Il mestiere del politico. Intervista ad Alfonso Pecoraro Scanio e Laura Arconti

Politica non è un mestiere, è un servizio. Ma nel senso di servire, non di servirsi o circondarsi di servi. (Marco Travaglio) Parafrasando il “Direttore”, ci si accorge che il mestiere del politico è un lavoro talmente duro e ingrato che nessuno dovrebbe volere essere eletto. Alla stregua del presidente nelle assemblee di condominio. Tutti […]

Politica non è un mestiere, è un servizio. Ma nel senso di servire, non di servirsi o circondarsi di servi.

(Marco Travaglio)

Parafrasando il “Direttore”, ci si accorge che il mestiere del politico è un lavoro talmente duro e ingrato che nessuno dovrebbe volere essere eletto. Alla stregua del presidente nelle assemblee di condominio. Tutti hanno da fare e devono andare via prima.

La spinta a fare politica vera dovrebbe essere sovrapponibile al fuoco sacro che armò i francesi durante la rivoluzione. La forza di voler partecipare al cambiamento. Intesa in questi termini ha un qualcosa di spirituale, vicino al concetto di imprenditoria di Adriano Olivetti, un illuminato per l’appunto.

Oggi quello che si percepisce invece è soltanto la spasmodica affannata ricerca di uno status, e le cronache dei quotidiani non fanno che avvalorare questa tesi. Se tutti noi fossimo azionisti, come in realtà siamo, di una grande società, che cosa pretenderemmo da dirigenti e quadri?

La politica è un lavoro? Risponde la gente comune

Come vede la politica e i politici di oggi, più vicini, più lontani, lavorano per noi? E come lavorano? Risponde Annamaria, dipendente impresa di pulizie:

Non vedo niente di cambiato. Tutti uguali. Dove abito io stanno rifacendo la strada, per il resto non vedo niente, il servizio ATAC fa schifo, per me non è cambiato proprio niente. Io fino adesso di concreto non vedo niente, che le devo dire, non lo so, il servizio ATAC le ripeto fa schifo.

Secondo lei da che cosa dipende?

E che ne so, saranno incompetenti, non ci capiscono niente. Non so proprio queste leggi come le fanno, se le hanno messe in pratica.

Cosa le sembra la politica di oggi fra status e servizio? Risponde Antonio, autista di taxi:

Sembra che fanno qualcosa di buono. Erano più preparati i politici di una volta, una volta erano politici. Per fare politica ci vuole uno studioso, adesso maggiormente si prendono la pensione e se ne vanno.  La politica adesso non sta vicino ai problemi nostri per niente, uno prova a fare il cambiamento ma alla fine non cambia niente. Oggi non ci sono politici veri come una volta che c’era Craxi che aveva un cervello e lo faceva funzionare. Perché in Italia con Craxi stavamo molto meglio era una questione di serietà, di politica. Tutto, aveva. Dicevano che aveva distrutto l’Italia, ma da quando è andato via il Paese sta andando sotto a un treno.

La politica è un lavoro? Risponde Raffaele, dipendente pubblico:

Oggi è una politica con la p minuscola. Il rapporto che c’era fra il politico eletto e l’obbligo morale che aveva verso i propri elettori è definitivamente sparito, nessuno oggi si pone più questo tipo di problema. È sicuramente diventata una professione, prima era un peso sulle proprie spalle, una responsabilità. Adesso è un obiettivo, un lavoro, è entrare in certi meccanismi che galleggiano da soli, si autofinanziano e ti portano lontano. Tempo fa mi è capitata sui social una vecchia foto di Berlinguer in mezzo agli operai, e gli operai erano contenti e lui era contento, e non si vedeva questa differente casta, questa differente posizione economica, o sociale. Invece i politici di adesso si contornano di classi che dovrebbero in realtà essere le controparti, vedi Confindustria, le lobby industriali, farmaceutiche, bancarie, cose che loro in realtà dovrebbero regolare. Prima c’erano le scuole di politica. Prima di iniziare a toccare gli interessi della gente dovevi comunque studiare, seguire corsi, convegni, la sezione, dovevi masticare pane duro prima di poter dimostrare le tue qualità. Adesso invece si è completamente rovesciata la questione, si parte dalla fine.

Intervista ad Alfonso Pecoraro Scanio

Gli umori della “piazza” sono, da sempre, a senso unico. Quella che si avverte è la mancanza di risultati tangibili e fruibili.  I risultati, quelli che causano notti insonni in ambito manageriale. Se è lecito e possibile un parallelo fra l’attività politica istituzionale e una qualsiasi attività manageriale, manca la comprensione di un punto di rottura di un rapporto che in entrambi i casi è fiduciario; un punto in cui inizia ad allargarsi la forbice che da un lato continua a essere legata ai risultati, mentre dall’altro, davanti alla loro mancanza, lascia il posto alla delusione sociale e politica.

