Giorgio Maran: “Lavoriamo più dei minatori del 1600. La settimana corta è necessaria”

Lavorare meno, lavorare tutti, lavorare liberi: intervistiamo l’attivista politico e autore del libro “Il tempo non è denaro”, sostenitore della settimana lavorativa corta di 4 giorni e 32 ore.

“Lavorare meno, lavorare tutti, lavorare liberi”. L’ultimo obiettivo è quello aggiunto da Giorgio Maran, giovane attivista politico e sociale, alla formula tradizionale e originaria per spiegare con immediatezza l’urgenza e la necessità di arrivare a riorganizzare il lavoro e fissare in 4 giorni e 32 ore, a parità di retribuzione, il tempo ordinariamente impegnato dalle lavoratrici e dai lavoratori per produrre reddito per se stessi e beni e servizi per la comunità.

Il suo libro – Il tempo non è denaro (Tempi Moderni-Altrimedia) – prova a offrire una risposta, logica e strutturata, agli effetti determinati sulla vita di chi lavora da fattori come l’automazione e la digitalizzazione dei processi produttivi, o la segmentazione ingenerata da precarietà e sfruttamento.

Affermare che oggi lavoriamo più di un contadino del 1200 o un minatore del 1600 è solo una provocazione, vero?

No, è la verità. A quell’epoca si poteva arrivare a lavorare anche 14 ore al giorno, e oggi sarebbe impensabile; però si seguivano i ritmi della natura, che prevedono anche lunghi periodi di fermo delle attività, e un terzo dell’anno era occupato da festività religiose che vietavano il lavoro. In effetti, a sentire diversi storici, i lavoratori hanno compiuto il loro maggiore sforzo all’epoca della prima rivoluzione industriale, che ha segnato l’apice di un processo di intensificazione dell’attività lavorativa a cui sono seguite le battaglie per i diritti dei lavoratori, compresi giorni e orario di lavoro.

Un’evocazione, quella dei contadini e dei minatori, utile a introdurre uno degli elementi culturali a fondamento della sua riflessione sulla settimana corta a parità di orario: raccontare il lavoro in modo più aderente alla realtà.

Si è affermata la retorica del lavoro come elemento nobilitante, quindi come elemento che ci realizza anche nella vita, e addirittura ci definisce come persone. In realtà, non è così. Il lavoro è gravoso, determina sfruttamento, è poco o per nulla democratico, perché il lavoratore non può decidere o partecipare alla decisione su cosa fare e come farlo. Una retorica così radicata nella nostra cultura, personale e comunitaria, che la mancanza di lavoro continua a essere la principale preoccupazione per i cittadini europei, e non ad esempio la povertà e la mancanza di reddito. Se avere un lavoro e avere un reddito sono sullo stesso piano, perché non chiediamo un reddito e chiediamo di lavorare? Questa riflessione non nega il valore individuale e sociale del lavoro. Le battaglie per il lavoro e contro lo sfruttamento hanno cambiato in meglio la condizione personale dei lavoratori e garantito più diritti all’intera comunità; è nei luoghi di lavoro che hanno trovato terreno fertile battaglie come quelle per la pensione o la formazione o l’istruzione. Il lavoro ci consente di contribuire alla vita sociale, ci offre una collocazione e dà un senso al nostro agire, promuove le relazioni personali al di fuori della famiglia, e molto altro. Ma, se non lavoro, sono ancora oggi un cittadino di seconda classe, mentre io credo che si debba affermare anche il diritto a essere liberi dal lavoro e a essere liberi mentre si lavora. Insomma, non possiamo vivere solo per produrre e consumare.

Di qui l’affermazione “il lavoro non emancipa”.

È del tutto evidente che il lavoro non sempre emancipa dal bisogno. Lavorare non esclude la povertà e ce ne stiamo rendendo conto con crescente drammaticità. Un terzo dei percettori del Reddito di Cittadinanza svolge un lavoro povero e non guadagna a sufficienza per evitare di chiedere e ottenere il sostegno. C’è una macroscopica questione salariale che ancora si fatica a far notare.

Avendo a mente il lavoro precario e povero, ultraflessibile e frammentato, illegale e privato dei diritti fondamentali, può avere davvero senso impegnarsi nella riflessione sulla riduzione dei giorni e delle ore di lavoro?

