Formazione, ma di qualità: la comunicazione digitale non si impara in poche ore

La Commissione europea ha elaborato pochi giorni fa nuove linee guida pensate per far sì che i cittadini europei siano dotati delle competenze digitali necessarie a muoversi con successo nel mondo del lavoro post-COVID: offrire la “cassetta degli attrezzi” indispensabile per riuscire ad affrontare i nuovi scenari, giocoforza, cambiati. I documenti di Bruxelles sono due: […]

La Commissione europea ha elaborato pochi giorni fa nuove linee guida pensate per far sì che i cittadini europei siano dotati delle competenze digitali necessarie a muoversi con successo nel mondo del lavoro post-COVID: offrire la “cassetta degli attrezzi” indispensabile per riuscire ad affrontare i nuovi scenari, giocoforza, cambiati. I documenti di Bruxelles sono due: il rapporto “DigiComp at Work” e la “Implementation Guide”.

Secondo la Commissaria per l’Innovazione Mariya Gabriel: “Il distanziamento sociale ha trasformato il modo in cui ci connettiamo, facciamo ricerca e innoviamo, dobbiamo equipaggiare le persone con le giuste skill digitali per continuare a lavorare così”.

Se anche la Commissione europea si muove per fornire supporto a chi vuole provare a “lanciarsi” nel digitale cresce, di conseguenza, l’offerta di corsi che promettono di formare queste figure professionali, spesso da zero: con un investimento minimo e in pochi, semplici passi. In definitiva, oltre a poter imparare l’inglese senza studiare e a suonare la chitarra in dieci giorni, oggi il mercato della formazione offre la chance di diventare Web Content Editor in sole 20 ore di didattica online più 5 di didattica complementare. E le università italiane strizzano l’occhio alle imprese e propongono corsi per formare “addetti” in grado di essere “operativi” sin da subito.

 

C’è da fidarsi della comunicazione digitale?

Eppure, anche uno sguardo distratto al panorama del web mostra uno scenario a dir poco desolante: contenuti omologati e approfondimenti “soli soletti, come la particella di sodio nell’acqua Lete”. È il problema del giornalismo con l’avvento del digitale: rincorrere la notizia ed essere rapidi o dare spazio ai contenuti e alla long form?

D’altro canto, come sostiene Marcello Vitali-Rosati, siamo nell’era dell’editorializzazione, e oggi abbiamo smesso di legittimare l’autorevolezza della fonte per riconoscere, piuttosto, la validità del processo (pensiamo alla ricerca su Google), che diventa l’istanza per determinare il significato e garantire la validità dei contenuti, assumendo così le funzioni tipicamente attribuite all’autore. Ecco spiegato perché, nel mondo della stampa digitale, il nome dell’autore di un articolo è spesso relegato nella parte inferiore della pagina, dopo i contenuti pubblicitari.

Per tutti questi motivi, oggi la formazione del professionista del web non può prescindere da un’analisi attenta delle dinamiche che regolano il rapporto tra produttori e fruitori — sempre più prosumer — con il medium.

 

Un’esperienza mediale, mediata, ri-mediata

Secondo il CRÉDOC oggi siamo più connessi che mai e nel 2018 sono 4.021 miliardi le persone che accedono al web, nella maggior parte dei casi attraverso smartphone (46%) e computer (35%), in piccola parte tramite tablet (7%): utenti che fruiscono contenuti spesso pensati al di fuori del contesto di destinazione, come se il web e la carta stampata fossero in grado di sortire lo stesso effetto.

Per questa ragione, le ricerche più recenti nel campo dei Communication studies si concentrano oggi sulla messa in discussione del principio di sequenzialità. Il linguaggio parlato è costituito da una serie di parole, così come la scrittura convenzionale: abituati alla scrittura lineare della carta stampata, diamo quindi per scontato che la scrittura sia sequenziale tout court. Nel web questo processo viene smaccatamente meno: perché pensare in sequenza sul digitale degrada la struttura della rete del testo, ma anche perché la conformazione della rete, polisemica, ipertestuale e intrisa di rimandi, supera l’idea secondo cui esiste un’unica esperienza di lettura, adatta proprio a tutti.

Certo, la sequenzialità del testo si basa sulla sequenzialità del linguaggio parlato, della stampa e della rilegatura. Ma pensare e scrivere in sequenza è davvero un fatto così naturale?

 

Il corpo alla prova della macchina

Oggi il binarismo natura-cultura è sempre più spesso oggetto di critica: la nostra esperienza sottolinea di continuo il modo in cui la tecnologia è in grado di penetrare il quotidiano e il legame tra organismo e macchina è sempre più stretto. Come sostiene Donna Haraway nel saggio A Cyborg Manifesto (1985), è difficile individuare il confine tra organismo e macchina, e il rapporto tra i due è appunto una guerra di confine.

