Nessuno fallisce come l’Italia: è ancora record in Europa

Nonostante una diminuzione congiunturale nell’ultimo trimestre, in Italia il numero di crisi aziendali dall’esito fallimentare cresce rispetto all’anno precedente. Il magistrato Massimo Ferro: “Gli strumenti per evitarli ci sono, ma gli imprenditori aspettano sempre troppo”

06.11.2023
"Chiuso per fallimento": un cartello testimonia l'Italia delle crisi aziendali

L’Italia è il Paese dove anche le procedure fallimentari sono peggiori rispetto agli altri. A dirlo è Massimo Ferro, giudice delegato ai fallimenti e alle esecuzioni fallimentari, che abbiamo incontrato all’InsolvenzFest a Bologna e che da anni si trova a combattere con il diritto fallimentare, ma soprattutto con le aziende che non sono più in condizione di pagare fornitori e lavoratori. E con le pessime abitudini di molti imprenditori italiani.

Non stiamo parlando soltanto delle crisi aziendali di cui SenzaFiltro tratta con regolarità, ma anche della miriade di piccole realtà (anche di meno di cinquanta lavoratori) che da un giorno all’altro chiudono bottega, lasciando molte persone con un pugno di mosche. Quelle che sia secondo i dati ISTAT e Cerved del 2023 sono le più esposte: le cosiddette Piccole e Medie Imprese. Che con un po’ di buona volontà potrebbero essere tutelate.

“L’Italia sta per recepire la terza direttiva europea”, dice Ferro, “quella sull’insolvenza, ma ne ha già recepite due. Una in particolare sulle ristrutturazioni aziendali. Anche se c’è ancora molto lavoro da fare”.

Crisi aziendali, prevenire si può, “ma gli imprenditori aspettano troppo”

Esistono strumenti previsti dal diritto che consentono di evitare chiusure e fallimenti, ma sono in pochi ancora oggi ad applicarli. Si tratta soprattutto di una questione culturale e di un modo di procedere che in Italia non è ancora diffuso.

Si aspetta sempre troppo”, continua Ferro. “Sono gli imprenditori a intervenire all’ultimo momento, quando spesso non c’è più nulla da fare. Eppure ci sono strumenti di ristrutturazione aziendale come il concordato preventivo, con i quali si potrebbe evitare la liquidazione o il fallimento”.

Strumenti ai quali, però, ancora in pochi ricorrono. “Questo perché ci sono molti gradini intermedi”, continua. “Non voglio accusare nessuno, e mi rendo conto che ognuno svolge il proprio lavoro, ma spesso l’intervento dei professionisti (commercialisti e avvocati) rallenta l’iter”.

In generale il magistrato punta il dito anche contro una burocrazia che rende spesso difficile gestire le crisi d’impresa, che possono anche trascinarsi per anni. Se si intervenisse prima in caso di crisi aziendali si potrebbero magari trovare nuovi acquirenti o fondi disposti a intervenire in realtà dove sono a rischio molti posti di lavoro. Inoltre dietro alla mancata applicazione delle direttive e delle leggi non di rado si trovano i casi di aperture e chiusure di aziende nel giro addirittura di poche ore.

Come ti ripulisco l’impresa: alcuni esempi di giochi di prestigio

Basta un operaio complice o un parente, a volte, per ripulire una società dai debiti e dall’esposizione.

È successo qualche anno fa in provincia di Pavia a una falegnameria con quindici dipendenti. I lavoratori sono arrivati a lavoro una mattina e hanno trovato tutto chiuso. C’erano tutti tranne uno, un operaio egiziano, che nel giro di qualche giorno ha riaperto la stessa attività da un’altra parte.

In provincia di Bologna un’impiegata si è trovata da un giorno all’altro come unica dipendente di una nuova società, senza più i colleghi. Addirittura le è stato chiesto se poteva intestarsi le quote dai proprietari. Sono solo due esempi dei quali l’Italia è costellata, tra aziende fantasma e furbetti che si insinuano, sfruttando spesso i tempi biblici della giustizia. Perché per arrivare alla fine di una procedura ci possono volere anni.

Cambiare azienda è facile, quindi, se lo sai fare. E spesso c’è chi rimane impunito e si rifà una verginità. Certo, su cifre piccole è più semplice, perché i lavoratori spesso preferiscono non infilarsi in un dedalo giudiziario per poche migliaia di euro, anche se negli ultimi anni le garanzie per chi lavora sono cresciute.

Quali tutele per le crisi di impresa?

Quando si viene ammessi a una crisi di impresa ci sono delle tutele maggiori, ma il diritto fallimentare garantisce anche in caso di fallimenti o liquidazioni.

Ad esempio, chi viene ammesso al passivo ha diritto a tre mesi di stipendio e al TFR. I crediti dei lavoratori dipendenti sono i più tutelati in ogni modo, e nel caso in cui non ci fosse liquidità, nemmeno proveniente dalla vendita di immobili o beni, ci pensa l’INPS.

