Franco Arminio: “L’Italia muore da tempo di abbandono e pochi desideri. Non c’è solo il COVID-19”

Il 70% dei paesi italiani ha meno di diecimila abitanti, ma l’Italia è tarata sui bisogni del restante 30%. Le nuove geografie del lavoro e delle relazioni tratteggiate dal poeta Franco Arminio, fondatore della Casa della Paesologia.

Non vedo l’ora di leggere o sentire i commenti di chi pensa sia inaudito per un poeta parlare di politica. Consiglio subito in premessa, allora, di aprire la pagina Facebook di Franco Arminio e di recuperare dai post quanto attivismo dei sentimenti ci sia dentro quello che pensa prima ancora di scriverlo, e quante suggestioni e progetti concreti elargisca a politici e sindaci per rimettere un po’ di ossigeno nelle flebo dei paesi italiani. Mentre l’Italia muore da decenni per incuria politica, i tavoli istituzionali si preoccupano di far pressione sui cittadini a colpi inauditi di paura e di emergenza. È poeta, scrittore e regista ma soprattutto si è autodefinito paesologo sdoganando una necessità italiana a cui nessuno aveva pensato.

“Penso a una guardia medica della poesia che apre una volta alla settimana in paese. Ogni settimana un poeta diverso. Il poeta sta nella sua stanza e legge i suoi versi o racconta qualcosa a chi va a trovarlo. Ovviamente il poeta fa anche visite domiciliari, va a trovare un malato, passa un poco di tempo con lui. Oppure va a trovare uno scapolo che vive da solo, o un anziano che ha voglia di compagnia. Nei momenti liberi il poeta sta per i fatti suoi, scrive o guarda il paese, lo usa come una cura per i suoi nervi. Un’altra proposta per i sindaci è una piccola casa della gioia al centro del paese: la funzione è diffondere buone notizie in luoghi in cui in genere ne circolano solo di cattive. Si prende un giovane attore pieno di entusiasmo e gli si affida questa funzione di accendere un focolaio di buon umore. Nella casa della gioia si porta una crostata, si festeggiano compleanni fuori dal cerchio ristretto dei propri famigliari, si ospitano persone a cui sono accadute cose belle, uno che è guarito da un tumore, uno che ha aperto un negozio che sta andando assai bene. Si canta e si suona, si raccontano storie mirabili. È la casa per combattere la sfiducia, il vittimismo, è un modo per farla finita con gli scoraggiatori militanti.”

Quando ho chiamato Franco Arminio qualche giorno fa per intervistarlo, che fosse il 23 novembre mi sono accorta solo dopo aver chiuso il telefono mentre scrivevo la data per salvare il file; coincidenze che fanno bene alla scrittura. Il 23 novembre del 1980 spaccò per sempre lui e l’Italia col terremoto dell’Irpinia, che ancora fa tremare per l’ignavia nelle ricostruzioni dei palazzi e delle speranze: sull’Italia che finora ha tremato, e su quelle che lui chiama “parole dalle terre mosse”, un piccolo capolavoro è il suo ultimo libro Lettera a chi non c’era (Bompiani 2021).

Quella sera Franco Arminio aveva vent’anni e viene da pensare che una parte di lui ne abbia ancora venti se conserva simili energie e dedizioni che destina da anni alla solitudine dello spopolamento. Spopolamento figlio di una incuria politica a cui continuiamo a delegare le nostre vite pur sapendo che non le interessa ricostruire i nostri luoghi, le infrastrutture, i collegamenti, gli spazi di aggregazione risucchiati dal digitale, i ponti virtuali grazie a coperture di rete Wi-Fi che possano dare un senso a vite più isolate per scelta o per bisogno. Un’incuria della cosa pubblica che ha compresso da ogni lato le cose private.

“Bisogna occuparsi della salute emotiva delle persone, non basta salvarci dal COVID-19. Ieri uno ha ucciso suo figlio, oggi un altro ha ammazzato tutta la famiglia. In questi anni ci siamo occupati pochissimo dell’abisso in cui finiscono tante persone. Una società che pensa solo al PIL è una società profondamente malata. Chi oggi ci racconta che sta facendo di tutto per salvarci dal COVID-19 dovrebbe riconoscere che negli ultimi trent’anni ha molto indebolito la sanità pubblica e non si è fatto nulla di significativo per la salute mentale. La comunità nei paesi e nelle città ormai è solo una parola, ma i nostri governanti parlano di soldi e nient’altro.”

La Great Resignation all’italiana parla altre geografie

Un dato può aiutare a comprendere che non stiamo parlando di un problema di pochi: il 70% dei paesi italiani ha meno di diecimila abitanti. Il 70%. 

Per decenni ci siamo però dedicati a costruire la vita e il lavoro degli italiani solo dentro un 30% del Paese, saturandolo. Noi stessi siamo stati complici del disastro accettando di vivere ammassati e intasati su strade, nei bar e nei ristoranti, sui mezzi pubblici, negli appartamenti in affitto a prezzi folli. Spesso solo per un lavoro.

