate all’agevolazione possono rivolgersi ai propri datori di lavoro oppure utilizzare la funzionalità che sarà resa disponibile sul portale, dalla data e con le modalità che saranno rese note con uno specifico messaggio”.

Come funziona il Bonus mamme: esclusa almeno una lavoratrice su due

Analizziamo più a fondo la disposizione. Innanzitutto si parla solo di lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato, escludendo fin da subito chi ha un contratto a termine e le libere professioniste.

Nel 2023 secondo l’ISTAT il numero di occupati è stato di oltre 23.700.000, di cui circa 18 milioni di dipendenti e 5 milioni di autonomi. Tra i dipendenti, oltre 15.700.000 sono a tempo indeterminato e i restanti sono lavoratori e lavoratrici con contratti a termine. Degli oltre 23 milioni di occupati complessivi, le donne sono circa 10 milioni. Di queste, stando alle ultime rilevazioni dell’INPS relative al 2022, circa 6 milioni, quindi poco più della metà, sono dipendenti. All’interno di questi 6 milioni, sono circa 1.200.000 le lavoratrici impiegate con contratti a tempo determinato.

Provando a tirare le somme, già circa la metà delle lavoratrici è esclusa da questa disposizione solo in base alla tipologia di contratto. Inoltre la maggior parte dei nuovi inserimenti lavorativi delle donne, già a partire dai dati 2021, avviene con contratti a tempo determinato, stagionali o in somministrazione.

Un altro punto di attenzione è rappresentato dal numero di figli: in uno scenario in cui il tasso di fertilità è fermo a 1,25 figli per donna con un’età media al parto di 32 anni, l’agevolazione guarda solo alle donne con tre figli o due (il più piccolo deve inoltre avere un’età inferiore ai dieci anni), ma in quest’ultimo caso solo per il 2024. Che tra l’altro sono quelle con i più bassi tassi di occupazione, in particolare per la fascia d’età 25-34 anni – senza considerare il trend negativo a partire dal 2020 delle dimissioni per motivi famigliari, legate alla difficoltà di conciliazione lavoro-vita privata. Un punto non banale, che sembra non tenere conto dell’evoluzione della società e del mercato occupazionale.

C’è poi da dire che la misura non è cumulabile con il taglio del cuneo fiscale a carico dei lavoratori, a esclusione della tredicesima, nella misura del 6% per redditi fino a 35.000 euro annui e del 7% per quelli sotto i 25.000. Pertanto interessa soprattutto le lavoratrici collocate in una fascia di reddito medio-alta.

La durata del Bonustransitorio, con solo tre anni, e sperimentale – mette di nuovo l’accento sulla mancanza di interventi strutturali a favore delle donne che lavorano, inseguendo una logica assistenzialistica.

Un’“elemosina” che ignora le lavoratrici autonome

Su questo fronte l’ACTA, associazione dei freelance, non fa sconti.

“Non si procede mai a una riforma strutturale su questi temi, quindi tutte le persone che lavorano in modo precario rimangono escluse da questo tipo di indennità. Non sono misure pensate per il lungo termine, senza considerare il fatto che anche per la maternità classica, di cinque mesi, a volte ci sono degli enormi ostacoli, ci sono una serie di problematiche che continuiamo a portarci dietro invece di capire che il mondo del lavoro è cambiato”, commenta Samanta Boni, consigliera ACTA e responsabile degli sportelli malattia e maternità.

“Critichiamo fortemente la miopia del Governo, che dimentica la maggior parte delle madri. La misura infatti andrà a favore di una ristretta minoranza di madri lavoratrici con contratto a tempo indeterminato e con almeno due figli, di cui il più piccolo sotto i dieci anni di età. Dal 2025 al 2026 poi interesserà solo chi ha almeno tre figli. E dal 2027 che succederà? Restano escluse tutte le madri con partita IVA, le collaboratrici precarie, ma anche le dipendenti con contratti a tempo determinato, o banalmente tutte le madri con un figlio solo. Ciò che ravvisiamo come ancora più grave è la totale mancanza di una visione universalistica di lungo termine che vada davvero a sostegno della genitorialità e favorisca la natalità”, prosegue.

Un provvedimento, dunque, che sembra non tenere conto dell’evoluzione della natalità in Italia e del trend del mercato del lavoro, oltre a non affrontare il tema alla radice, ossia i numerosi ostacoli alla natalità in Italia: “Invece di incentivare le persone a fare figli, si premiano solo quelle che li hanno già e che hanno una situazione lavorativa stabile, senza chiedersi quali siano oggi i veri ostacoli alla natalità. Tra questi: stipendi bassi, condizioni lavorative precarie, difficoltà di accesso a servizi per l’infanzia, cura a carico prevalente delle donne. Continuando a intervenire con elemosine e bonus vari, del tutto frammentari e limitati nel tempo oltre che nei requisiti di accesso, non si può pensare di risolvere macro-questioni come quella del sostegno alla natalità”, continua la Boni.

Altro che bonus: alcune proposte di modifiche strutturali a sostegno della genitorialità

Quantomai urgente, quindi, è ragionare su misure alternative: “Occorre superare la divisione per tipologia di lavoro e/o cassa previdenziale di appartenenza, soprattutto quando si tratta di welfare, e dunque di questioni di vita che possono riguardare chiunque in qualsiasi momento della propria esistenza. Si potrebbe agire sulla falsariga dell’Assegno Unico e dunque garantire a tutti i genitori con minori a carico la possibilità di accedere a sussidi specifici in base al numero di figli e al reddito. Anche la semplice maternità di cinque mesi a cavallo del parto o subito dopo non è garantita a tutte, come nel caso delle lavoratrici autonome, di cui continuiamo a occuparci attraverso proposte mirate a eliminare questa esclusione”.

Quella del Bonus mamme dunque non è l’unica misura a tutela della genitorialità che esclude alcune fasce di lavoratrici. “Un altro esempio è rappresentato dal congedo parentale: nel 2022 e poi nel 2023 la legge di Bilancio ha introdotto un mese di congedo parentale all’80% e poi un secondo mese sempre all’80% per chi ha terminato la maternità al 31 dicembre 2023, oltre agli altri mesi già previsti al 30%. Anche questa misura è molto discriminante perché pensata solo per chi ha un lavoro dipendente. Per le iscritte alla gestione separata, le autonome artigiane e commercianti e le libere professioniste con cassa privata nel 2021 c’è stato inoltre un sostegno alla maternità piuttosto ridicolo, vincolato a un reddito percepito nell’anno precedente l’inizio della maternità piuttosto basso”, conclude la consigliera ACTA.

Parafrasando una vecchia canzone si può dire che no, non sono tutte belle – e, aggiungeremmo, uguali – le mamme del mondo. Dopo questa misura, poi, in Italia lo sono ancora meno.

 

 

 

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Photo credits: ilprimatonazionale.it

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