L’imprenditore anti-delocalizzazioni: “Non è facile restare. Bonomi? Un chierichetto”

Alberto Croci, imprenditore brianzolo: “Ho ricevuto offerte da Canton Ticino e Carinzia, resto per i dipendenti e le loro famiglie. Ma in Italia tasse e burocrazia sono impossibili”.

“C’è chi dice no”, recita una delle tante poesie rock di Vasco Rossi. Già: come ci racconta l’imprenditore brianzolo Alberto Croci, alla delocalizzazione della produzione si può rinunciare, si può dire no, anche se le tentazioni nei piccoli come nei grandi imprenditori restano forti.

La concorrenza con i Paesi limitrofi nel mercato del lavoro e nei servizi alle imprese (non solo Paesi dell’Est, ma anche Austria) non molla, anzi alimenta la caccia al risparmio sul costo del lavoro degli imprenditori più spregiudicati o dei grandi fondi d’investimento.

“Se i governi italiani non si decidono a mettere mano all’enorme costo dei disservizi e della pressione fiscale sulle imprese – osserva Croci – il fenomeno della delocalizzazione crescerà a dismisura. Siamo assediati da offerte che vengono dal Canton Ticino, dalla Romania, dalla ex Jugoslavia e dall’Austria, e in molti casi le agevolazioni fiscali e infrastrutturali sono invitanti. Ma prima di arrivare al punto, se me lo permette, voglio raccontarle la mia esperienza imprenditoriale in Brianza.”

È proprio quello che le stavo chiedendo. Mi pare che lei abbia iniziato come operaio, o sbaglio?

No, non si sbaglia. Io sono del 1944 e ho iniziato a lavorare nel 1958. Sto parlando della mia terra, la Brianza: Erba, in provincia di Como, una cittadina a vocazione commerciale. Nel 1960 ho iniziato in un’azienda metalmeccanica come attrezzista, e intanto facevo una scuola serale di disegno tecnico. Nel 1965 la mia azienda è andata in crisi, non le dico il nome perché esiste ancora. Grazie a miei contatti in quell’anno sono stato chiamato a gestire un’altra azienda metalmeccanica e ci sono rimasto fino al 1996. Ero di fatto l’amministratore delegato. Dopo un’esperienza di cinque anni in un’altra azienda a Trieste, sono tornato nella mia Brianza perché ho trovato un’azienda interessante di otto dipendenti che produceva valvole per il settore energetico. Ed eccomi qui con la Techne, un’impresa che oggi conta cinquanta dipendenti.

È nel corso dell’ampliamento dell’azienda che ha avuto a che fare con il fenomeno della delocalizzazione? Ci racconti.

Ricordo bene quegli anni. Avevo la necessità di allargare gli spazi e per questo ho aperto un capannone nel 2012. Niente di speciale, dirà lei. E invece no: per aprire quel capannone è iniziata un’odissea burocratica che mi ha messo seriamente in crisi. Tenga conto che proprio in quegli anni ho ricevuto la prima proposta di delocalizzare una parte della produzione nel Canton Ticino. Le agevolazioni fiscali erano enormi e le regole di insediamento molto semplici: avrei dovuto stabilire un progetto che entro sessanta giorni sarebbe stato valutato e approvato da un garante che controlla i requisiti di accesso in Ticino.

Che cosa l’ha spinta a rifiutare l’offerta del Canton Ticino?

Cosa vuole che le dica? Forse le mie origini operaie. Come le dicevo io sono un imprenditore di prima generazione, ma ho iniziato come operaio. Così, malgrado l’odissea burocratica, decisi di restare in Italia; avrei dovuto mettere in grave difficoltà decine di famiglie. Tenga conto che si sarebbe trattato di un processo di delocalizzazione progressivo, all’inizio avrei tenuto due sedi ma poi spesso il trasferimento è totale. Una scelta di cui non mi pento, che si è ripresentata con un altro Paese nel 2017.

Si riferisce alla ricca Carinzia di cui mi accennava all’inizio della nostra conversazione?

Sì, la Carinzia. Le confesso che nel caso della Carinzia ho fatto fatica a rifiutare la delocalizzazione di alcune produzioni in Austria. Io per ragioni culturali amo l’Austria, sono convinto che Teresa d’Austria abbia avuto un ruolo determinante nelle amministrazioni del Nord, e in particolare della Lombardia. È da loro che abbiamo imparato ad amministrare, ne sono convinto. Tra l’altro per sviluppare il modello geotermico nel quale avevo deciso di specializzarmi mi facevano ponti d’oro, con grossi vantaggi nella ricerca e nello sviluppo. Alla fine anche in quel caso restai in Italia, ma le dico sinceramente che non fui per nulla facilitato nella mia scelta dalle autorità italiane.