La difficoltà nel delineare un confine di questo tipo è evidente anche nelle redazioni, sempre più inclini all’introduzione di strumenti ad hoc, che attraverso tecniche avanzate di machine learning permettono ai giornalisti di usufruire di algoritmi per l’analisi e la classificazione di dati e contenuti in tempo reale. Secondo il rapporto New powers, new responsibilities, realizzato dalla London School of Economics POLIS in collaborazione con Google News, le ragioni sono innanzitutto legate al contenimento delle spese: un giornalismo più efficiente (68%) e arricchito di contenuti modellati sul target group di riferimento (45%), ma anche la riduzione dei costi e più efficienza in azienda (18%).

Inoltre, nel corso della quinta World Internet Conference di Wuzhen (2018), l’agenzia di stampa cinese Xinhua e il motore di ricerca Sogou lanciano Al Anchor, il primo anchorman al mondo prodotto da intelligenza artificiale, instancabile e potenzialmente replicabile all’infinito. Dinamiche come questa, quindi, ci mettono di fronte a un evidente quesito di tipo pratico: in futuro continuerà a essere necessaria la presenza di un giornalista in carne e ossa?

 

Testi aperti o testi chiusi nella comunicazione digitale?

Inoltre, una struttura di pensiero non è di per sé sequenziale: si può parlare, piuttosto, di un sistema di “tessitura di idee”. L’assunto è che nessuna idea sia necessariamente concepita prima o dopo le altre e la disposizione in sequenza è un processo inevitabilmente arbitrario. In definitiva, come sostiene Pierre Lévy, la mente umana non è un centro organizzatore attorno a cui ruotano le tecnologie intellettuali come satelliti al suo servizio, bensì una disposizione centrale e senza sole, costituita da satelliti.

Sotto un certo aspetto, si tratta del modello enciclopedico proposto da Umberto Eco nel saggio Lector in fabula (1979), che propone il superamento del modello dizionariale, basato sull’idea di un legame definito tra significante e significato, a favore di una semantica a enciclopedia, che individua nel significato l’insieme di tutti gli interpretanti di uno stesso significante. Per descrivere l’enciclopedia, Eco si serve della metafora del rizoma, intesa come una sorta di rete, un labirinto aperto e multidimensionale, in cui ciascun punto può essere connesso con qualsiasi altro attraverso uno schema privo di un centro e di una periferia. E, così come nel rizoma, anche l’enciclopedia permette di fornire descrizioni globali e costruire mappe locali, all’interno di un sistema in cui muoversi significa elaborare inferenze.

Di conseguenza, la prassi di elencare e numerare, inserire titoli e grassetti negli articoli destinati al web diventa una scelta che non si ripercuote solo sul lato cognitivo, per facilitare l’operazione di lettura e organizzazione dei contenuti, e pone in modo evidente il problema della cooperazione interpretativa. Oggi numerosi testi destinati alla stampa digitale rientrano fra quelli che Eco definirebbe “testi chiusi”: codificati in termini di audience-target e progettati per un “Lettore Modello” definito. Questi testi gestiscono la cooperazione in modo repressivo e il loro scopo è uno: stimolare una reazione; a differenza dei “testi aperti”, in cui l’autore decide fino a che punto controllare la cooperazione del lettore, dove dirigerla e suscitarla, per trasformare la fruizione in una libera avventura interpretativa.

 

I meccanismi dell’ipertesto

In passato, la stampa cartacea ha permesso di ottenere questo risultato attraverso la redazione di testi diversi su argomenti simili: pubblicati in luoghi e in modi diversi e destinati a un tipo di pubblico eterogeneo. In seguito la diffusione del web ha cambiato le carte in tavola, e oggi diventa necessario prendere in esame orientamenti nuovi, che permettano di proporre a lettori differenti delle scelte diverse per approcciarsi allo stesso testo.

Già negli anni Ottanta, Ted Nelson prevedeva la necessità di un cambiamento del paradigma epistemologico, a partire dalla gestione di quello che definiva «un grande deposito unico, dove ogni testo potrà essere ugualmente accessibile». Ma se, come sostiene Pierre Lévy, la lettura è una questione di scelta, di schematizzazione e di creazione di una rete di riferimenti interni al testo (ma anche di associazione tra idee, e di integrazione di parole e immagini capaci di stimolare la memoria personale, in continua ricostruzione), allora le tecnologie ipertestuali costituiscono una forma di oggettivazione, di esternalizzazione e di virtualizzazione dei processi associati all’attività di leggere.

In definitiva, l’ipertesto smette di essere soltanto una questione funzionale alle strategie di indicizzazione che, come nel caso di Page Rank, possono essere concepite in chiave semiotico-generativa come un programma narrativo che si oppone al controprogramma dell’Anti-Soggetto. L’ipertesto è piuttosto legato alla definizione di una nuova grammatica e di una nuova sintassi, che permettono al lettore di interpretare il testo in maniera cooperativa attraverso la messa in campo di inferenze e di uscire metaforicamente dal testo. Per innescare topic: scelte che orientano il processo di attualizzazione semantica, magnificando o narcotizzando significati; per recuperare intertesti: testi incastonati all’interno di altri, come nel caso della citazione, del pastiche e della parodia. E per attivare frame: strutture di dati comuni, che confermano o smentiscono le aspettative. Non a caso, Eco le definisce passeggiate inferenziali.

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