Questo significa che i passivi delle aziende che falliscono nella maggior parte dei casi ricadono sulle casse pubbliche, cioè sulle collettività. Oltre al fatto che spesso c’è una galassia di creditori (fornitori, professionisti e anche lo Stato) che rischiano di rimanere a bocca asciutta. Anche per questo è nata la direttiva europea sull’insolvenza, la cosiddetta Insolvency III, che prevede l’obbligo per gli amministratori di presentare in modo tempestivo proposta di insolvenza e la valorizzazione del comitato dei creditori.

“Questo strumento – dice Ferro – unito alla direttiva sulle ristrutturazioni potrebbe non solo tutelare i creditori, ma anche salvare realtà societarie che sostanzialmente sono sane”.

Il numero di fallimenti migliora sul trimestre ma peggiora sull’anno

Se si analizzano i dati forniti ad agosto dall’ISTAT si può tirare un sospiro di sollievo, ma in realtà non è proprio così. Anche perché da un lato è vero che il numero dei fallimenti in Italia è in diminuzione, ma se ci si concentra sul settore industriale ci si accorge che è quello più a rischio, e che soprattutto coinvolge il numero più alto di lavoratori.

Nel complesso i dati al III trimestre dell’anno segnano una diminuzione congiunturale dei fallimenti del 3,7% che riguarda la maggior parte dei settori. Gli unici comparti in controtendenza sono l’industria in senso stretto (+2,7%) e il commercio, che risulta stazionario rispetto al trimestre precedente. Le contrazioni più evidenti sono quelle nelle costruzioni, che scendono dell’8,0% rispetto al primo trimestre dell’anno, e quelle dei servizi di informazione e comunicazione (-8,5%).

Anche in termini tendenziali, le registrazioni complessive risultano in calo (-1,6%). Le costruzioni, i trasporti e i servizi di informazione e comunicazione registrano diminuzioni particolarmente accentuate, pari rispettivamente a -12,1%, -10,7% e -9,1%. Variazioni positive si rilevano nei servizi di alloggio e ristorazione (+9,4%), nel commercio (+3,9%) e nei servizi finanziari, immobiliari, professionali e di supporto alle imprese (+1,6%). Il numero complessivo di fallimenti aumenta del 2,8% su base congiunturale e dello 0,4% su base tendenziale.

In linea di massima per l’ISTAT la situazione non è complessivamente buona. Scrive, infatti, in una nota: “La diminuzione congiunturale del complesso delle registrazioni riflette un andamento negativo in quasi tutti i settori, tranne che nell’industria in senso stretto. Sul piano tendenziale, dopo la lieve risalita delle registrazioni nel primo trimestre 2023, nel secondo si registra di nuovo un decremento, sebbene più contenuto di quelli rilevati nei periodi precedenti. Il numero totale di fallimenti risulta in crescita sia rispetto al primo trimestre dell’anno sia rispetto allo stesso trimestre dello scorso anno”.

Italia e il record di fallimenti: l’impatto sull’economia reale

Secondo i dati forniti da Cerved, l’Italia è il Paese che ha ancora in Europa il numero più alto di fallimenti, e nel mese di settembre, dopo un semestre, sono tornati a crescere.

A fare da traino sono ancora le ditte individuali (con un incremento del 27,7%), ma anche le società di capitali hanno registrato un incremento dello 0,3%. Il settore in maggiore difficoltà e più stressato è quello delle società di piccole e medie dimensioni, mentre il settore dove crescono di più i fallimenti (+44,8%) è quello dove il fatturato oscilla tra i 2 e i 10 milioni di euro. Rispetto ai dati ISTAT si registra un’inversione di tendenza nelle costruzioni, mentre l’industria sta andando decisamente male con una crescita del 5,2%. Un dato che salta all’occhio è quello del settore prodotti da forno e pasticceria, dove il numero dei fallimenti è cresciuto dell’84,6%.

L’altra sorpresa è che l’area dove la crescita delle aziende che falliscono è maggiore è quella del Nord Est, che un tempo era nota come la locomotiva d’Italia. Tra le righe si può leggere un dato di maggiore consapevolezza, rappresentato dal notevole incremento delle liquidazioni volontarie, soprattutto nel Nord Ovest.

La ricaduta sull’economia reale dei fallimenti in Italia è molto forte, come dimostrano le cifre che riguardano i lavoratori rimasti disoccupati. In tutto nel 2023 sono 81.000 quelli che hanno perso il posto di lavoro; di questi circa 53.000 a causa di liquidazioni volontarie. Il valore aggiunto che è andato perso è di poco superiore al milione di euro, mentre i debiti finanziari ammontano a due milioni e mezzo circa, e quelli commerciali a 1.800.000. Si tratta di procedure che a vario titolo impattano in modo pesante sull’economia di molte famiglie.

 

 

 

Photo credits: 24emilia.com

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