Una considerazione amara per il nostro Paese. Quali sono gli ostacoli a restare in Italia?

L’alto costo dei disservizi e la fiscalità. Molti pensano che la ragione della fuga di molti imprenditori sia il divario tra il costo del lavoro in Italia e quello nei Paesi limitrofi, ma dipende dal settore. Certo, nella manifattura il lavoro incide per il 50% sui costi di produzione, ma in settori come il mio incide soltanto per il 20%. L’INPS incide per il 37% sul costo del lavoro; l’INAIL costa molto senza dare nulla ai lavoratori. Ma la vera sanguisuga è la finanza pubblica, è la mancanza di infrastrutture. I disservizi hanno un costo meno visibile ma altissimo. Tornando al mio progetto geotermico, alla fine di un iter burocratico terribile, decisi di acquistare il terreno agricolo che venne trasformato in terreno industriale, ma lei non immagina nemmeno l’odissea per risolvere i problemi tecnico-burocratici.

Un’operazione simile a quella di un altro brianzolo, Silvio Berlusconi, nell’insediamento di Mediaset. Tutta la zona di Pioltello era terreno agricolo. Agli atti giudiziari, con un processo concluso in Cassazione con la condanna di Paolo Berlusconi, risulta che grazie a tangenti agli amministratori locali il terreno da agricolo fu trasformato in industriale.

Davvero? Brutta storia. Comunque non confondiamo le diverse origini brianzole: il Berlusconi è un brianzolo della zona di Monza, dunque di tradizione romana. Io sono un brianzolo di origine ambrosiana, tutta un’altra faccenda. Ma lei lo sa cosa fece Sant’Ambrogio lasciando Monza quando in pratica lo cacciarono dalla città?

No, non lo so. Me lo dica lei.

Si tolse le scarpe, le spolverò per bene e disse ai suoi discepoli che lo osservavano: “Non voglio portare neppure la polvere di Monza a Milano”. Questo tanto per dire che i brianzoli non sono tutti uguali.

Dopo questa divertente digressione, torniamo al suo cahier de doléances per fermare la delocalizzazione.

Bisogna che i governi si attrezzino con servizi a 360 gradi per facilitare il mondo delle imprese. Pensi alle Ferrovie Nord: da quanti anni si discute di una loro modernizzazione? Vedo in questi giorni che si discute di bollette ed energia. Speriamo che facciano qualcosa, perché come sanno molti imprenditori che vogliono restare in Italia, l’energia è un costo enorme, insostenibile se vogliamo essere competitivi con gli altri Paesi. Cambiando settore, prendiamo un tema scottante come quello dell’ILVA. Chi ha permesso, ai tempi dell’insediamento dell’ILVA, di costruire le abitazioni tutto attorno alla grande fabbrica? Io ricordo che quando andavo in ILVA per lavoro respiravo polvere, era terribile. Ora che fine faranno i 12.000 dipendenti? Si potrebbero citare decine di casi industriali, ma se lei va a vedere che cosa hanno in comune è la mancanza di servizi, la carenza di infrastrutture che facilitino lo sviluppo delle imprese. Quando dico che le imprese vanno protette penso anche al Made in Italy. Io non sono mai stato per i dazi, ma in alcuni settori industriali la concorrenza cinese è ormai devastante. Bisognerebbe almeno garantire che il Made in Italy venisse prodotto in Italia.

Alla fine di questa conversazione, mi permetta di farle due brevi domande politiche. Che cosa ne pensa dell’attuale presidente di Confindustria, e che cosa ne pensa di Mario Draghi?

Il presidente di Confindustria? Le posso rispondere sinceramente? A me sembra un chierichetto, uno senza spessore per occupare quel posto. Io, se lo vuole sapere, ci avrei visto bene un Bombassei. Per quanto riguarda l’attuale presidente del Consiglio, credo che grazie alla sua competenza abbia dato finalmente all’Italia un’immagine più credibile, in Europa non siamo più ridicolizzati. Però sono anche convinto che è circondato – a parte i ministri scelti da lui – da molti incompetenti spesso annidati nei 5 Stelle. È vero che Mario Draghi riesce a fare quello che vuole, ma nel suo esecutivo ci sono troppi scompensi.

Photo credits: ladiscussione.com

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