Come si fa politica e come l’impegno (o meno), la serietà (o meno) del mandato politico istituzionale possano essere paragonati a una attività lavorativa, in termini di responsabilità, risultati, orari, fatica, lo possiamo chiedere a chi ha fatto politica, ha conseguito dei risultati tangibili e duraturi nel tempo, e continua a occuparsi di politica ecologia e sociale in maniera non istituzionale, con il necessario distacco dal “politichese”.

Alfonso Pecoraro Scanio. Avvocato, attivista militante, amministratore locale, parlamentare, presidente nazionale della Federazione dei Verdi, ministro delle Politiche Agricole e Forestali nel governo Amato II e ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare nel governo Prodi II. Ha fatto politica da sempre, e continua a farla anche se non istituzionalmente. È professore universitario e presidente della Fondazione ambientalista UNIVERDE.

Considerata la sua esperienza parlamentare e governativa, la politica per la gente e tra la gente oggi è uno spot pre-elettorale? Che distanza c’è tra i palazzi e la piazza?

Innanzitutto credo che la situazione sia cambiata molto, come sono cambiate le motivazioni con cui ci sia avvicina alla politica, che per me è impegno civico e civile. Per prima cosa dividiamo l’attività politica dalla candidatura e dai ruoli istituzionali, per evitare una confusione molto diffusa. La vera politica con la “P” maiuscola non è, non si fa, e non si comincia a fare con gli incarichi istituzionali. Le istituzioni dovrebbero essere un momento ulteriore di impegno civile. La vera politica si inizia a fare quando hai un obiettivo e cerchi di organizzarti con altri per raggiungere quell’obiettivo. Questa è la politica. E io l’ho vissuta così. Ho iniziato a quindici anni, avevo l’obiettivo di migliorare il liceo classico che frequentavo, dove secondo me alcune cose non funzionavano, e ho organizzato un cineforum e un’associazione studentesca, Unione Studenti Democratici, dove già parlavamo di diritti, di ambiente. Stiamo parlando degli anni Settanta, e soprattutto io ero un non violento in un’epoca in cui molte organizzazioni politiche consideravano la violenza come uno degli strumenti necessari per realizzare una attività politica. Era considerato normale, poi i livelli di violenza potevano essere diversi, però veniva considerato normale. Io ero un nonviolento e all’epoca mi ero riconosciuto nel Partito Radicale perché era l’unico partito gandhiano e nonviolento ufficialmente; nessun partito aveva inserito la nonviolenza nel suo statuto. Ancora oggi c’è un rigurgito di violenza in tanti settori. Anche il considerare giusto armare i cittadini altro non è che un cedimento alla violenza come strumento, anche se come difesa, invocata come una teorica difesa, che poi diventa difesa dal diverso, dal nemico, dal povero che si ribella. Quindi prima cosa gli obiettivi. Una politica sana deve nascere da una esigenza, da un progetto. Il ruolo istituzionale altro non è che un elemento che dà più strumenti per realizzare un’azione politica. Questo è lo spirito nobile della politica che accorcia le distanze fra la politica e la piazza, quello che io definirei lo spirito normale della politica, nel senso che ormai siamo abituati allo spirito ignobile di certa politica, indifferente e cinica.

Vista da fuori con gli occhi da profano, per come oggi i politici vivono il mandato, si ha come una sensazione di chiusura, di isolamento. Si partecipa alla costruzione dell’ennesimo castello di carte, ci si rapporta solo fra simili o con i poteri economici, al massimo con le lobby, per rafforzare alleanze per mantenere lo status. In base alla sua esperienza presente e passata, è un mondo che dialoga poco con la realtà del Paese? E perché?

