Il costo del Talento per Unicredit

Nell’anno della “nuova normalità” in cui spopolano i concetti di sostenibilità e di etica, di attenzione alle Persone e di rivalutazione delle competenze, sembra che gli unici attori non protagonisti siano rimasti i grandi gruppi della finanza. È notizia degli ultimi giorni l’assunzione del nuovo CEO di Unicredit Andrea Orcel con una retribuzione che gli […]

Nell’anno della “nuova normalità” in cui spopolano i concetti di sostenibilità e di etica, di attenzione alle Persone e di rivalutazione delle competenze, sembra che gli unici attori non protagonisti siano rimasti i grandi gruppi della finanza.
È notizia degli ultimi giorni l’assunzione del nuovo CEO di Unicredit Andrea Orcel con una retribuzione che gli ha mutuato il soprannome di “Ronaldo dei banchieri” e regole di ingaggio estremamente permissive e molto distanti dalle garanzie di obiettivi e risultati che è norma inserire in un patto d’assunzione a tutela di investitori e (in questo caso) anche shareholders vari (non ultimi, i correntisti della banca).

Il contratto nel dettaglio

Nel contratto, stipulato con Unicredit secondo le fonti ufficiali rilasciate prima dell’assemblea annuale, si parla di uno stipendio fisso annuo di 2,5 milioni di euro che sommato alla retribuzione variabile totalizzerebbe 7,5 milioni di euro. Se c’è una cosa che accomuna pubblico e privato, è proprio il modo in cui si gestisce il variabile, laddove l’imprenditore deve assicurasi la sostenibilità dell’investimento e dove il “candidato” è tenuto a dimostrare le sue capacità; il variabile è quella quota che tiene in equilibrio questi due aspetti e pertanto viene correlata alla performance: il tuo guadagno aumenta in proporzione ai risultati conseguiti, in un’ottica che soddisfa “investitori” e “investito”.

In questo caso, invece, Unicredit ha ritenuto opportuno non legare il variabile ad alcuna condizione di performance, addirittura non inserendo nelle condizioni alcun malus o clawback (le clausole che consentono di rivalersi sul manager in caso di magagne future in seguito a decisioni prese durante i loro mandati) “al fine di allineare gli interessi degli azionisti e dell’ad” .

Le preoccupazioni degli “analisti di mercato”

Prima di ogni assemblea di CDA, in cui bisogna approvare l’incarico e di conseguenza anche il pacchetto retributivo del nuovo CEO, vengono chiamati in causa gli analisti di mercato (in gergo, “proxy advisor”); si tratta di consulenti esterni invitati a supervisionare e dare suggerimenti di voto.

In pratica, gli advisor hanno contestato non solo la poca chiarezza nella composizione del pacchetto retributivo (che si sono dovuti prendere la briga di ricostruire attraverso JP Morgan in mancanza di informazioni trasparenti da parte del Gruppo), ma hanno visto un grosso rischio per gli azionisti in quella parte variabile dello stipendio così “pesante”, garantita e scollegata da alcun obiettivo.

Anche sulla nomina del neo presidente Carlo Padoan grava un’obiezione sull’indipendenza della sua candidatura. I proxy advisor auspicano, in una nota, che il nuovo CdA di Unicredit nomini tra i suoi componenti un Presidente che sia realmente indipendente, esprimendo senza troppi giri di parole la preoccupazione che la nomina di Padoan possa rappresentare il punto di contatto volto a favorire una qualche operazione con Monte dei Paschi di Siena.

Nonostante il parere sfavorevole di questi, il 15 aprile l’assemblea ha votato la lista dei candidati: Pier Carlo Padoan come Presidente e Andrea Orcel come CEO.

La giustificazione “in differita” di Unicredit: una questione di Talento

Le domande degli investitori, convocati in Assemblea rigorosamente online, hanno ottenuto risposte asciutte e molto formali: «La struttura retributiva prevista per il 2021 per il Sig. Orcel è strettamente legata al primo anno del mandato ed è volta a garantire il giusto livello di competitività e attrazione per attirare talenti di alto livello».

Il Presidente uscente, Cesare Bisoni, nel tessere le lodi del suo successore (Carlo Padoan) e del nuovo CEO, definisce Unicredit come «banca paneuropea con un alto livello di patrimonializzazione, che può contare su una eccellente diversificazione geografica e che continuerà a trasformare le sfide in opportunità».

Il talento, che normalmente identifica giovani di belle speranze con grandi prospettive di crescita e preferibilmente a basso costo, in questo caso assume un concetto del tutto nuovo in cui il valore economico sovrasta le competenze e addirittura i risultati. Per la prima volta si dà un giudizio di merito e un riconoscimento economico fuori mercato a chi ancora non ha dimostrato alcun merito ma, come ricorda il Financial Times …è stato consulente del disastroso affare da 72 miliardi di euro che ha visto la banca olandese ABN Amro divisa in tre e venduta a Royal Bank of Scotland, Fortis e Santander. Le conseguenze di quel deal finirono per alimentare la crisi finanziaria del 2007-08”. Ma furono un ottimo affare per Santander.

“Vision”, “Transform”: cosa c’è dietro le belle parole

Dietro le belle parole dei comunicati stampa, si nasconde un decennio in cui le opportunità sono state tutte a favore degli azionisti e decisamente meno a favore dei dipendenti se è vero quanto rileva un articolo di Business Insider che ricostruisce le grandi opportunità puntualmente presentate dai CDA ad ogni elezione di un nuovo Amministratore Delegato.

