La letteratura russa vista da Occidente: più resistenza che luoghi comuni

Freddo, follia, decadenza: i luoghi comuni della letteratura russa vanno in parte sfatati e in parte approfonditi per capirne il rapporto con la storia del suo popolo, e la sua costante avversione al potere.

Freddo, follia, decadenza: i luoghi comuni della letteratura russa vanno in parte sfatati e in parte approfonditi per capirne il rapporto con la storia del suo popolo, e la sua costante avversione al potere.

Nel parlare di Russia e di letteratura russa servirebbe sfatare alcuni luoghi comuni. Sarà la fatica di doverli sempre smontare, o di doverli schiavare, che per una volta ci si può arrendere e abbandonare a essi. Ci si conceda dunque la licenza di alcune “canoniche” considerazioni.

In Italia abbiamo assistito al recente levarsi di scudi in difesa di Dostoevskij, in seguito a inopportuni slanci di censura accademica. Dostoevskij, inteso a torto più come pensatore che come scrittore, è ora tornato a essere un indiscutibile paladino della Russia civile. Fa pendant con la lotta alla censura. Poco conta che dopo esser stato vittima delle angherie di Nicola I, sotto Alessandro II divenne alfiere di un’ideologia slavofila e antioccidentale.

È evidente che la letteratura russa va accettata non solo per quel che è, ma anche per come amiamo raccontarla a noi stessi. Sebbene sia parte della civiltà europea, l’universo russo evoca nell’immaginario ancora un’alternativa alla cultura occidentale, con quel non so che di misterico, bizzarro, drammatico, abissale, infausto, autentico, disumano, freddo, eccentrico, folle, geniale, assurdo, irrimediabilmente diverso; e ciò funziona nella nostra narrazione di seconda mano. Ce lo insegna la vena letteraria di un Paolo Nori, incentrata sulla rielaborazione degli stereotipi russi, o magari di un Alessandro Barbero, quando alle prime armi pubblicava il suo Romanzo russo. Insomma, i divulgatori della Russia, a vario titolo, hanno necessità dei luoghi comuni.

Leggere come resistere. La letteratura russa in conflitto con il potere

Leggere di prima mano la letteratura russa è un discorso diverso, è un’azione nobile e forgiante, ma di certo più faticosa, aspra, talvolta greve e indigesta, visti i paradossi e le contraddizioni di quell’universo.

La letteratura russa merita comunque una difesa. Capita allora che nel mezzo di una tragedia umana, in cui la Russia con le mani insanguinate vibra colpi maldestri lungo in confini dell’Europa orientale, lo sgomento colpisca i nostri cuori, e istintivamente pensiamo di difendere la letteratura russa, figlia innocente da sottrarre alla sua degenere “Santa Madre”.

La letteratura pare l’unica a poter riscattare il buon nome della Russia. È il baluardo di un’autentica coscienza civile, lo scrigno di una civiltà umanistica, la sublimazione estetica della lingua russa, il codice genetico della cultura, e in tal senso è legata in modo intrinseco al suo popolo. In quanto espressione di parola libera, la letteratura russa ancora oggi sussiste in un rapporto conflittuale con il potere, avvinto da tendenze di controllo dispotico. In questa dialettica di dominazione-sottomissione, la letteratura registra anche quelle inclinazioni fideistiche, messianiche o imperialiste che serpeggiano nella mentalità russa. Da questo punto di vista, accade anche che essa si percepisca corresponsabile e si faccia carico di quel “peccato collettivo” che grava sulla storia russa. Da Puškin a Čechov, da Tolstoj a Dostoevskij, da Mandel’štam a Pasternak, da Grossman a Solženicyn, lunga è la schiera di autori che da diverse prospettive estetiche e ideologiche ha dato rilievo a questo meccanismo.

Riconducendo ai nostri giorni la testimonianza più autentica di una letteratura impegnata, bisogna premettere che la realtà putiniana si è consolidata al di fuori di una dimensione letteraturocentrica. Molti scrittori assumono oggi una posizione critica verso il potere, anche senza aver dato vita a opere militanti capaci di scuotere nel profondo la coscienza dei lettori. D’altronde, siamo in un’epoca in cui si è persa l’aderenza al testo, alla parola scritta. Anche in Russia, molti lettori distratti subiscono la metamorfosi a spettatori, le malie della rete e l’ipnosi da video lì consegnano alla manipolazione mediatica, alla disinformazione e alla censura. Alla luce di ciò, leggere oggi letteratura russa è a maggior ragione una forma di resistenza. Lo è in Russia e lo è anche per noi, e anche questo pare un luogo comune. Ma ben venga.

La parola letteraria alla ricerca della verità storica

Merito principale della letteratura del nuovo millennio, sempre più spesso declinata al femminile, risiede nel recupero della memoria e della verità storica, come dimostrano le proposte di autrici di risonanza internazionale quali Svjatlana Aleksievič, Marija Stepanova, Ljudmila Ulickaja, Ol’ga Sedakova. La necessità di fare i conti del passato sovietico, obliato in fretta anche in Occidente, ha imposto una profonda riflessione sulle conseguenze delle rivoluzioni, del terrore staliniano, dell’ideologia, della tragedia umana delle guerre mondiali, del dissenso, e dei rivolgimenti di potere del 1991.

Questa volontà di riappropriarsi di quei luoghi della memoria rischiosamente abbandonati ha generato opere di grande spessore, come nel caso del romanzo di Sergej Lebedev Il confine dell’oblio (2011), opera che colpisce per densità della scrittura e capacità figurativa. Qui, ad esempio, la ricerca della memoria si consuma attraverso il passaggio sugli Urali, su quella “cicatrice” che sigilla la Russia europea al continente asiatico. Proprio lì il cronotopo perde i crismi del reale e si rinnova la percezione di una Russia calata in una dimensione spazio-temporale alterata, tale da richiedere uno sforzo sovraumano alla sua comprensione: “Sono qui, fermo su questa linea apparentemente valicabile, ma per farlo bisognerebbe avere il cuore leggero e l’anima sgombra, mentre il mio cuore e la mia anima sono colmi della memoria degli spazi che si allungano verso il circolo polare, del loro mutismo che patisce le parole, del candore delle nevi che divorano gli occhi, quello di una foglia incontaminata, del nero luccicante che ricorda il carbone in attesa di trasformarsi nel calore della fiamma: il nero della notte, il nero della miniera, dove l’aria è impoverita dal respiro e non conosce l’alba…” (Sergej Lebedev, 2011).

Improvvisamente la narrazione conduce a una dimensione astorica, nell’attimo imperituro di uno spazio indefinito, ineluttabile. Su questo limes, dove la civiltà europea si eclissa e assume i contorni dell’indecifrato, si perpetra la ricerca di un’idea “altra”, dell’anima russa, quel luogo comune che resiste al nostro cospetto e che non osiamo certo sfatare; come ricorda un caro poeta: “L’idea della Russia non è nel cervello / o in qualche sfera spirituale / è qui, in vista, inscrutabile terra remota / incautamente vicina all’anima / che dell’anima i confini ignora / dov’è il proprio, dov’è l’altrui…” (Viktor Krivulin, 1987).

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