Non vedo concorrenza. Ridurre l’orario significa, ad esempio, ridurre migliaia di casi di part time involontario, quello imposto per convenienza dall’impresa o imposto dalle necessità di vita dei lavoratori. Significa redistribuire il peso del lavoro, quindi redistribuire reddito, ricchezza, potere, libertà e tempo. Significa riposizionare l’obiettivo della piena occupazione nell’orizzonte della politica, da cui è scomparso senza che questo abbia determinato reazioni visibili e condivisibili.

Torniamo alla povertà. Perché diventato così difficile parlarne, quindi mettere mano a una strategia concreta di contrasto e prevenzione?

La povertà è ormai una colpa, se a valutarla sono i più ricchi, o un esercizio di furbizia sociale, per tanti imprenditori e politici. Non è così e lo spiego facendo ricorso al volontariato. In Italia i volontari sono milioni, persone che vogliono sentirsi utili alla società, e per soddisfare questo bisogno individuale svolgono un lavoro vero e proprio che contribuisce positivamente alla vita della comunità. Questo dimostra, a mio parere, che la gran parte delle persone ha piacere a lavorare, a essere un soggetto attivo. Poi c’è chi è impossibilitato a lavorare e ha diritto a essere assistito e sostenuto. E c’è una parte che possiamo definire pigra; ma mi pare che ci siano tutte le condizioni necessarie a produrre reddito e ricchezza anche per questa minoranza, invece di colpevolizzarla.

Lei afferma che a mancare non è semplicemente il lavoro; manca il “lavoro di qualità”. Detta così sembra una banalità.

Con il tempo abbiamo scambiato il mezzo con il fine. Creare lavoro è importante e credo sia necessario rispondere meglio ad alcuni bisogni, diversi dal lavorare fine a se stesso. Il lavoro di qualità, il lavoro buono, è quello che produce ricchezza per tutti. La pandemia, ad esempio, ci ha plasticamente dimostrato quanto siano fondamentali la sanità territoriale, l’istruzione e la formazione, la salute mentale, la riconversione ecologica, la riqualificazione del patrimonio edilizio pubblico e privato. Applicarsi alla realizzazione di questi obiettivi promuoverebbe, appunto, lavoro di qualità. Più spesso, invece, si pensa a creare lavoro purchessia, senza valutare le conseguenze sistemiche. E così determiniamo la desertificazione commerciale dei centri cittadini, consumiamo inutilmente suolo, favoriamo lo sfruttamento dei lavoratori.

La settimana lavorativa di 4 giorni mira ad aumentare gli spazi di libertà mentre il contesto economico affronta una grave crisi produttiva. Come si supera questa contrapposizione?

Prendiamo il fenomeno delle cosiddette “grandi dimissioni”. È indubbiamente un positivo atto di riappropriazione del proprio tempo e del proprio spazio; potremmo definirlo un atto di ribellione al sistema produttivo e la presa di coscienza diffusa dell’esistenza di una crisi sistemica nell’attuale organizzazione del lavoro. Però è pur sempre una soluzione individuale a un problema collettivo; in alcuni casi è l’evidenza di un privilegio, perché chi lascia il lavoro può permetterselo. Con la proposta della settimana corta si prova a dare una risposta collettiva a bisogni collettivi. Si prova a costruire un discorso nuovo e diverso sull’organizzazione del lavoro che offra risposte nuove a bisogni nuovi.

Promuovere l’innalzamento del salario minimo e la riduzione della settimana di lavoro a parità di retribuzione non rischia di creare un corto circuito?

L’aumento del salario minimo è più facilmente comprensibile, ma non sono concetti e azioni concorrenti. Non sono pochi i casi in cui i salari dovranno comunque aumentare, anche riducendo l’orario di lavoro. Entrambi i temi sono sul tavolo della politica, ma non sono ancora patrimonio comune delle forze politiche che si sono dimostrate più sensibili, ed è proprio la frammentazione a impedire che s’imponga nel dibattito.

Lei scrive della necessità di riprendere la lotta di classe. Non le sembra un poco comprensibile ritorno al passato?

Guardi che la lotta di classe la stanno facendo, contro i lavoratori, e la stanno vincendo. Io credo sia necessario ripartire dai diritti e dalle libertà dei lavoratori per ricostruire i rapporti di forza nella società. In questo senso, è necessaria una nuova lotta di classe.

Leggi gli altri articoli a tema Settimana di 4 giorni.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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Photo credits: luinonotizie.it

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