Riassumendo quanto riportato nell’articolo, dietro il piano denominato “Vision” da Federico Ghizzoni (succeduto ad Alessandro Profumo) e il piano “Transform” di Jeanne Pier Mustier ci sono fondamentalmente due punti di contatto: le “pulizie di primavera” di cui sopra per permettere di ripartire con bilanci gravati da pesi (quali il costo del lavoro) e non aver di fatto aumentato la redditività tagliando i costi nell’ottica di piani a lungo termine.
In soldoni, nell’arco degli ultimi 11 anni, Unicredit ha totalizzato sui profitti consolidati una perdita di oltre 20 miliardi di euro, lasciando a casa oltre 80.000 dipendenti in tutto il mondo di cui circa 5000 in Italia con la chiusura di 500 filiali, solo nell’ultima “tranche” di febbraio 2020.

Senza cadere in una sterile demagogia e nel consueto attacco alle banche, diventa però necessario quantomeno fare una riflessione sulla coerenza di fondo con cui da una parte si gestiscono i patrimoni di azionisti e stakeholder vari, si garantiscono i rendimenti delle stock options dei dirigenti con cui si condiscono retribuzioni che raggiungono anche il 200% del loro valore e decine di volte lo stipendio medio dei propri dipendenti (nel caso di Orcel, parliamo di centinaia di volte) e dall’altra invece si comunica sostenibilità, attenzione alle Persone e si sponsorizzano webinar on line ed eventi prestigiosi su diversità, inclusione, donne e futuro del lavoro.

Ancora una volta giochiamo con le parole

Con un tempismo tipico di una strategia in cui la mano destra non sa cosa fa la sinistra, nel momento in cui il CDA approva l’avvicendamento di Orcel, i correntisti ricevono una ossimorica proposta di modifica unilaterale delle condizioni dei conti correnti, (in cui non mi sarei preso il disturbo di chiamarla “proposta”, visto che la “modifica” è “unilaterale”), scaricando la responsabilità sulla “mutazione di contesto di mercato in cui il sistema bancario si trova a operare, impattando in modo crescente sull’attività bancaria e in particolare sulle attività di deposito, gestione e remunerazione della liquidità di conto corrente“, e pertanto ribaltando sui correntisti un aumento dei canoni fino a 5 euro.

C’è da farsi una domanda di contesto. Normalmente le regole di mercato prevedono che un’azienda pubblica sia sostenuta dallo Stato e dalla collettività a favore di un beneficio comune. È certamente giusto riconoscere gli azionisti, ma se le regole del gioco sono a discapito di migliaia di dipendenti e addirittura dei clienti, per quale motivo garantirne il sostegno?

Cade dunque a pennello l’apertura del convegno della Federazione Autonoma Bancari Italiani di pochi giorni fa, in cui il direttore Lando Maria Sileoni si è espresso in maniera molto negativa nei confronti di retribuzioni anacronistiche e atti interni di un’azienda privata che gode di aiuti pubblici, che diventano regole di mercato che non avrei dubbi sul destinatario del commento.

Sileoni non si è risparmiato neppure nei confronti di modalità commerciali “tipiche da Villaggio Valtur” in cui dipendenti si devono trasformare in guitti e cantanti per ingraziarsi i dirigenti e i loro piani commerciali. Riferimento forse, al tristemente famoso episodio della direttrice della filiale di Castiglione delle Stiviere di Banca Intesa Sanpaolo.

E per finire: Smartworking e Grattacieli

Se Unicredit è così sensibile al mutato contesto di mercato, non sembra essersi resa conto anche del mutato contesto del lavoro (webinar a parte). Se si parla di Persone, nell’anno del Covid non si può nascondere che le aziende più lungimiranti siano quelle che hanno attuato piani a lungo termine per uno smartworking ibrido e più organizzato, per non parlare di chi ha iniziato dopo pochi mesi a immaginare destinazioni differenti per uffici che difficilmente potranno ospitare di nuovo i propri dipendenti non solo in un’ottica di salute e sicurezza sul lavoro, ma anche nell’ottica di un approccio completamente diverso all’acquisizione di competenze importanti e a beneficio di un vero equilibrio non solo narrato, fra vita professionale e vita personale.

Eppure anche su questo tema viene da riflettere se è vero che già a giugno 2020 sul sito ufficiale compariva un articolo in cui “basandosi sulle Regole d’Oro dell’azienda“, e facendo riferimento “non alle date, ma ai dati” (in cui evidentemente si deroga ai Decreti Governativi basandosi su una lettura del tutto soggettiva di dati che a giugno 2020 e soprattutto a Milano non erano per niente incoraggianti) Unicredit lanciava il progetto “Back to Office” in cui si pianificava un “graduale ritorno in ufficio”. Ma comunque, un ritorno.

A un anno di distanza, il grattacielo Unicredit (che ricordiamo frutto addirittura di una diatriba con la Regione Lombardia di Formigoni in una gara a chi ce l’avesse più alto), riproposto in tutte le salse da fiction televisive e pubblicità commerciali inserito in un’ecosistema di pochi chilometri quadrati che dovrebbero rappresentare la Milanesitudine nei suoi aspetti più iconici (la città europea, il business, l’operosità, l’innovazione), oggi è ancora un luogo di non ritorno al pari di quello di Allianz (fra gli investitori di Unicredit). Anche qui c’è da chiedersi se il gioco vale ancora la candela e se il totem con i suoi costi e con tutto ciò che rappresenta e che speriamo non rappresenti più, valga davvero di più di un’immagine di futuro in cui la stragrande maggioranza dei colossi multinazionali si stanno ripensando per non tornare ad un passato insostenibile, che va riconcepito per il benessere di tutti.

Ben vengano dunque le “imprese del futuro” e i loro ambassador.

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