Anche allora io e altri facevamo politica in un certo modo. Ero un giovane avvocato e fondare a quei tempi i Verdi, una lista civica ed ecologista, quando a Salerno dominavano la Democrazia Cristiana, i comunisti e i socialisti, significava non puntare a una prospettiva di carriera politica. Era inverosimile che un Verde potesse diventare deputato, figuriamoci ministro, stiamo parlando del 1985. Io stesso mi sono candidato per la prima volta al Consiglio Comunale di Salerno con obiettivi ben precisi, reali e tangibili. Il mare era inquinato e ho conquistato la realizzazione di un depuratore, ho condotto una battaglia contro un cementificio che inquinava la città e ne ho ottenuto la chiusura, e mi sono assicurato la sistemazione del lungomare e la pedonalizzazione del corso. Però poi la storia si ripete, perché quando i ragazzi hanno iniziato a fare i “meet up di Grillo”, alcuni di questi hanno iniziato perché erano stanchi della distanza della politica, erano ambientalisti ed erano insoddisfatti, e vedevano una politica che era molto lontana. E anche loro, all’inizio, non credo pensassero a fare i deputati. Invece quelli che si sono avvicinati ai Cinque Stelle quando avevano preso il 20-25% dei voti, quando hanno iniziato a vincere, magari alcuni lo hanno fatto anche con l’obiettivo di avere dei ruoli istituzionali. Ma questo è capitato anche ai Verdi, io queste cose le ho già viste, e prima ancora è capitato ai Radicali. I Radicali della prima ora con cui facevamo le battaglie nonviolente e per i diritti civili erano solo quelli della componente idealista. Quando i Radicali hanno iniziato ad avere un buon risultato elettorale ci sono stati anche quelli che miravano solo a un ruolo istituzionale.  Ora si è accentuato però questo aspetto; nel senso che, essendo diminuito l’approccio ideale, la candidatura a consigliere, ad assessore, spesso è una candidatura che mira a ottenere il posto. E quello diventa poi un vero e proprio posto di lavoro, perché per chi non ha altra attività nella vita quello diventa un elemento di schiavitù, diventa l’unico modo per avere qualcosa da guadagnare. Questo aumenta la distanza dalla gente, perché non avendo nessun tipo di ideale allora tu vedi il ruolo come un privilegio conquistato e da difendere. Nemmeno conquistato con i voti. L’eliminazione di un sistema di preferenze o collegi uninominali veri ha determinato un sistema politico nazionale non all’altezza, con il rischio di delegittimare il Parlamento stesso in cui una grossa parte ha paura di tornare al sistema delle preferenze o comunque di scelte affidate agli elettori e non alle segreterie politiche. È un sistema chiuso che tende a preservare la sua stessa esistenza.

Il modo con cui ha gestito il mandato, quando era attivamente in politica, quanto era assimilabile alle giornate lavorative che tutti conosciamo in termini di responsabilità, di orari, di fatica, di impegno, e di risultati? E per i politici di oggi, quanto è sovrapponibile una loro giornata tipo con una giornata lavorativa in senso stretto?

Con le debite premesse, chi fa politica in modo serio lavora anche più della media. Io nei venti, venticinque anni che ho fatto politica – ho iniziato nel 1985 come consigliere comunale e ho concluso la mia esperienza nel 2008 – ho innanzitutto sospeso l’attività legale, chiudendo lo studio di famiglia. Credo che l’attività parlamentare, se fatta con spirito di impegno – poiché alla fine sei pagato dallo Stato e quindi da tutta la collettività – sia incompatibile con un’altra attività. Ecco perché il cosiddetto vitalizio non dovrebbe essere mantenuto per quelli che invece continuano la loro attività durante il mandato, e dovrebbe essere riconosciuto e limitato a quelli che nei fatti sospendono la loro professione e quindi hanno un vero danno perché accettano di bloccare o perdere la loro attività per fare altro. E dovrebbe essere commisurato a un lavoro vero, fatto misurandone i risultati, anche in termini di consenso. È evidente che se fai attività politica a tempo pieno, hai una giornata che realisticamente inizia anche un po’ più tardi, perché la politica inizia alle nove, però non finisce prima delle nove di sera. In effetti sono sempre dodici ore. E soprattutto il sabato e la domenica sono quei momenti in cui si fanno i convegni, le conferenze e i congressi. Io in quel periodo non ho mai avuto un sabato e una domenica. Questo è solo per chi ha veramente passione e vuole conseguire dei risultati. È altrettanto vero che vedevo la politica come la facevano alcuni parlamentari, che si mantenevano l’attività, continuavano a curare lo studio di avvocato, o il negozio o qualsiasi altra attività. Questi arrivavano al martedì pomeriggio, facevano aula e forse anche qualche commissione e il giovedì pomeriggio se ne andavano. E prendevano lo stesso mio stipendio, ovviamente. Io ho fatto la riforma dell’agricoltura, il conto energia (agevolazioni per il fotovoltaico che hanno favorito lo sviluppo del mercato delle energie rinnovabili), i parchi nazionali. Altri invece sono passati senza aver dato nessun contributo, senza aver lasciato traccia di un servizio al Paese.

Ora di che cosa si occupa?

Adesso io ho iniziato ad insegnare all’università, in Bicocca e a Tor Vergata, e poi ho una fondazione con cui mi occupo di diffondere la cultura ecologista, attraverso sia elementi di formazione e di iniziative culturali, sia con campagne vere e proprie, come quella che ha permesso di salvare l’isola di Budelli che rischiava essere acquistata da un privato straniero, o come quella con cui abbiamo inscritto l’arte del pizzaiuolo napoletano come patrimonio dell’UNESCO. Da ultimo ho avviato una bellissima campagna per iscrivere il bel canto e l’opera lirica come patrimonio dell’umanità che in pochissimi giorni ha raccolto più di diecimila firme.  Una fondazione piccola che non usa le donazioni perché a volte dietro le donazioni non si capisce che cosa c’è, ma che realizza iniziative sempre con elementi di massima trasparenza. E ancora una volta questa è attività politica, pur non istituzionale, ma è pura attività politica.