La pandemia sta rilasciando i primi effetti umani dello scollamento tra ciò che siamo e ciò che facciamo – col perché in mezzo, finalmente – e il fenomeno che ancora una volta stiamo importando con gergo americano è Great Resignation, ma noi italiani per una volta dovremmo fare lo sforzo di ritagliarci qualcosa su misura. Se davvero sta iniziando anche da noi a dilagare il bisogno di incentrare la propria vita non più soltanto sul lavoro, o comunque non più soltanto sul ricatto del lavoro, serve grande accortezza nel distinguere i contesti. 

Franco Arminio a Bisaccia il 7 novembre scorso durante la giornata dedicata ai “Parlamenti dell’Italia interna”

Grazie alla Casa della Paesologia fondata a Bisaccia, in Irpinia, da Franco Arminio – alla presidenza Grazia Coppola – è possibile intercettare storie professionali e di vita che non guadagnano mai le pagine dei giornali: alcune sere fa ho partecipato alla prima riunione operativa per strutturare attività e progetti, eravamo collegati online, quasi un centinaio di persone che hanno aperto una telecamera dal proprio paese più o meno grande, più o meno spopolato lungo la penisola.

Mi ha colpito l’intervento di una ragazza che vive in periferia a Milano; ha spiegato che l’abbandono non è riconducibile solo alle poche case di una realtà di montagna o di qualche località appenninica. “Anche ai milioni di persone che vivono in periferia come me non pensa nessuno, e qui lo spopolamento è un concetto ancora più grave, quasi più serio”.

Oppure chi, durante il collegamento online, ha ribadito la totale assenza di reti sociali quando si decide di tornare a vivere nei luoghi di origine dopo dieci o vent’anni trascorsi fuori per lavoro: la pandemia sta rimettendo sul piatto della bilancia anche riconversioni come questa, soprattutto da Nord verso Sud, e che sarebbe impellente tramite la Casa della Paesologia occuparsi anche di chi torna a casa propria, facendosi carico di solitudini individuali per superare quella collettiva.

Nicola De Lillo invece è originario di Senise, in provincia di Potenza, Basilicata. Lo scorso anno, all’alba del primo lockdown, è rientrato con convinzione dall’Università di Glasgow, dove lavorava come dottorando in Astrofisica e onde gravitazionali all’Institute for Gravitational Research; Nicola continua a fare il suo lavoro da Senise e fa sempre parte della rete di collaborazione scientifica di LIGO (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory, un osservatorio nato per il rilevamento di onde gravitazionali). Ha 29 anni sulla carta ma la stoffa di un uomo già centrato: sognava fin da bambino di occuparsi di stelle e di cieli e c’è riuscito grazie ai sacrifici suoi e dei genitori che, spiazzati, se lo sono visto tornare in quel Sud da cui tutti una volta volevano scappare per vivere meglio. Mi racconta in privato del burnout dilagante tra i suoi colleghi e del suo desiderio di impostare sé stesso e la sua vita su contesti più umani e più densi, sfruttare la digitalizzazione per lavorare da dove sceglie, riallacciare relazioni vive.

Chi volesse sostenere la Casa della Paesologia può farlo associandosi qui con una quota di 30 euro annuali.

La lettera di Franco Arminio ai ricchi che però parla a tutti

Cari ricchi, il mondo sta finendo o è già finito non per colpa dell’uomo in generale ma per colpa vostra. Ora avete abilmente nascosto le vostre colpe al punto che i poveri votano per voi. Avete portato i poveri a pensare che il loro nemico è quello più povero di loro. Una volta in Occidente, e specialmente in Italia, c’erano partiti, persone, sindacati, c’erano tanti occhi che guardavano i vostri imbrogli e lo denunciavano. Ma da un certo punto in poi, più o meno dai tempi di Tony Blair, avete vinto, non avete più trovato resistenze perché avete convinto quasi tutti che le ingiustizie sociali sono un problema trascurabile, il cuore di tutto è la crescita più che il dolore. Siete stati bravi, avete condotto la vostra lotta di classe e l’avete vinta con l’appoggio di chi vi dovrebbe combattere”.

La lettera che Franco Arminio ha pubblicato alcuni giorni fa prosegue e non fa sconti. Cerco un commento con lui che possa tracciare il perché del suo sfogo. “Ho provato un grande sollievo nello scriverla, si prova sempre conforto quando si dà forma a un pensiero con le parole giuste. Nessuno parla più del malessere, del dolore, della solitudine e tanto meno della morte; se non c’è di mezzo un valore economico sembra che non esista più nulla. Ci siamo assuefatti al quanto, il chi e il come non interessano. Abbiamo bisogno di più conforto ben consapevoli che non può arrivare dai soldi. Il benessere è un’altra cosa”.

“E poi ci siamo abituati all’idea che ogni giornata chissà cosa vorremmo che accadesse, perché gli stimoli sono continui, ma poi non riusciamo più nemmeno ad ascoltarci l’uno con l’altro perché soprattutto dai social mandiamo tutti costantemente un segnale. La ricezione è piena di interferenze in simultanea, ognuno pensa al proprio segnale, al messaggio che sta postando. Il risultato è un effetto di immobilità generale, è un galoppo continuo di un cavallo che non si muove.”

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