Intervista a Laura Arconti, decana del Partito Radicale

Laura Arconti, classe 1925 e ancora attivissima, Radicale dalla nascita della coscienza politica.

La politica è un lavoro? Come stavano le cose prima e come intende la politica oggi chi ci lavora?

Mi spiace, rifiuto di catalogare i parlamentari in due categorie tagliate con l’accetta e divisi in “quelli di prima” e “quelli di ora”. Le persone si giudicano dai comportamenti, e sappiamo troppo poco di gran parte di questo nuovo Parlamento per chiederci quali di loro siano lì per egoismo e quali per generoso servizio ai cittadini. Io posso dire di me, del mio mezzo secolo di militanza, e di coloro che ho conosciuto da vicino: non solo i “grandi” Radicali, ma anche tanti compagni i cui nomi non vanno sulle gazzette e in TV, ma che hanno fatto miracoli laici. Marco Pannella ha dedicato tutta la vita alle sue idee politiche; ha dato al suo Partito Radicale tutto il patrimonio ereditato dal padre; ha rinunciato al vitalizio, tanto aveva la pensione di giornalista. Usava il taxi quando aveva urgenza di raggiungere Radio Radicale o Montecitorio, ma preferiva camminare a piedi fra la gente, e non ha mai conosciuto scorta o portaborse. Ha dato materialmente corpo – il suo corpo – alla tutela dei diritti dei cittadini. Ha inventato parole nuove, che oggi usano tutti, per far meglio comprendere ai cittadini il suo pensiero, la sua profonda cultura che di giorno in giorno applicava al viver comune: “alle cucine e alle camere da letto” (come diceva lui), ai dialoghi e allo scambio di sentimenti. Emma Bonino è arrivata al Patito Radicale nel 1975 quando aveva 27 anni, ed è cresciuta alla scuola di Marco: già l’anno successivo era deputata, e in tutti questi anni ha percorso tanti incarichi istituzionali con impegno assoluto. Marco la spingeva avanti, ben conoscendo le sue capacità, lei macinava quantità incredibili di carte, grafici, informazioni: non ha mai affrontato un problema senza studiarlo a fondo, lavorandoci giorno e notte. Ha affrontato severe fatiche senza risparmiarsi e più volte – con molti di noi – digiuni e disobbedienze civili, secondo la tradizione della nonviolenza radicale. Tutti non fanno che ripetere che il Paese deve molto al Partito Radicale: nessuno ignora che il divorzio, l’aborto protetto in ospedale, il voto ai diciottenni, l’abolizione della leva obbligatoria militare e molte norme del nuovo diritto di famiglia si debbono al lavoro paziente dei militanti Radicali, a raccogliere firme, a convincere i cittadini, a servire i loro diritti. Qualche Radicale forse ha fatto questo lavoro anche pensando al proprio futuro, qualcuno ha costruito con cura la propria carriera, e lo ritrovate poi in qualche altro partito; ma chi è tuttora iscritto al Partito Radicale ha sempre fatto militanza per un ideale, il servizio ai diritti dei cittadini. Così io, che dal Partito non ho mai voluto nulla, mentre ho dato tutto ciò che sono riuscita a dare, ho guadagnato con la professione tutto ciò che serviva alla mia famiglia e al Partito Radicale: e come me tanti altri, compagne e compagni che sono nelle professioni liberali ma anche negli uffici e nelle officine, intenti a guadagnarsi il pane ma pronti a correre alla chiamata di una raccolta di firme per referendum o proposte di legge, “scontando” le ferie.  Espulso dai mezzi di comunicazione, inascoltato perché non parla il linguaggio della violenza che fa proseliti, ma quello della fraternità e dell’amore che è tanto demodé, il Partito Radicale chiuderà i battenti se non riuscirà a raccogliere anche quest’anno almeno tremila iscrizioni, come stabilito dalla Mozione del 40° Congresso straordinario del Partito, che si è celebrato nel carcere di Rebibbia nei primi tre giorni del settembre 2016. Si tratta del minimo di risorse umane e finanziarie indispensabili per raggiungere gli obiettivi congressuali: una Giustizia più giusta, carceri più civili, gli Stati Uniti di Europa, il riconoscimento del diritto dei popoli alla conoscenza come diritto umano. Il Partito Radicale è nonviolento, transnazionale e transpartito: chiunque può iscriversi e nessuno può esserne rifiutato. Ma siamo ancora troppo pochi, ci vuole uno sforzo di generosità per compiere la Mozione di Rebibbia entro il 31 dicembre 2018.

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